Partire in ritardo è una necessità fisiologica. Hai bisogno di quella sensazione specifica. Le narici si dilatano leggermente, i canali adrenalinici si aprono a flussi che scuotono le viscere. Mi appresto a sfidare i viali notturni di Bologna con la mia bicicletta da rider proletario. Via Saffi nasconde una gradita sorpresa: il celebrato falso piano, quello che se sei d’estate in bici dal lato sbagliato sudi come un maiale senza nemmeno accorgertene. In discesa le ruote cigolano che è un piacere. Sfrecciamo verso la via Emila, in un percorso senza ostacoli che taglia la strada a pizzerie dai nomi floreali, pompe funebri dalle insegne blu fluorescente e negozi etnici che vantano slogan ecumenici. “Eurobangla”: la pace nel mondo parte dal mercato.
E poi lei: un ombrello di ricci che nasconde un faccione sorridente. La illumina un faro dall’alto, albero isolato che ondeggia nel deserto. La forza terrena dei suoi larghi fianchi si trasmette al vestito ricoperto di pailettes, che si trasforma in sorgente di energia elettromagnetica. Un pianeta sconfinato che riflette lampi argentati nella galassia dipinta di magenta del palco.
Il rossetto verde acqua si stende sulle labbra carnose. Gli zigomi si alzano, si apre una voragine tra le guance e gli dei si fanno carne nella voce di Amy Leòn. Lei è lì, sul palco, ma risuona subito dentro di te. Ti tocca, non è retorica banale. Fa vibrare davvero qualche corda nascosta del cuore. La logica va in frantumi lasciando spazio a connessioni etimologiche, e scattano ricordi che si fondono in uno stato emotivo cangiante, palla stroboscopica in balia delle note.
Un crescendo di grida sincopate termina con un sospiro, singhiozzi e lamenti si alternano a risate con la bocca spalancata. Organo che soffia a frequenze bassissime, graffianti, e poi si tramuta in ottavino squillante: l’esploratrice del suono salta da gravità baritonali ad altezze sconfinate investendoci con onde di pressione, e ci lascia incollati alla sedia.
Potresti anche ridere per un’ora e sarebbero tutti lì a guardarti, Amy. Li hai conquistati tutti: la platea variegata nonostante la dominante in giacca e cravatta, scaglia via i tacchi del perbenismo. Stanno al tuo gioco, Amy: direttori di aziende, intellettuali in assetto borghese, manager di multinazionali si lasciano andare a un’onda collettiva di inspirazioni ed espirazioni, urlano fino a coprire la tua voce, fischiano per il bis.
“It’s so beautiful to be alive”: il canto diviene un inno alla vita. Urlo dionisiaco che risuona nei passi di satiri che sanno udire la danza dell’essere. Sempre accompagnata dalla fedele morte. Le note si attorcigliano lungo le parole amare di una donna nera che ha fame, mentre i denti sanguinano e la rivoluzione non arriva.
Gioia di vivere, intento pedagogico e denuncia sociale. Insomma, non solo una performer d’eccezione, ma anche una penna affilata che sa unire sguardo poetico e problematiche quotidiane con una voce che sfida i limiti dell’udibile umano, senza scadere nel mero virtuosismo tecnico. La sua vitalità dilaga tra il pubblico e appiana ogni differenza sociale: ci troviamo catapultati dall’altra parte del fiume, quella degli esclusi. E da qui la vista non è poi così male. Solo che quel paradiso del benessere che prima ci pareva a portata di mano, adesso è lontanissimo: ci divide l’abisso della disuguaglianza.
Federico Tonegatti
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.