In primo piano, sulla sinistra, una giubba rossa, forse un soldato in posizione di riposo. Il soldato, primo spettatore, osserva una donna seduta poco più in là: il seno scoperto, un bambino tra le braccia. In mezzo a loro solo macerie, mentre un temporale si avvicina. È La tempesta di Giorgione proiettata sul fondo del piccolo teatro della Scuola Holden di Torino, rievocata con un pizzico di dissacrante ironia all’inizio dello spettacolo Causa di beatificazione di Massimo Sgorbani, regia di Michele Di Mauro. Questo concerto «per voce e tempesta» ha debuttato in prima nazionale all’interno del Festival delle Colline Torinesi, parte di un programma interamente dedicato alle declinazioni del viaggio, alle migrazioni umane. In scena vediamo Lei (Matilde Vigna), di spalle, la zingara del Giorgione, la Madonna lactansdell’iconografia cristiana, ma priva dell’aureola e lontana – almeno per adesso – dalla beatificazione. Lui (Giulio Cavallini), appoggiato al manico di una scopa, la osserva stringere in grembo un fagottino che si mostrerà vuoto, simbolo di una mancata maternità – tema dominante nello spettacolo – e filo rosso capace di tenere insieme tre storie diverse.
Causa di beatificazione è diviso in tre canti in cui ogni protagonista è destinata alla sconfitta. Il rapporto che le tre donne instaurano con l’essere madre è un rapporto venuto meno, una maternità subita e, qualora desiderata, irrealizzabile. La protagonista del primo canto è una giovane di Prishtina costretta a prostituirsi per poco durante la guerra del Kosovo, ancora una bambina con «il cervello di formaggino e i pensieri di figurine», una beata dalla minigonna arancione innamorata del soldato venuto dal cielo, come le bombe, che con altrettanta irruenza esplode dentro di lei. Quell’amore come «un treno blu e veloce» le cresce nella pancia insieme alla disattesa promessa di essere portata via. Non le resta allora che sporcarsi di beatitudine, espiare la colpa guardando da lontano il bambino che non ha potuto crescere. La seconda storia prende ispirazione dalla figura di Wafa Idris, la prima donna kamizake nel conflitto israelo-palestinese. Sulla protagonista pesa l’onta più grande che si possa immaginare in un mondo dove l’infertilità è peccato: il suo è un grembo di sabbia, un guscio vuoto. L’unica redenzione possibile è partorire una bomba, così da potersi dissolvere mettendo al mondo il suo bambino. L’ultima storia è ispirata alla mistica Angela da Foligno e racconta di una suora col velo di pelle a cui viene strappato il figlio dal ventre. Frutto nato da un seme che lei rivendica come divino, perché «l’amore non ha bisogno di cielo per scrosciare, l’amore cola dai muri, e cola anche dalle labbra spaccate» delle punizioni corporali.
L’illuminazione è mirata, significante, numerosi sono invece gli elementi scenici, forse troppi, che rendono lo spettacolo strabordante. A questi si aggiunge una ricca colonna sonora che rischia a volte di risultare didascalica. La lingua di Sgorbani, infatti, è già viva e vibrante di sonorità, la sintassi pregna di un fortissimo flusso musicale.
Lo spettacolo ci racconta della crudeltà terrena e dell’indifferenza divina resa onnipresente dalla furia del temporale che unisce i tre monologhi. La silenziosa figura maschile è un non-personaggio, perlopiù servo di scena, osservatore passivo di una poliedrica Matilde Vigna che si dimostra capace di incarnare con asciuttezza le diverse sfumature di un’unica donna. A Cavallini va però il merito dell’articolata struttura di immagini e video (anche in presa diretta) che accompagna l’intero spettacolo, creando un alter ego dell’attrice sullo schermo e un gioco iconografico di rimandi pittorici.
foto di Andrea Macchia
L'autore
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Laureato in Istituzioni di regia all'Università di Bologna, si interessa di arti performative e di critica teatrale. Collabora con Emilia Romagna Teatro Fondazione, affiancando all'attività di studioso quella di dramaturg.