Stretti fra due file di cipressi, all’interno del cimitero di Borgo Panigale dove si svolge lo spettacolo Requiem – Antigone («per dare simbolicamente sepoltura alle vittime di coronavirus», come recita la locandina), gli Archivio Zeta tracciano per terra un cerchio che sembra quasi un ossimoro. Oltre a rappresentare il limes vero e proprio dell’Antigone, al di fuori del quale non vi è “sepoltura degna”, esso cerca di delimitare anche lo spazio proprio del teatro, della rappresentazione in quanto tale. Ma è una doppia funzione doppiamente contraddetta dal contesto attorno: il camposanto bolognese è, concretamente e al contrario di ciò che vorrebbe la narrazione, “terra di degna sepoltura” così come le sue caratteristiche architettoniche e paesaggistiche, i profili degli alberi che si confondono con le arcate di entrate e tempietti, assumono anche per stessa volontà drammaturgica una valenza specificamente “teatrale”, in tutto e per tutto scenografica, che va a sommarsi alle parole degli attori e ai (pochi) oggetti di scena. Requiem – Antigone si sviluppa come una breve processione in tre piccole “tappe” – dal segmento iniziale del vialetto d’entrata fino alla parte centrale del cimitero – che corrispondono a differenti momenti della narrazione: una prima scena presa dalla tragedia sofoclea, un secondo monologo che quasi a mo’ di orazione si concentra sulla tematica del corpo, infine un terzo quadro che riconduce il discorso al teatro e alla sua pratica, allo sforzo di “creare comunità” pur in tempi di distanziamento sociale. Gesti semplici e decisi, azioni ridotte al minimo e dramma quasi interamente riposto nelle inflessioni della voce degli attori, che si mantengono quasi sempre su tonalità accese e solenni. Gli Archivio Zeta si muovono, dunque, nel solco di una duplice e divergente tensione: la scelta del testo e il classicismo insistito e verticale della loro recitazione sono volti a marcare una differenza netta con l’ambiente circostante, a creare un altrove, ma d’altra parte i continui rimandi tematici all’attualità, all’argomento della mancata sepoltura, rendono “l’oltre della scena” significativo quanto la scena stessa.
Durante le settimane più intense della pandemia di Covid-19, la struttura cimiteriale di Borgo Panigale ha accolto molti cadaveri provenienti dalla Val Seriana e dell’area bergamasca affinché venissero cremati. Una misura dettata dall’emergenza, visto l’estremo sovraccarico dei forni lombardi che in quel momento (com’è tristemente noto) non riusciva a “reggere il ritmo” dei decessi. Lo stesso rito funerario era stato sospeso a tempo indeterminato, costringendo parenti e affetti dei defunti a non poter mettere in atto alcun tipo di saluto simbolico, almeno non di natura pubblica o collettiva. Molto spesso, chi veniva ricoverato e vedeva le proprie condizioni aggravarsi sino all’esito fatale, non avrebbe incrociato altro sguardo se non quello del personale medico. Il buio delle cinque del mattino, che accompagna l’inizio dello spettacolo è allora anche un’allusione a questa dimensione oscura e misteriosa della morte “sotto pandemia”, un riflesso del suo carattere, per così dire, “esoterico” e testimoniabile visivamente solo da pochi. Così alcune torce condotte a mano, che illuminano la scena, e il nostro disporsi in cerchio di spettatori rimandano a un’atmosfera da setta di “iniziati”, di persone che – pur avvolte nel peso di una tenebra opprimente – pretendono invece di “vederci chiaro”, di provare ad agire anche in un regime di cecità e impotenza. Proprio come Antigone, le cui parole risuonano nella scansione precisa e lineare di Enrica Sangiovanni all’inizio dello spettacolo, dove fin dalle prime battute il conflitto per la “sepoltura” viene posto in tutta la sua durezza: l’eroina della tragedia, come sappiamo, è determinata a violare le leggi dello Stato per far valere invece regole non scritte, ma universalmente valide, leggi di fratellanza e sorellanza. Un violoncello (suonato da Francesco Canfailla) inframmezza la recitazione con note prolungate e fraseggi asciutti, ricalcando in qualche modo l’essenzialità e la compostezza dei costumi, che virano tutti al nero.
