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La rivincita di Sisifo. Conversazione con il centro Pale Huner di Diyarbakir

di Francesco Brusa

Il cruento conflitto fra le forze dello Stato turco e quelle dei militanti curdi che si è protratto per quasi un anno fra il 2015 e il 2016 ha lasciato non poche conseguenze nella città di Diyarbakır (sud-est della Turchia, la “capitale” della regione curda). Oltre alla distruzione di grosse aree della città vecchia (Sur), ai centinaia di morti e migliaia di sfollati, anche il panorama culturale dell’area ne è uscito fortemente mutato. L’insediamento di un nuovo governo municipale legato all’AKP (il partito di Erdoĝan) ha infatti determinato una netta diminuzione dei finanziamenti e molti centri di promozione della cultura curda sono stati chiusi.
Fra questi anche il gruppo di artisti e intellettuali di “Pale Huner”, che hanno però deciso di riaprire la propria associazione in periferia provando a sfidare il “coprifuoco culturale” che si respira a Diyarbakır. Abbiamo parlato con i docenti Halin e Ardin, facendoci raccontare il loro approccio alla cultura curda e il modo in cui intendono portare avanti la propria idea di arte nonostante il conflitto in corso. 

Cos’è Pale Huner?

Pale Huner è uno spazio in cui cerchiamo di occuparci di arte e cultura a tutto tondo, producendo e ospitando opere e spettacoli, dal cinema al teatro alla stand-up comedy, nonché tenendo vari corsi (pittura, scultura, cinema, teatro…) che possono essere “master” di livello accademico della durata di due anni o laboratori più puntuali, anche solo di un mese. Esistiamo da poco e lo sviluppo delle attività si articola in maniera molto libera, sulla base magari dei suggerimenti dei nostri allievi o di chi frequenta il posto. Siamo un nucleo di 8-9 persone che arriva a 15 se consideriamo tutti i professori. Per ora, abbiamo 40-50 studenti iscritti ai corsi.
Va detto inoltre che questo è uno spazio “semi-ufficiale”, operiamo cioè nella costante possibilità di essere sgomberati e chiusi. Perciò dobbiamo fare in modo di non attirare troppo l’attenzione delle autorità sul “focus” delle nostre attività, che è appunto quello della cultura e dell’arte del Kurdistan intese anche in un senso di “resistenza identitaria”. A tal proposito abbiamo aperto all’interno della struttura un piccolo bar, in modo da poter giustificare la nostra presenza qua per fini puramente commerciali. Nella realtà comunque non traiamo alcun profitto, il tutto si basa su un meccanismo di offerta libera per favorire un’aggregazione il più possibile inclusiva che è poi quello che ci interessa maggiormente.

Chi frequenta i vostri corsi?

Possiamo dire che le persone che vengono qui rappresentano quella fetta di popolazione che crea cultura dal basso. Si tratta cioè soprattutto di giovani che già possiedono una coscienza politica molto radicata e si interessano della cultura e dell’identità curda.
A livello sociale sono studenti e magari impiegati pubblici, persone che percepiscono un salario un filo più alto di quello minimo ma che allo stesso tempo non fanno di certo parte né dell’alta borghesia né del ceto medio (fasce queste generalmente estranee alla lotta politica e culturale). Frequentare Pale Huner comunque non è qualcosa che nasce solo da convinzioni o interessi puramente individuali. C’è anche la sensazione di “costruire comunità”, di prendersi cura di noi, di dare una mano… ecco, pensiamo per chi viene nel nostro posto frequentare Pale Huner sia in fondo una forma di supporto politico alla causa curda.
L’arte per noi è una necessità basilare di cui abbiamo bisogno come il cibo, non è un extra. Siamo dunque totalmente estranei a un approccio di stampo borghese che considera l’arte per l’arte. Ci teniamo alla attività culturali in quanto popolo e le vediamo come un irrinunciabile “esercizio di cura”, proprio come se tu mi dessi una pianta e io vi prestassi attenzione. È un atteggiamento comune a tutti i curdi. Perciò le persone che ci seguono sono “rivoluzionari” che si riconoscono nelle lotte del popolo curdo e agiscono nell’intento di cambiare il mondo circostante.

