Çiplak Ayaklar è il verso di una poesia del poeta Ilhan Berk e in turco significa “piedi nudi”. Così il percorso di questa compagnia di danza contemporanea basata a Istanbul sembra essere coerentemente improntato alla totale sincerità e alla totale indipendenza. Attivi da più di 10 anni, il loro essere un collettivo si esprime anche nella condivisione di una struttura teatrale autogestita, che è piano piano diventata un punto di riferimento per la scena locale. Il coreografo e performer Mirhan Tomasyan e la danzatrice Duyugu Güngör ci raccontano la storia della compagnia, la loro concezione del movimento e dello spazio, le difficoltà dovute ai conflitti interni del paese e le ragioni di un profondo impegno artistico e politico che dura ancora fino a oggi.
Come si è formato il collettivo Çiplak Ayaklar?
Ci siamo laureati tutti nello stesso dipartimento dell’Università “Mimar Sinan” di Istanbul nel 2003 e, contrariamente a quanto succede per altre discipline, le occasioni di intraprendere la propria carriera nel campo delle arti performative sono praticamente nulle in Turchia. Esiste soltanto una compagnia statale di danza contemporanea, così come risulta difficile aggregarsi a collettivi già costituiti. D’altronde lo studio stesso della danza contemporanea è di istituzione recente: basti pensare che il dipartimento della nostra università è stato fondato solo nel 1993.
Dunque il fatto di unirsi e provare a portare avanti dei progetti indipendenti era una scelta molto naturale, se non obbligata. Così per circa cinque anni non abbiamo avuto una sede fissa e ci siamo esibiti all’interno di vari festival, cercando anche di invitare coreografi dall’estero e promuovere incontri nel tentativo di costruire una sorta di “comunità” per chi si occupasse di arti performative. Infine nel 2007 abbiamo trovato il nostro spazio nel quartiere di Cihangir [che in quegli anni era un vero e proprio ricettacolo di esperienze culturali, NdR]. Nel tempo il nostro studio si è trasformato in un piccolo teatro in cui produrre e mostrare i propri spettacoli, organizzare corsi e workshop per non professionisti, ospitare altre compagnie. Ma non si tratta di progetti precostituiti: anzi, spesso sono stati i nostri stessi spettatori a proporci di offrire lezioni e laboratori in cambio di un aiuto per pagare l’affitto. Inoltre, il rapporto con gli abitanti del quartiere non è esente da problemi. Si tratta comunque di una zona conservatrice: non appena ci siamo trasferiti, alcuni dei vicini si rifiutavano di parlare con i membri femminili della nostra compagnia. Negli anni ci siamo dunque adoperati per costruire un rapporto e per provare a mostrare loro cosa facevamo in questo spazio.
Avete parlato del tentativo di costruire una comunità della danza contemporanea. Come si è evoluta nel frattempo la situazione?
In realtà la danza contemporanea e le arti performative sono praticamente invisibili in Turchia, e per “Turchia” praticamente si intendono i soli poli di Istanbul e Ankara. Ci pare che dopo il picco del 2010, quando Istanbul è stata Capitale Europea della Cultura, la comunità di performer e coreografi si sia dissolta e si trovi ora in una sorta di “anonimato”: il pubblico è ristretto e non c’è alcun dibattito pubblico sull’argomento. Inoltre, molti dei conservatori e delle accademie che pure erano numerosi fino a qualche anno fa sono stati gradualmente chiusi e così tante delle sale teatrali.
Tuttavia, questo genera per reazione una forte capacità di adattamento: già all’università siamo stati spinti dai nostri stessi professori a crearci anche delle competenze artigianali oltre che artistiche, dal controllo delle luci al montaggio dei palchi. E, ugualmente, sembrerebbe che le restrizioni della libertà di espressione, la censura statale stiano generando una reazione culturale urgente e incisiva. Il teatro e la musica, al contrario della danza, stanno crescendo e ogni anno si producono in maniera indipendente nuovi testi, si formano nuove compagnie e artisti che magari si esibiscono in spazi non convenzionali, negli appartamenti… anzi, devo dire che ultimamente apprezzo molto di più il teatro turco o proveniente da area dell’est come Iraq, Iran, Armenia che quello europeo. Lo trovo più ancorato alla realtà, più feroce e incisivo.
La censura governativa è aumentata negli ultimi tempi?
La “mano” dello stato sulla cultura e sull’arte è sempre stata presente in Turchia. Certamente ora sono arrivate leggi e restrizioni più severe, nel circuito ufficiale c’è un controllo dei testi più rigido e si ha la sensazione che la morsa della censura coinvolga un numero di artisti sempre maggiore: adesso per noi è molto più facile di prima conoscere qualcuno che ha o ha avuto problemi in questo senso.
Inoltre, si sta generando un clima di timore. Recentemente abbiamo parlato con una compagnia formata da numerosi elementi curdi e ci raccontavano di come vengano invitati a molti meno incontri, conferenze o festival o, se vengono invitati, succede solo all’ultimo momento. È evidente che le organizzazioni culturali hanno paura di contrapporsi alla linea governativa. A ciò si aggiunge magari la paura delle persone: l’anno scorso dopo i tre attacchi terroristici avvenuti a Istanbul, la cultura era semplicemente bloccata. Non c’era pubblico, nessuno voleva uscire di casa o andare a teatro, se non magari nelle sale maggiori dove potevi ridurre al minimo gli spostamenti per arrivarci.
