(da H. G. Wells, The War of the Worlds, trascrizione dell’adattamento radiofonico di Howard E. Koch andato in onda il 30 ottobre 1938 sul Columbia Broadcasting System)
Spegnere le luci
Spegnere le luci e impedire l’ascolto ai bambini – queste le indicazioni trasmesse nei pochi istanti che precedettero la messa in onda del primo radiodramma della storia, Danger, di Richard Hughes. Così nasce il teatro sonoro: tra gli anni Venti e gli anni Trenta del secolo scorso – a qualche decade di distanza dall’invenzione del suo tramite originario, la radio – trovò i natali in Inghilterra, per poi diffondersi rapidamente nel resto d’Europa, con esiti abbastanza produttivi, oltre che in patria, in Italia e in Francia. Orfano di un nome tecnico univoco, in ogni paese venne accolto con un appellativo diverso, motivo per cui in Italia fu chiamato inizialmente “teatro per ciechi”.
Una definizione che già in nuce conteneva, nel concetto di cecità, l’idea di un pubblico che, in quanto privato dell’elemento visivo, dovesse supplire con l’immaginazione alle mancanze del mezzo; e al contempo l’idea di un mezzo che, mirando all’immedesimazione degli spettatori attraverso l’aderenza tra ambientazione e condizioni d’ascolto, ovvero attraverso espedienti quali appunto lo spegnere le luci, dovesse supplire alle mancanze del pubblico.
Nutrito del clima irrequieto che seguì e anticipò gli anni della Prima Guerra Mondiale e della Seconda Guerra Mondiale, il radiodramma si sviluppò in grembo a ambientazioni e toni notturni, anche e soprattutto in ragione dei limiti e delle incertezze di un’arte ancora giovanissima e in via di sperimentazione, nonché di un pubblico appena iniziato alla sua conoscenza, che necessitava di stimoli forti per restare in ascolto: cosa meglio della paura?
«Il teatro per ciechi, o radiodramma, nasce dunque di notte, non solo perché viene trasmesso in prima o seconda serata, ma soprattutto perché l’ambientazione è spesso notturna. Ciò che si vuole esaltare è la dimensione di cecità, per creare immedesimazione tra l’ascoltatore e il protagonista della vicenda. Durante gli anni Venti e Trenta, la notte alla radio, più che evocare una dimensione lirica o onirica, serve a suscitare, secondo strategie tipiche della narrazione popolare, un effetto di paura» scrive Rodolfo Sacchettini, critico teatrale ed esperto del radiodramma e del teatro sonoro, nel saggio Scrittori alla radio: interventi, riviste e radiodrammi per un’arte invisibile (Firenze University Press, 2018).
Dal nominato Danger per l’Inghilterra, a Venerdì 13 di Gigi Michelotti per l’Italia, passando per Spunk di Rolf Gunold per la Germania, Maremoto di Pierre Cusy e Gabriel Germinet per la Francia, e La guerra dei mondi riadattato dalla compagnia di Orson Welles per l’America – eclatante caso di ricezione terrorizzata da parte del pubblico –, nessuno dei primi radiodrammi si astenne dall’aggiungere un pizzico o un buon pugno di paura, nella propria storia, agli ingredienti che allora caratterizzavano il genere: un numero contenuto di personaggi, voci chiare e ben distinguibili e un inventario di rumori finalizzati a tracciare da un punto di vista uditivo la distanza e lo spazio dell’azione.
Successivamente l’evolversi delle tecnologie si adeguò al cambiare dei tempi e delle esigenze, a loro volta determinate dall’evolversi delle tecnologie: valgano come esempi l’utilizzo del nastro magnetico a partire dal dopoguerra e il sorgere più avanti, nell’uso comune, della rete, con la creazione di strumenti di supporto e diffusione indipendenti dalla radio, quale il formato del podcast. Il teatro sonoro imboccò, seppur nel suo lento trasformarsi, la direzione intimista che oggi lo contraddistingue; lo spazio della narrazione si spostò da un piano esteriore a un piano interiore, e di conseguenza la necessità di descrivere un ambiente definito venne meno a favore del potere di per sé evocativo dello spazio mentale del pensiero, con il prevalere di una combinazione accorta di musica e voce sulla vecchia scelta dei rumori “di scena”.