Cosa intendete per “cultura curda”? La vedete come una tradizione da conservare?

L’arte e la cultura sono fenomeni che in sé trascendono i propri limiti di appartenenza territoriale. Si parla un sacco di culture e tradizioni folkloristiche o territoriali ma pensiamo sia un errore, esiste sempre un principio di ampliamento, di superamento dei propri confini che convive con il radicamento delle pratiche e delle concezioni estetiche in un determinato contesto. Perciò è stato coniato il termine “glocale”. Un buon esempio potrebbe essere il cinema iraniano: una linea artistica che presenta elementi indubbiamente legati al paese e alla società di provenienza ma che infine riesce a parlare in modo universale a tutti.
Il nostro obiettivo dunque non è certamente quello di istituire un “museo” della cultura curda. Al contrario cerchiamo di “filtrare” valori e tradizioni che sentiamo appartenerci attraverso il linguaggio della modernità, attraverso “l’oggi che stiamo vivendo”, cercando appunto di seguire un movimento che va dal locale al globale. Ma, attenzione, restando sempre scettici su quelli che possono essere gli eccessi di un approccio troppo “globale”. Se ci pensiamo, infatti, anche ciò che viene chiamato “globalizzazione” e che viene presentato appunto come un fenomeno universale è in realtà l’espressione di un preciso contesto locale. Se ci si piega completamente a una tale egemonia allora si rischia di perdere se stessi, di diventare la copia di un’altra cultura.
Detto questo, è evidente che per noi l’urgenza di occuparci di arte, cultura e lingua curda nasce dal fatto che subiamo un’oppressione proprio su questi versanti. La nostra attività sarebbe probabilmente diversa se vivessimo sotto un regime democratico e tollerante. Ma, come dicevamo prima, l’arte e la cultura sono per noi come l’aria che respiriamo e quest’aria viene costantemente inquinata. Il nostro obiettivo è dunque quello di provare a ripulirla un po’.

Potete entrare più nello specifico di questa oppressione?

È da più di cent’anni, fin dai tempi degli Ottomani, che lo Stato sta perpetrando un genocidio culturale nei confronti dei curdi. Si è tentato di eliminare lo stesso concetto di “curdo” e di “Kurdistan” sul piano fisico, dopodiché di è passati a un’operazione di distruzione teorica e culturale. Prendi l’esempio del cinema cosiddetto “Yeşilçam”: in questi film i curdi vengono rappresentati come turchi che vivono sulle montagne e parlano male la lingua, sono rozzi, dei veri e propri ignoranti. In più hanno sempre la parte del personaggio negativo, spesso anche disonesto. Sappiamo che tutto ciò non corrisponde alla realtà, ma in qualche modo introiettiamo questi stereotipi e veniamo così spossessati delle nostra identità.
Però abbiamo sempre cercato di opporci. Soprattutto dal ‘68 in poi, grazie al fermento culturale di quegli anni e grazie ai numerosi movimenti studenteschi che ne sono scaturiti, si è creata una maggiore coscienza identitaria e si è organizzata la resistenza. Sono state fondate riviste, si sono scritti libri e manifesti, si sono girati film… Poi ancora negli anni ‘90 c’è stata un’altra ripresa della ribellione culturale. Curdi che avevano raggiunto un buon livello di educazione, magari formati all’estero, hanno continuato a scavare nella propria identità culturale. Così sono nati i centri MKM (Mesopotamia Cultural Centre), aperti in varie città dell’est della Turchia, che hanno giocato un ruolo importante nella diffusione e nella promozione della cultura curda.
A noi viene in mente un parallelismo con il neorealismo italiano dei De Sica e dei Rossellini. Le opere di questi autori nascono dopo la seconda guerra mondiale e si fanno carico di tutte le problematiche di quel tempo. Sono artisti che appunto hanno rifiutato la concezione borghese dell’arte, che non volevano fare arte come se tutto stesse andando bene. Anche in Turchia è nato qualcosa di simile, con la figura di Yilmaz Güney che infatti è morto in esilio. Ecco, credo che noi come artisti curdi abbiamo oggi lo stesso compito: rifiutare di negare la situazione in cui ci troviamo.

