Arriva dal buio del corridoio con le sue scarpe da tennis bianche, metri e metri lontana dal chaicchiericcio del pubblico che osserva il vuoto quadrato disegnato dalle luci sul linoleum. Ma quando invade la scena è come se tutto il pubblico di Alfonsine venisse portato su un altro pianeta. Un pianeta che è sempre la terra, in realtà, anzi di più, la tua terra, il tuo metro quadro che hai calpestato miliardi di volte, il tuo passato che ti rimbalza addosso con l’evidenza rabbiosa dell’adolescenza. Annika Pannito sta in scena innescando una bomba che è fatta di noia e di scazzo, di ricerca e di attesa, ma soprattutto di un’energia furente di frustrazione e rabbia. La presenza creata dalla danzatrice guarda a un corpo quotidiano, quella quotidianità mediatizzata e globale che è di questa parte di mondo, ma senza mai mimarla, piuttosto lasciandosela scorrere addosso e ribaltandola con ironici detournement dei gesti e delle situazioni. Così la solitudine esplorata da questa performer è lieve come un palloncino di elio, come i fiori disegnati sui vetri appannati, e allo stesso tempo affilata come un frammento di specchio. Non si direbbe, come ci racconta, che la Pannito sia partita dalla danza classica…“Sono diplomata all’accademia nazionale di Roma e sono insegnante. Ho però avvicinato la danza contemporanea attraverso alcuni corsi all’interno dell’accademia, e soprattutto tramite seminari e laboratori, con Virgilio Sieni e MK, fino all’incontro con Sistemi Dinamici Altamente Instabili, con cui collaboro ancora. E da lì, all’Accademia non sono più tornata…”
Dalla metropoli alla provincia, tu sei presentata come rappresentante per il Molise.
Mi sto accorgendo di quanto sia importante avere un tempo e una dimensione mia: sto riscoprendo la mia natura provinciale, forse! Ho sempre viaggiato molto, e ora mi trovo a lavorare a Roma, in una situazione frenetica. Questo lavoro invece è nato a Campobasso, proprio grazie alla dimensione inerte che ti dà la provincia. Il mio solo nasce in qualche modo dalla solitudine, e indaga il tempo lento di un corpo pesante, in attesa, in quiete, sprofondato in buchi neri di stanchezza. Nello stesso tempo racconta anche il corpo iperattivo di chi riempie la propria vita di qualunque cosa pur di non sentire quel vuoto, per negare la propria stessa solitudine.
Come sono nate le immagini che incarni in Solitudo, quale è stata la ricerca per arrivare alla partitura corporea?
Ho lavorato molto sui gesti, pensando soprattutto alle mani che fanno qualcosa, scavando in un immaginario molto quotidiano e riconoscibile. Poi c’è un processo di astrazione del gesto, estrapolandolo dal suo contesto naturale per esibirlo in uno artificiale. Spesso sono gesti che scandiscono il tempo, lo segnano, lo commentano, come il time out, il cambio squadra, il repeat.
Solitudo è una creazione che ha bisogno di lavoro, deve essere ricalibrato sia da un punto di vista registico, su cui non ho lavorato molto, sia sul timing delle azioni e delle “situazioni” che propongo.”
Rispetto all’ambientazione di questo lavoro, che a Lavori in Pelle hai presentato in una forma piuttosto “nuda”, hai intenzione di sviluppare gli elementi scenici in qualche direzione?
Il contesto non è connotato, per non cadere in una dimensione naturalistica, sto pensando questo solo anche in una sorta di scatola bianca. Mi piacerebbe lasciare la libertà a chi guarda di immaginare quello che vuole, una cameretta o un ambiente domestico o altro. In questo momento mi interessa lavorare sul suono, per dare una dimensione materica e volumetrica proprio in senso tridimensionale. Poi sto pensando al video. Mi influenza molto la dimensione del videoclip, e l’universo cinematografico più in generale, sono questi gli ambiti in cui trovo spunti, e che mi nutrono di più. Credo si riconosca nel mio lavoro qualcosa che è molto mio, personale: un’adolescenza non ancora finita… e questo tipo di impulso adolescenziale è sfociato nel lavoro, nei suoi sbalzi di energia, nell’immaginario pop e fumettistico che mi influenza e in cui sento di vivere. In Solitudo non c’è pathos, non c’è dramma: c’è la volontà di riconoscere nel mondo esterno i gesti e un modo di abitare il mondo attuale.
di Valentina Bertolino, Lucia Oliva