È avvenuto così che, nel momento della chiusura dei teatri, a dimostrarsi il canale artistico più efficace e produttivo per affrontare la preclusione della presenza sia stata proprio quella forma di drammaturgia maggiormente distante dal punto di vista etimologico dall’atto teatrale (la radice del verbo greco theáomai, da cui “teatro”, indica contemplazione visiva piuttosto che uditiva), e dunque ai confini dello spettro di intervento del genere. E questo in virtù della sua libertà dai vincoli dello spazio e del tempo della performance.
D’altra parte, la condizione di isolamento cui siamo stati sottoposti in periodo di quarantena si è rivelata perfetta per l’ascolto del teatro sonoro, in quanto è venuta a coincidere e di conseguenza è risultata compatibile con quella dell’uditore ideale descritta da Carlo Emilio Gadda nelle sue Norme per la redazione di un testo radiofonico: «Il pubblico che ascolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di “persone singole”, di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di “pochi intimi”» (da Saggi giornali favole, vol. I, Garzanti, 1991).
Ma c’è un ulteriore punto con il quale la radiofonica arte invisibile, per citare un altro titolo di Sacchettini, si è trovata a fare i conti in questi mesi: il teatro sonoro ha dovuto confrontarsi ancora una volta con la paura, e proprio la paura dell’isolamento, la paura della gabbia, la paura dell’immobilità artistica ancor prima che della malattia è stata direttamente il motore o indirettamente il pretesto per una piccolissima ma promettente “rifioritura” del genere. Questa inchiesta nasce con l’obiettivo di passare in rassegna i contenuti prodotti nei giorni della pandemia e di esaminare, attraverso l’incontro con alcuni degli artisti che hanno investito energie nella realizzazione di radiodrammi e podcast, come si stia profilando il nuovo rapporto tra paura e teatro sonoro.
Chiudere gli occhi
Se si escludono quelle iniziative in lizza per la diffusione del teatro sonoro già da diverso tempo prima dell’esplodere dell’emergenza sanitaria, come il palinsesto di Rai Radio 3 dedicato al teatro d’archivio e all’informazione teatrale, diversi sono stati i progetti che nel campo del radiodramma e del podcast hanno accompagnato la quarantena degli spettatori-ascoltatori italiani. Quasi tutti hanno trovato la loro origine, il loro presupposto e la loro ragion d’essere nel perdurare del lockdown.
Tuttavia, la prima produzione radiofonica in ambito bolognese che, pur non essendo scaturita in occasione della quarantena, ha registrato in diretta gli immediati segni della chiusura è stato il programma di intrattenimento Daily Kepler, progetto di Kepler-452 andato in onda su Radio Città del Capo nell’ambito di VIE Festival 2020. Il decreto ministeriale del 23 febbraio ha infatti colto il Festival nel pieno del suo svolgimento, interrompendone tutti gli eventi, fatta eccezione per le performance giornaliere alla radio. La sopravvivenza di Daily Kepler ha calzato a pennello la situazione che si sarebbe delineata in seguito: la trasmissione aveva già preso il largo con la volontà di sviscerare, attraverso l’alternanza di momenti più narrativi e di altri più discorsivi, una questione che nei mesi a seguire si sarebbe rivelata se non ossessiva, onnipresente al livello implicito in qualsiasi dibattito sull’epidemia e sulle sue conseguenze. Una questione rischiosa, perché, se declinata in relazione al contesto che ancora nessuno sarebbe stato in grado di prevedere, capace di minare alla base tutte quelle stesse iniziative teatrali che, trattando da un punto di vista artistico la stessa materia della quarantena (e quindi della paura), avrebbero di lì a poco tentato di arginarla. In sostanza, un interrogativo che, prima ancora di prendere in considerazione le produzioni di teatro sonoro che hanno visto la luce in tempo di contagio, sarebbe bene porre per premessa: perché, in situazioni di paura, ci si sente “in dovere” di raccontare la paura? Lo si è davvero?
