Due danzatori. I loro corpi. Sul palco di Olhos Caídos, presentato in prima nazionale a Roma in occasione di Short Theatre 7, ci sono soltanto Luís Guerra e Tânia Carvalho, autrice e coreografa. Corpo di uomo e corpo di donna, indistinguibili: i volti pesantemente truccati, in testa due parrucche identiche. Nulla che li differenzi se non le aderenti tute in latex, nera per lei, color carne per lui. Due entità sovrapponibili, intercambiabili, scosse da moti improvvisi e repentini: le braccia e il busto, raramente le gambe, compiono gesti spezzati, precisi, meccanici, come di un robot, di una macchina utensile. In pochi secondi una serie di movimenti si realizza, velocissima, poi quasi si blocca, resta a trascinarsi lentissima fino all’inizio della sequenza successiva; il volto dei ballerini si contrae in una smorfia disperata, che restituisce l’insensatezza di un affanno in cui sembrano intrappolati. Talvolta i gesti seriali e disumanizzati sembrano avere uno scopo: spostare un oggetto, manipolarlo; ma non c’è una conduzione logica, una cronologia. Il movimento è illusione ottica, poiché nonostante l’energia che attraversa i corpi dei danzatori, questi sembrano non avanzare, non liberarsi mai dalla condizione di stasi di cui sono vittime. Sono reificati. Nulla e nessuno progredisce in questo spettacolo, né i danzatori, né tantomeno il pubblico, che immobile assiste a una pantomima senza fine: tant’è che la partizione in quattro atti non giunge a una conclusione e gli applausi potrebbero esserci a ogni stacco di buio, sempre dubitosi che lo spettacolo sia terminato o debba continuare.
Per quattro volte si ripetono le stesse sequenze a partire da posizioni invertite: una capacità combinatoria che pare suggerire un infinito potenziale di rappresentazione.
La rappresentazione che ci fa percepire tale possibilità, però, non avviene. La scena non contiene che un quadrato di luce proiettato in terra, al centro. Se i danzatori si muovono lo fanno nell’ombra attorno, non vi accedono mai. Il luogo del possibile, circoscritto e definito, è interdetto; la condizione straniata, la meccanizzazione, l’innaturalezza si traducono in una condanna a restare nel buio, nel non-luogo indistinto e vuoto. Al contempo, è proprio a causa di questo rimanere fuori che il gesto domina il corpo e lo annulla. Ecco allora il paradosso: se supponiamo che i danzatori siano posseduti da un “movente Altro” rispetto alla propria volontà e del quale sono strumenti; se ci sembra che due soggetti siano scomparsi per dar luogo a due macchine corporee: come si può effettivamente saperlo, se è per loro impossibile entrare nella luce e compiere un atto? È una danza che nega sé stessa, che permane nell’irrappresentabile; e d’altronde, la musica che l’accompagna non può che manifestarsi in suoni incompiuti, incomprensibili. Rumori bianchi e fruscii e interferenze, sovrapposti o solitari, assordanti o in sottofondo, sono l’impossibile luogo sonoro nel quale nulla può sostanziarsi. Se ci sono modulazioni o variazioni non è perché vi sia un ritmo: è piuttosto un inganno allo spettatore in attesa di una rivelazione, di un pathos, di un cambiamento là dove non può esservi.
Olhos Caídos non ha né un tempo, né uno spazio in cui collocare una narrazione. Le coincidenze, le convergenze, le partecipazioni che sembrano affiorare di tanto in tanto tra gesti e musica si rivelano puntualmente irregolari, stonati: in definitiva, casuali.
La staticità paradigmatica di Olhos Caídos non sembrerebbe avere valvole di sfogo. Eppure, un ultimo elemento va considerato: i cambi di luce. Di tanto in tanto, per pochi istanti, il quadrato al centro scompare e l’illuminazione si fa soffusa e azzurrina. Nessun preavviso, nessuna relazione con la scena. Ogni cosa procede per il suo corso senza soluzione di continuità: anche qui, lo spettatore attende una variazione, un’epifania, un ritmo nascosto che si fa percepibile, e anche qui si illude di una narrazione che non c’è. Un attimo dopo tutto torna come prima. L’effetto, che sembrerebbe limitarsi a questo, sembra invece carico di un’importanza ben più grande: l’atmosfera si fa malinconica, notturna; i suoni indistinti, i fruscii e i crepitii, assomigliano ora al rumore delle onde del mare. Se nonostante tutto sul palco continuano a non esserci cambiamenti, così non è per la percezione che lo spettatore ha della scena: per una manciata di secondi ogni differenza sembra appianarsi, ogni distinzione scomparire. A giudicare questa quiete soltanto apparente, che affiora e che svanisce di tanto in tanto durante lo spettacolo, viene quasi da pensare che in un contesto claustrofobico e disumano l’unica via percorribile sia un ritorno al nulla, un ricongiungimento ideale all’utero materno che ci ha generato, la dispersione della coscienza. Gli Olhos Caídos, gli “occhi cadenti” del titolo, sarebbero allora occhi che si chiudono dolcemente sul mondo per sfuggire a un’esistenza priva di senso. Una possibilità che si può soltanto intravedere nella monotonia spersonalizzante del quotidiano, ma che comunque non ne intacca la superficie: tutto continua a muoversi freneticamente, tutto rimane eternamente immobile. Se nemmeno quella che pare un’improvvisa presa di coscienza, l’unica vera epifania in una totale assenza di narratività, ha un valore attivo che possa scardinare la ripetizione ossessiva, allora si tratta in realtà di una ben magra consolazione. D’altronde lo spettacolo non ha conclusione: drammaturgicamente potrebbe continuare all’infinito. Allora è forse in questo sta la forza di Olhos Caídos: in un presente che sempre più ci richiama alle sue contingenze specifiche, la portoghese Carvalho tenta di risalire, un po’ controcorrente, al loro fondamento primario, avvalendosi di un linguaggio assai essenziale, ma pur sempre efficace, per mantenere uno sguardo disincantato, personale e lontano da compiacimenti.
di Marco Capriotti
(foto di Bruno Simão)
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.