Un orologio sciolto sul fondale, lumini sul palco a segnare una strada: questi gli unici elementi scenografici voluti da Saverio La Ruina per Via del Popolo (in scena dal 18 al 23 febbraio 2025 all’Arena del Sole). L’autore-attore entra in scena con una giacca bianca e un vassoio in mano. La Ruina, così vestito, sembra pronto a servirci un bicchierino e ballare al ritmo del juke box, raccontandoci, al contempo, la sua leggenda privata.
Il percorso tracciato dalle luci sul palco rappresenta la strada di casa, via del Popolo, fulcro vitale della cittadina di Castrovillari, dove personaggi, storie e epoche si intrecciano le une con le altre. In intima confidenza l’autore ci presenta lo spazio in cui è cresciuto, bloccato nel tempo dal cronometro che gli aveva regalato lo zio da bambino: brevi stralci di un presente appiattito e rapido intervallano la narrazione della provincia calabrese degli anni ‘70 popolata da mestieri scomparsi e figure bizzarre.
Il palco, monopolizzato dal solo La Ruina si anima dunque di ricordi e voci, trasformandosi da spazio sterile e astratto a luogo, frutto della soggettività umana: il farsi luogo della scena spoglia avviene grazie alla qualità narrativa dell’attore che ci trasporta in un viaggio lungo trenta minuti o due, a seconda dall’epoca in cui lo si vive. Altalenando fra il periodo della sua infanzia e l’oggi, La Ruina ci accompagna nella comunità del paese, nei suoi primi amori e nel tragicomico episodio della sparizione del padre. A legare il tutto il ritmo del dialetto e la memoria dell’autore.
È infatti la memoria l’universale empatico da cui origina il coinvolgimento della platea: siamo testimoni della crescita di un ragazzo in un territorio marginale, della sua storia familiare e della sua nascente passione per il teatro. La Ruina, ricopertosi degli abiti paterni da barista, ci racconta i suoi segreti, guardandoci negli occhi ad uno ad uno, e si spoglia, per una sera, dell’abituale veste politica, mostrando il più intimo sé.
La riflessione sulla relatività del tempo, la contestazione alla globalizzazione che ha sradicato i luoghi per farne spazi sembrano essere solo di sottofondo alla memoria, reale protagonista dell’opera: una memoria che non è cieca e che non può fare a meno di notare le metamorfosi del contemporaneo e di arrendersi al fatto che nemmeno un cronometro ci può rendere padroni del tempo. “U’ tiempo nun lo può fermà”.
In questo senso acquisisce pregnanza l’omaggio a Dalì, che si staglia sul fondo della scena, alludendo immediatamente allo scorrere lento e mellifluo delle ore, fluire diseguale composto di accelerazioni e rallentamenti che scandiscono la parabola della storia. All’interno di questa discontinua temporalità un unico dettaglio risulta dissonante: il juke box sulla cui musica La Ruina inizia a ballare in principio allo spettacolo. In modo sparso e inaspettato da un assente golfo mistico sfociano i brani più iconici anni ‘70-’80, le melodie arrivano a sovrastare la voce dell’attore che si perde in un nostalgico ripescaggio della sua gioventù; noi, interlocutori muti e arginati in platea, rimaniamo frastornati da questo cambio di tono in attesa che la discodance si plachi.
Tornati al ritmo cadenzato della sola voce concludiamo questo viaggio nel passato con il ritrovamento fortuito dell’anziano padre: il ticchettio turbinoso si arresta, il cuore della madre torna a pompare, è il momento di far ripartire il cronometro, riposizionare l’orologio al 2025 e ringraziare La Ruina, con un lungo applauso, per averci dato in dono 80 minuti di sé.
L'autore
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Laureata in Lettere Classiche all' università di Bologna, ritrova la sua passione per il teatro dall' altro lato del sipario. Attualmente studentessa di Italianistica con all' attivo una tesi sulla drammaturgia italiana riletta secondo la critica transfemminista.