«Secondo me, ha senso parlare di paura nella misura in cui la politica e la ricerca del consenso elettorale si servono del suo impiego scientifico. Ci sono partiti che reggono le proprie forze sulla promessa di dare una risposta al bisogno di rassicurazione che deriva dalla paura, da loro stessi promossa. Tuttavia la paura non nasce in seguito a disegni politici, bensì all’insicurezza e all’assenza di protezione, derivanti da difficoltà di tipo economico. Principalmente, in una società capitalista, dall’impoverimento delle classi medie» risponde Nicola Borghesi, attore della compagnia, in riferimento agli scopi di riflessione del loro programma. Dopo essersi ripromessi di non affrontare il tema del virus, gli stessi Kepler-452 hanno ammesso in diretta, con un sorriso, di non essere riusciti a fare diversamente. Non sempre il limite tra il parlare dell’emergenza e il parlarne troppo si manifesta in una netta distinzione tra l’una e l’altra cosa: «È difficile dire quando il troppo è troppo» continua Borghesi «Il punto è che questa paura è già troppa nella realtà. Se tu interroghi la realtà e la realtà ti risponde paura, è normale che chi come noi si ritrova a maneggiare la realtà racconti paura. Poi ci ragionerà sopra e cercherà di analizzarla, però il suo troppo non dipenderà da quanto avrà calcato la mano ma da quanto la realtà gli avrà riproposto questo troppo».
Senza contare che una simile questione, a seconda della prospettiva da cui si intenda analizzarla, può oscillare da un piano pratico a un piano etico: quando servirsi della paura – anche con buoni propositi – diventa abusarne?
Anche in questo caso il confine che intercorre tra uso e abuso si riduce a una linea sottile. Sottile, ma non invisibile, come sostiene Michele Bandini dello Spazio Zut di Foligno, ideatore e produttore del radiodramma a puntate La quarantena del Signor Zut: «Non credo che giocare con la paura spingendo sui soli elementi catastrofici di una vicenda di attualità possa essere interessante. Andrebbero, invece, stimolate prospettive alternative di indagine, di ricerca e di rielaborazione artistica della condizione di realtà. L’utilizzo della paura nella creazione di teatro sonoro dovrebbe avere quella funzione catartica grazie alla quale l’esporsi e il confrontarsi con qualcosa di spaventoso diventi possibilità di esteriorizzarlo e affrontarlo.
«Nella costruzione di opere di teatro sonoro penso sia interessante mantenere un’alternanza e un equilibrio tra elementi quotidiani di cronaca, di realismo, ed elementi onirici, scuri, ma anche momenti leggeri, talvolta addirittura comici, e questo con l’intento di creare una dinamica di intensità e di stimoli diversi che possano far affiorare questioni e riflessioni, e aprire a possibilità di immersione ed emersione da parte dell’ascoltatore».