Se il cerchio delineato per terra sembra ossimorico è anche perché l’idea di circolarità (narrativa? drammaturgica? morale?) che esso esprime viene fin da subito contrastata dal lungo viale che si estende alle spalle degli attori e che conduce nella parte più interna della struttura cimiteriale, dentro – almeno come metafora, o come promessa – al mistero dell’incorporeità della morte per Covid-19. E lo spettacolo, infatti, procede proprio su una tale direttrice di senso: man mano che dall’oscurità delle prime ore mattutine si passa ai chiarori, cerulei e limpidi, dell’alba, ecco che anche Requiem – Antigone disloca le proprie scene sempre più in avanti lungo il viale, spostando tra l’altro l’asse tematica dall’originale greco in maniera crescente verso l’attualità. Il monologo conclusivo, declamato nell’area centrale del cimitero, costituisce a tutti gli effetti un discorso molto esplicito sul fenomeno del coronavirus e sulla gestione della pandemia, sulle contraddizioni di una società che si è trovata, per proteggere la vita, a “negare” la fisicità, ad accelerare processi di smaterializzazione delle relazioni corporee e di compresenza.
Del corpo, allora, e delle sue valenze politiche e simboliche, ancor prima che concrete, si arriva a trattare nello spettacolo, fino a farne anzi il punto centrale di tutta la messa in scena. Partendo dalla sfida lanciata da Antigone al re di Tebe per poter seppellire il cadavere del fratello, si prosegue attraverso veri e propri “inni d’amore” al corpo e ai corpi, definiti anche «gioiosamente virali», che dichiarano di voler accogliere la fisicità anche nelle sue manifestazione meno “canonicamente positive” (di voler amare il corpo, cioè, anche in quanto «luogo della morte») fino a chiudere in qualche modo il cerchio (e ritorna dunque la simbologia iniziale) evocando in conclusione soggettività contemporanee non-normate, resistenti già dal punto di vista dell’auto-costituzione del proprio aspetto, del proprio esser-ci, come novelle Antigoni che si difendono da vari “Stato-Creonte”. Una retorica molto diretta e frontale, un tono a tratti solenne che dalle profondità iniziali di immersione nel testo sofocleo, si inerpica nel finale verso quasi l’invettiva, il pamphlet poetico-politico. Una retorica che, però, al netto della sua univocità e chiarezza di contenuti, rischia forse di assumere un connotato esteticamente e politicamente ambiguo: anche a fronte del fatto che la stagione teatrale del 2020 (bruscamente interrotta al suo inizio) si era aperta con una messa in discussione proprio della lettura eroico-positiva del ruolo di Antigone (ci riferiamo allo spettacolo di Massimiliano Civica, in cui Creonte da re tirannico viene letto invece come capo di un gruppo partigiano durante la seconda guerra mondiale), è ancora lecito proporre uno schema “tradizionale” che vede Antigone solo come la ribelle che si oppone a una legge dispotica? Ancor di più se, com’è il caso dell’operazione compiuta da Archivio Zeta, il senso della tragedia sofoclea viene esplicitamente “agganciato” all’oggi, non sarebbe da considerare lo spostamento – certo per niente pacifico e non privo a sua volta di elementi ambigui, ma la cui importanza è difficile da evadere all’interno del dibattito pubblico – di quella soglia che va a segnare il punto di incrocio e divisione fra libertà individuali ed esigenze comunitarie, deriva autoritarista e devianza sociale? In quale “zona” di questo “spettro” Requiem – Antigone ci chiede di posizionarsi?