Ora, soprattutto qui a Diyarbakır, la situazione è complessa…

Fino a poco tempo fa erano presenti varie realtà culturali e teatrali, finanziate anche a livello municipale perché comunque il sindaco e la giunta comunale erano dell’HDP (il partito filo-curdo i cui leader sono stati recentemente incarcerati). Poi con il conflitto di due anni fa il centro della città è stato bombardato, la presenza militare dello stato turco è aumentata ed è stato arbitrariamente insediato un governo municipale dell’AKP (il partito di Erdoĝan). Così gran parte dei finanziamenti è stata bloccata e tanti centri, fra i quali quello della nostra precedente sede, sono stati chiusi. È stata una grossa sconfitta. 
A livello ufficiale e legale, è come se non fosse cambiato niente: è possibile aprire attività artistiche e culturali, come abbiamo fatto con Pale Huner. Poi però tutto dipende da quali contenuti si danno a tali attività e soprattutto da chi le conduce. Se sei curdo e decidi di fare un’arte diversa da quella “ufficiale”, semplicemente di portare avanti la tua propria idea di arte, automaticamente rischi di subire gli abusi della polizia e delle autorità. Oramai la situazione è tragicomica: proprio in questi giorni è avvenuta la scarcerazione di un giornalista, Ayhan Bilgen, e dopo solo due ore è stato nuovamente arrestato su ordine dello stesso giudice che lo aveva fatto uscire di prigione! Altre volte le leggi sono talmente assurde che possono essere interpretate in qualsiasi modo.
Questa è la nostra quotidianità: praticamente apriamo un posto già pensando a una sede e a un nome alternativi per quando verrà chiuso. Qua a Diyarbakır esiste un giornale che avrà cambiato posto e sede almeno una quarantina di volte! E, come dicevamo in precedenza, noi ci aspettiamo da un momento all’altro che la polizia venga anche qui a Pale Huner.

Cosa vi spinge dunque a continuare?

Nonostante le lotte, gli scioperi della fame, le manifestazioni, etc., a nostro modo di vedere l’atteggiamento del governo turco nei confronti del popolo curdo non è mai cambiato. Si continua con la stessa oppressione di sempre e con la stessa negazione della nostra identità. Ma oramai tale atteggiamento è diventato cieco e controproducente: la Turchia si sta mettendo in imbarazzo di fronte al mondo.    
È un po’ come il mito di Sisifo. Per punirlo gli dei gli imposero di spingere fino in cima a una montagna un masso che sarebbe ogni volta rotolato giù, all’infinito per l’eternità. Non è solo una punizione fisica ma anche e soprattutto simbolica: è un modo per umiliarlo e per schernirlo, per porlo infine in una posizione di sottomissione totale. Eppure, Sisifo ribalta completamente la situazione. Con tenacia e risolutezza continua a trasportare il masso in cima e così facendo rivela l’assurdità dell’agire degli dei, mettendo infine loro in imbarazzo. Allo stesso modo possono insultarci, ridere di noi, distruggere quello che abbiamo creato ma noi ricominceremo sempre da capo e la nostra tenacia rappresenterà sempre il loro imbarazzo. Rendendoci anche più forti: continuiamo a ricevere supporto e le persone che fanno attivismo stanno crescendo come stanno crescendo i giovani che vengono al nostro centro per fare arte e cultura.
“Vivere significa lottare”, così diciamo qua in Kurdistan.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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