Conformemente con quanto precisato dal suo autore, La quarantena del Signor Zut non teme di “sporcarsi le mani” con il tipo di quotidianità che ha scandito lo scorrere di questi mesi. Nonostante ciò, Michele Bandini si premura di farlo non con i modi chiassosi dei dibattiti televisivi, ma con il silenzio dell’isolamento, delle case vuote, quel silenzio assoluto cui Morselli, in Dissipatio H. G., ha dato un suono ben preciso: «Tutti gli elementi del teatro sonoro alimentano nell’ascoltatore una complessità emotiva e stimolano una grande libertà immaginativa, e penso che il suo ruolo, qualora la tematica affrontata si occupi di paura, debba essere proprio quello di facilitare l’attraversamento di questa emozione, stimolando un movimento di avvicinamento e di allontanamento, di andata e di ritorno, in cui la scrittura e la costruzione drammatica non forniscano però elementi di pseudo-cronaca». L’ascoltatore ruba brandelli di riflessioni, di incontri, di dialoghi dalle giornate del Signor Zut, una persona come tante, e come tante sottoposta alle misure restrittive e alle inquietudini della pandemia. Un’aura di attesa, una sensazione di inesorabile passività di fronte a ciò che appare più grande e forte del singolo pervade il clima soffuso di questo radiodramma.
Tutt’altra strategia stilistica è stata quella adottata dai podcast della compagnia exvUoto teatro (Vicenza), Nella Tana del coniglio e Canto dello schianto. Mentre il primo propone, con ambizioni più tradizionali, delle letture di racconti, il secondo inonda le cuffie dell’ascoltatore con un fiume di parole di concetti di pensieri ad alta voce che a fatica rientrano negli argini di genere della prosa, del verso o del canto. La scelta, che trova un ottimo alleato nella musica elettronica, è condizionata da un atteggiamento mimetico nei confronti dello scopo del radiodramma: descrivere quella forma di frenesia che, una volta costretti all’immobilità, ha contagiato molti ancor prima del virus; quel desiderio del fare che ci ha colto proprio quando eravamo ostacolati in tutto.
Interrogato sul rapporto tra il teatro sonoro e la paura di questi giorni, Tommaso Franchin, curatore dell’iniziativa, ha spiegato: «Il nostro progetto di podcast, che si sta declinando nelle letture de La Tana del coniglio e nella scrittura di Canto dello schianto, non è partito da un’indagine sulla paura quanto piuttosto dal sentimento di solitudine e da quel sentimento esplosivo e ineffabile che a volte ci pervade, quel voler cambiare qualcosa, un desiderio di altrove, un’inquietudine che si tramuta a volte in angoscia e forse in paura. Ma è qualcosa di non studiato, non vogliamo creare paura in chi ci ascolta. Abbiamo affrontato il problema dell’attenzione dello spettatore creando podcast di breve durata (max 10 minuti) accompagnati da musica elettronica composta ad hoc.
«Per La Tana del coniglio la selezione dei testi è avvenuta grazie alla collaborazione con alcuni hikikomori (“hikikomori” è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte” e viene utilizzato in gergo per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i propri genitori) a cui abbiamo chiesto di condividere con noi le loro letture, di cosa sia fatto il loro mondo. D’altro canto ci piace pensare che sia importante confrontarsi anche con le emozioni oscure, più profonde ed istintuali, emozioni che di solito sono loro stesse a suscitare paura. Inquietudine ed angoscia sono emozioni spiacevoli, ma necessarie, e la paura troppo spesso viene usata come puro intrattenimento».
Tuttavia, non tutti i contenuti realizzati durante la quarantena hanno ricercato nella quotidianità della reclusione carburante narrativo per le loro analisi – questo, per ovvi motivi, ha avuto luogo per quanto riguarda il teatro ragazzi, nel cui ambito moltissime compagnie e diversi enti si sono cimentati nella lettura in podcast o addirittura al telefono di favole e fiabe, dando così vita a forme nuove e singolari di teatro sonoro, appositamente pensate per i più piccoli.
Al contrario, spesso l’isolamento e l’attesa si sono tramutati in pretesto di evasione, in virtù della forza immaginativa del mezzo puramente acustico: «Il radiodramma può essere considerato come una iconoteca, come una stanza in cui si producono, si ricevono e si consumano immagini. La sua cifra consiste nell’ascolto, quindi le immagini sono senz’altro immagini mentali, ma le scienze cognitive ci insegnano che per la mente umana non esistono sostanziali differenze tra immagini provenienti dall’esterno e immagini interiori. A livello neuronale la differenza non esiste: chi dice quindi che debba subentrare uno scarto nella profondità del pensiero?» rifletteva Gianni Farina della compagnia Menoventi in un’intervista di Simone Caputo e Alessandra Cava uscita per AltreVelocità nel 2011.
