Al centro della scena si erge un rudere, la facciata di un’abitazione ridotta a uno scheletro desolante, sul fondo quattro attori seduti, in attesa. Nell’aria risuona per lungo tempo il melanconico By the sea della compositrice greca Eleni Karaindrou, il brano fa parte della colonna sonora del film L’eternità e un giorno di Theodōros Angelopoulos, il cui tema centrale è un viaggio senza meta, nel sentimento e nelle suggestioni. Un viaggio come quello raccontato da Fluctus, il nuovo progetto triennale del Festival delle Colline Torinesi che al Teatro Astra ospita Milo Rau con Empire, ultima tappa (dopo The Civil Wars e The Dark Ages) di una trilogia sull’Europa portata avanti dal regista svizzero con grande lucidità e con un occhio attento alla questione della migrazione forzata.
Lo spettacolo racconta di un viaggio, non solo fisico ma anche emotivo, declinato attraverso quattro differenti visioni: Ramo Ali, Akillas Karazissis, Rami Khalaf, Maia Morgenstern, tutti attori professionisti e tutti migranti. Parlano nella loro lingua madre, usata ormai solo nella sfera più intima, e mescolano sulla scena le sonorità del curdo, del greco, dell’arabo, del romeno.
Dopo aver fatto girare su se stessa la struttura mobile di quel rimasuglio di casa che fu, gli attori ne svelano l’interno costruito sul lato opposto: un piccolo angolo cottura, un tavolo, qualche sedia e un lettino. Diversi oggetti occupano i ripiani della cucina in un disordine organizzato dal vago sapore di casa, di tempo perduto. A turno gli uomini siedono dietro una telecamera e inquadrano il volto degli altri che appare proiettato e ingigantito sopra le loro teste. L’angusta scena diventa un set cinematografico, uno spazio di finzione ritagliato nel buio profondo del palcoscenico. Eppure il gioco della finzione convenzionalmente accettato svanisce non appena gli attori – in un’armoniosa e ben costruita alternanza di narrazioni – raccontano con cruda sincerità la loro esperienza. Partendo dalle origini ciascuno di loro attraversa con le parole e con lo sguardo diverse tappe di un percorso che li condurrà all’esilio, a cominciare dal rapporto diretto e personale con la morte – che si tratti di un genitore lontano, di un funerale mancato o di un fratello scomparso tra le foto delle vittime della tortura di regime – per approdare infine a una rinascita.
Il lavoro di Milo Rau si fonda su testimonianze dirette e ricostruzioni di eventi reali in una forma che travalica l’idea di documentario ma permette alla rappresentazione scenica di acquisire la stessa forza della realtà. Non è un caso, forse, che il nostro sguardo oggi scorga più sincerità in un volto filtrato su uno schermo in bianco e nero (come quello usato nello spettacolo) piuttosto che nella figura lontana, almeno fisicamente, di una persona reale sulla scena.
L’operazione, emotivamente impegnativa per lo spettatore immerso fino al collo nella vita di quelle quattro esistenze messe a nudo, si mostra capace di rinnovare il legame tra le forme di imperialismo contemporaneo e i miti dell’antichità. Rispolvera l’archetipo dello straniero incarnato da Medea, e parla con schiettezza della Storia recente, di fatti accaduti solo pochi anni fa, di viaggi che ancora si affrontano, di fughe obbligate e di altre invece impedite, di ritorni a casa. Prima del buio Karazissis racconta del viaggio di Agamennone verso la città di Troia, del suo rientro in patria dopo dieci anni di guerra. La storia si ferma davanti alle mura di casa, da troppo tempo lontane ma ancora così familiari: «la tragedia comincia adesso».
foto di Marc Stephan
L'autore
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Laureato in Istituzioni di regia all'Università di Bologna, si interessa di arti performative e di critica teatrale. Collabora con Emilia Romagna Teatro Fondazione, affiancando all'attività di studioso quella di dramaturg.