Voi comunque avete fatto e continuate a fare spettacoli di stampo politico…
Sì, l’ispirazione dei nostri spettacoli ha molte volte una matrice politica e credo che anche noi in tante occasioni non siamo invitati a festival o rassegne proprio per questo elemento. Ma mentiremmo a dire che per noi ora si tratti di una questione o di un problema pressanti. In quindici anni abbiamo imparato a trovare i nostri canali di espressione, senza dover dipendere dagli altri. Anche se l’instabilità non ci consente di fare progetti a lungo termine, abbiamo ben chiara la strada che vogliamo percorrere e cerchiamo di restare il più possibile fedeli a questa strada, non importa se ci sbarra alcune porte o ci preclude delle possibilità.
Le nostre performance si basano sul movimento e scaturiscono dalla messa in condivisione della nostra quotidianità. Ma la quotidianità che viviamo è in tutto e per tutto politica, si intreccia con l’essere una comunità, con le proteste in piazza, con gli episodi della storia turca…
Potete fare qualche esempio?
Dopotutto non sei un pesce (Sen Balık Deĝilsin Ki) è uno spettacolo che in alcuni punti prevede la partecipazione del pubblico. Sul palco c’è un performer con una valigia, dalla quale escono gradualmente piccoli oggetti (registratori, cassette, giocattoli…) e piano piano compongono una storia che riguarda una persona ammazzata per le proprie idee. Era nato dal caso di Hrant Dink (giornalista turco di origini armene assassinato nel 2007…) ma è chiaro che ognuno può leggere riferimenti ad altre persone: attivisti, politici, transessuali…
Nata donna (Kız Doĝdu) presenta riferimenti ai numerosi episodi di violenza verso il genere femminile che si susseguono ogni anno in Turchia. Si tratta di una danza fra due performer donna che si evolve in una lotta corpo a corpo, molto intensa e in alcuni tratti brutale. Così Memhet ama la pace (Mehmet Barış’ı Seviyor, “Barış” in lingua turca significa pace ma è anche un nome proprio maschile e la frase del titolo è spesso utilizzata come slogan dai movimenti per i diritti omosessuali) racconta del primo obiettore di coscienza della storia turca, Mehmet Tarhan, ed è uno spettacolo sul militarismo.
Ma abbiamo anche altri spettacoli dove l’elemento politico non è così esplicito e diretto. Oceano inverso (Ters Okyanus), per esempio, si concentra su un uomo e una donna che entrano in relazione, raggiungendo vari gradi di prossimità o distacco. Controllo (Kontrol)prevede un performer che danza sospeso su un filo, mentre la sua ombra proiettata sullo sfondo compie gesti e movimenti differenti. Tüh! è invece uno spettacolo quasi comico, a metà strada fra la performance e un concerto dal vivo con in scena appunto un batterista e due danzatori che verso la fine ingaggiano anche una sorta di lotta fra loro.
D’altronde si ripete spesso che il corpo e il movimento sono “politici”…
Ne siamo totalmente convinti. Come dicevamo, raramente partiamo con l’intento di produrre degli spettacoli su un determinato tema o argomento dell’attualità, la “politicità” delle nostre performance è più un effetto o una conseguenza del risultato finale. Il corpo e il movimento diventano politici quando raggiungono un certo grado di prossimità con lo spettatore. Prossimità che ha a che fare con un elemento di apertura e imprevedibilità della relazione teatrale.
Nel 2010 Mirhan è stato in Libano, per una serie di performance che avevano luogo in salotti privati davanti a un massimo di dieci spettatori per volta. Si trattava di armeni residenti in Libano che in generale avevano una pessima opinione dei turchi, ma le performance erano incentrate su sentimenti opposti di fratellanza, di conciliazione. In un contesto simile è chiaro il potere che può avere il movimento, la sua capacità davvero di cambiare dei preconcetti e di smuovere dei sentimenti.
Così Duyugu ha portato avanti un progetto simile nel quartiere “popolare” di Tarlabaşı, a Istanbul. In questo caso però gli abitanti delle case diventano parte della performance, il cui intento è appunto mostrare – seppur in maniera trasfigurata – le loro esistenze e il loro stile di vita, su cui spesso gravano giudizi e incomprensioni.
Che caratteristiche deve dunque avere un performer? Cosa ricercate nello stare in scena?
Per noi è molto importante riuscire a smarcarsi dal tecnicismo. Crediamo che una performance puramente tecnica in cui il danzatore esegue ogni movimento alla perfezione sia qualcosa di molto simile allo sport, non sia interessante. In questo caso non saremmo nient’altro che dei corpi in affitto. Al contrario, pensiamo che un performer o un danzatore sul palco debbano preparare un particolare “spazio” dove non sia possibile alcuna menzogna, alcun “falso movimento”. “Trasparenza” è certamente la nostra parola d’ordine.
Perciò utilizziamo molto l’improvvisazione nel nostro metodo di lavoro. Come dicevamo, partiamo da un’idea o da una suggestione e poi proviamo per giorni in maniera totalmente libera solo sulla base di questi spunti. Probabilmente ci aiuta a “restare nel momento” e a rinnovare di volta in volta le ragioni profonde del nostro stare sul palco. Inoltre, l’improvvisazione è qualcosa che non si oppone al controllo ma che anzi lo sostiene e in qualche modo lo fonda. È infatti provando e riprovando a spingersi ai limiti, sperimentando, che si ottiene il controllo delle capacità del proprio corpo e, utilizzando lo stesso metodo insieme, il controllo delle capacità del collettivo.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.