Se valido in termini teatrali e immaginativi può considerarsi lo sfasamento spazio-temporale tra luogo-momento della parola e luogo-momento della ricezione, altrettanto valido può considerarsi lo sfasamento spazio-temporale tra luogo-momento della narrazione e luogo-momento dell’ascolto: il teatro sonoro in tempo di quarantena si fa così veicolo di esplorazione dei propri spazi interiori, di quell’iconoteca di rappresentazioni che popola il nostro immaginario.
È stato il caso di Sparizioni, podcast in sette puntate a cura di Muta Imago trasmesso all’interno del palinsesto di Radio India: Claudia Sorace e Riccardo Fazi, rifugiati dall’imperversare del virus in un Deserto di Sonora che è spazio mentale, sonoro appunto, astratto da ogni coordinata cronologica e topografica, piuttosto che luogo di arbusti, sabbia e vento, leggono loro lettere rivolte a personalità dello spettacolo, del giornalismo e della divulgazione scientifica. È la vittoria del deserto, del suo fascino, del fascino della scomparsa e del nulla a dispetto della consumistica esigenza di esistenza che anche in quarantena ha risucchiato le nostre energie. Pur senza parlare dell’emergenza, i Muta Imago, con la delicatezza sfumata delle cose viste da lontano, affrontano l’emergenza e le sue contraddizioni.
Un altro intervento nell’intervista sopra citata, quello della compagnia Teatro Sotterraneo, si addice a essere recuperato in questo contesto, seppure a diverso tempo di distanza: «Nella dimensione di puro ascolto il radiodramma amplia le possibilità di menzogna, che sono al contempo possibilità di verità altre [..]. Perché il radiodramma può mettere l’ascoltatore in crisi, può ancora indurlo a chiedersi: “ma sta accadendo davvero?”». Credo che in un certo senso una cosa simile si sia verificata in questi mesi. Anche quando la cronaca non è stata presa di petto, deviare dalla realtà non ha significato svicolare da un commento critico dei fatti. Anzi, chiedersi “ma sta accadendo davvero?” ha portato con sé un’altra domanda: “se ciò che sta ha accadendo nella mia immaginazione sta accadendo davvero, allora che ne è di ciò che sta accadendo nella realtà? Come e soprattutto perché la realtà sta accadendo davvero?”.
Sparire nell’attesa
Da alcuni giorni, se non particolarmente il mondo dello spettacolo, buona parte del paese comincia a intravedere la fine di questo tunnel: la fine della reclusione e il limbo della tanto discussa fase 2. Si percepisce, nell’aria, un modo diverso di approcciarsi al problema virus – la paura che nei primi tempi aveva svuotato i supermercati e le farmacie sembra ora essere stata ricondotta sotto il giogo della ragione. Un modo nuovo di vedere la questione, orientato ai corollari dell’epidemia e alle sue conseguenze piuttosto che ai suoi effetti diretti: superato il contagio, saranno altri i problemi che ci metteranno in crisi – questa la sensazione che si riceve guardandosi intorno. E se nella fase 1 la paura del contagio è scivolata, in un modo o nell’altro e più o meno volontariamente, sotto il microscopio del teatro sonoro, è facile domandarsi se le paure che si annidano alle porte della seconda fase, così come quelle che si manifesteranno nelle fasi a venire, troveranno ancora una volta un loro corrispettivo in questa disciplina. Agli artisti contattati è stato chiesto di quali paure ci sarà bisogno di parlare in futuro e quali nuove narrazioni ne potranno scaturire nell’ambito del teatro sonoro.