Di riferimento in riferimento, gli Archivio Zeta compiono infine una scelta molto netta e chiara: al termine dello spettacolo viene scandita un discorso di Kay Sara, attrice e attivista indigena della zona dell’Amazzonia in Brasile, che avrebbe appunto ricoperto il ruolo di Antigone nell’Antigone in Amazzonia di Milo Rau, prima che lo scoppio della pandemia ne interrompesse l’allestimento. Il punto di vista è dunque quello di chi viene considerato “superfluo” dalle tirannie odierne e dunque lotta quotidianamente per r-esistere, è quello esplicitato dallo stesso regista svizzero che, dalla sua “quarantena” sudamericana, ha pubblicato una riflessione su Covid-19, teatro e “società del privilegio”:
«Nessuno sa esattamente quanto questa crisi durerà, anche se alcuni sono certi: non si tratta di una crisi, ma dell’essenza di una nuova era. Il Covid-19 introdurrebbe così, in modo subdolo, lo stato di emergenza non come interruzione, ma come verità di una nuova civiltà post-umanistica. La malattia come critica in senso kantiano: come se la “ragione” della nostra civiltà venisse purificata dai suoi additivi morali, dalla propria immagine di sé, per mostrarsi in tutta la sua vera essenza. E questo, ahimè, è fascista.
Andrea Porcheddu, Milo Rau: coronavirus, liberalismo autoritario e l’insurrezione dei superflui
Per quanto le ragioni epidemiologiche siano cristalline, è sorprendente come da un momento all’altro il consenso occidentale si sia incentrato sulla sopravvivenza della famiglia del prossimo e ancor di più sull’obbedienza alle istruzioni del governo. La chiusura delle frontiere ai rifugiati e il loro confinamento nei campi profughi vengono venduti come misura di restrizione della mobilità per l’epidemia, mentre decine di migliaia di cittadini vengono rimpatriati da ogni parte del mondo. Proprio perché questo è così contraddittorio sul piano epidemiologico, è invece perfettamente logico su quello nazionalistico. E così, mentre il Sud del mondo si prepara a pagare a prezzo pieno la globalizzazione del virus, l’Europa – ah no, mi correggo: Germania, Francia, Svizzera, Belgio, eccetera, perché l’Europa non esiste più – invoca la politica di vicinato e l’autarchia».
Ma, ancora, è possibile trasporre un pensiero così “situato” e specifico all’interno di un altro contesto (sebbene, certo, sia quello stesso pensiero a chiamare in causa la “vecchia Europa”)? Il requiem, che il cartellone dello spettacolo vuole dedicato alle vittime di coronavirus, esce indebolito o rafforzato dal fatto che le parole finali della messa in scena siano le parole di un’attrice, provenendo dunque dall’ambiente teatrale e vertendo su quest’ultimo seppur parzialmente? Non è questa circolarità, che parte della teatralità della tragedia greca per poi arrivare all’oggi e infine ancora tornare al teatro, essa stessa il segno di un privilegio, il privilegio di noi “vivi” che celebriamo simbolicamente l’invisibilità di chi non c’è più e il privilegio di chi può guardare e rielaborare la pandemia da artista, da teatrante? Requiem – Antigone ci chiede forse di essere un “noi” che non abbiamo la forza di assumerci come condizione collettiva. Ci chiede di far fronte all’assenza dei corpi morti attraverso un potenziamento, una risignificazione in senso quasi assolutistico del corpo e del suo ruolo politico, quando invece è forse proprio sulla sua parte di im-politicità, sui limiti della nostra autodeterminazione nei suoi confronti che la pandemia ci impone (o ci ha imposto) di interrogarci. Questo il mistero cui non riusciamo a dar forma e verso cui ogni proclama di centralità del corpo rischia dunque di suonare come inevitabilmente ambiguo, teso fra la presa d’atto tautologica e la dichiarazione di una potenza emancipatoria che vede però sempre più svanire i propri presupposti. Ai lati del lungo viale di cipressi, durante la scena finale e mentre al centro del cimitero continua la recitazione, vengono posizionati per terra alcuni panni neri: evocazione simbolica dei cadaveri assenti, materia oscura che non si lascia interpretare del tutto, punto cieco della nostra visione.
L'autore
-
Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.