C’è chi già con largo anticipo ha prevenuto il momento in cui le norme di comportamento evolveranno verso condizioni più permissive: i Kepler-452 hanno promesso sui propri canali social uno spettacolo audioguidato, Lapsus Urbano, da svolgersi appena possibile all’aperto e, nel rispetto delle distanze di sicurezza, tramite cuffia – una modalità già sperimentata, ad esempio, dai Rimini Protokoll per l’evento Remote X. La paura avrà la sua parte, ma sarà il naturale esito della paura a essere il vero centro dello spettacolo, ha confessato Nicola Borghesi: «La paura di solito va di pari passo con la rabbia, l’abbiamo visto nel susseguirsi delle emozioni principali che hanno caratterizzato questa pandemia: col passare del tempo la rabbia ha preso il posto della paura. Rispetto a Daily Kepler, pur parlando di paura, in Lapsus Urbano si racconterà di come questa paura possa facilmente trasformarsi in rabbia. Quando percepisci il bisogno di una rassicurazione che non puoi ricevere, provi rabbia. Da qui la necessità di ricercare un nemico: se ho paura e non posso vincerla con gli strumenti che ho, cercherò qualcuno da combattere, un nemico di cui pensare che se non ci fosse, io non avrei paura».
Tuttavia, Tommaso Franchin giustamente osserva che qualsiasi paura, presente o futura, può essere parimenti ricondotta al timore dell’ignoto, che nelle sue diverse declinazioni è sempre e universalmente rimasto lo stesso: «Non crediamo che ci sarà bisogno di parlare di nuove paure, quanto piuttosto di affrontare quella grande paura che le riunisce tutte e che in questo periodo è stata solamente amplificata: quella per il futuro, per la vita stessa. Questa è la ragione per cui stiamo scrivendo Canto dello Schianto. Quando spediamo le puntate di Canto dello Schianto riceviamo in risposta feedback che ci riportano al bisogno di confrontarsi con l’angoscia, generalmente il tenore dei messaggi è “inquietante e reale, così mi sento ora, grazie”. Non so dire quali nuove narrazioni nasceranno ma spero che da un più sereno rapporto con la nostra parte irrazionale (e con sereno intendo anche la capacità di gestirla e non solo di subirla) nascano nuovi linguaggi che si sviluppino dal tentativo di entrare sempre più in relazione con chi ci ascolta, al tempo stesso spero che anche il pubblico senta sempre di più il desiderio di confrontarsi con questo tipo di emozioni senza fuggirle né rimuoverle».
Rivolto al futuro, ma in senso opposto, è anche il pensiero di Michele Bandini: «Le paure delle quali dovrà interessarsi il teatro sonoro credo che siano quelle riguardanti il futuro. Parlare di quello che sarà, penso sia uno degli stimoli più interessanti di questo momento delicato. La paura che scaturisce da questa nuova consapevolezza, della universale e ormai riconosciuta fragilità umana, che ci proietta in avanti con un passo incerto e che reimmette l’umanità al centro della dialettica riguardante la propria esistenza e sopravvivenza».
D’altronde, viene da aggiungere, proprio a causa di questa fragilità, è sempre difficile fare predizioni. Seppur nell’impazienza di vedere – o ascoltare – quello che sarà, per dirlo con le parole di Bandini, non ci resta che aspettare. È forse questo sentimento dell’attesa, che in tutti questi podcast e radiodrammi ha alzato la propria voce addirittura al di sopra di quella della paura, sbandierando una paura ancora più inquietante: quella della passività, quella non poter reagire, perché piccoli e deboli al cospetto degli eventi. Nel loro essere sonori, hanno tutti indagato questo silenzio che si è aperto nella storia. Dobbiamo aspettare ancora un poco. Scomparire, dimenticarci di noi stessi, da ascoltatori, nelle loro voci e nelle loro storie. Scomparire come scompare nel radiodramma il personaggio che resta in silenzio.
Elisa Ciofini
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.