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La chimica della materia ovvero la fisica del male. "Macbetto" di Magnani

di Altre Velocità

Avresti mai pensato di dover fare i conti con le tue paure a teatro? D’altronde, lo stesso Aristotele individuava nella tragedia l’effetto catartico di liberare lo spettatore dalle sue passioni più recondite, tra cui appunto il terrore. Sicuramente avrai provato questa sensazione dopo uno spettacolo, ma probabilmente quel terrore non è stato indotto dalla visione di sangue in scena. È il modesto palco del Teatro delle Moline ad aver ospitato Macbetto o la chimica della materia di Roberto Magnani e ad aver reso, con i suoi appena 40 posti a sedere, ancora più tetra l’ambientazione. Lo spettacolo è una riduzione del “Macbetto” di Giovanni Testori, a cui il regista (in scena come protagonista insieme a Consuelo Battiston – Lady Macbeth – e Eleonora Sedioli – strega) si è avvicinato con un approccio linguistico e sonoro, più che visivo, come egli stesso ha spiegato durante l’intervista successiva alla prima bolognese. Nella platea buia di quel piccolo teatro, delle persone cercano il loro posto a sedere, tra queste io, con la mente ancora proiettata verso ciò che è successo nel mondo fuori, ignara del fatto che quei minuti erano già il prologo dello spettacolo, il prologo del mio primo spettacolo “horror” a teatro. Piano piano comincio ad abituarmi a quella atmosfera e realizzo che gli spettatori non sono gli unici essere viventi in quella oscurità: nella penombra, infatti, si scorge la presenza di un uomo seduto di spalle che si sta guardando allo specchio per macchiarsi il viso con un qualche indefinito elemento, proferendo le due parole che, oltre a rendere ragione del titolo, avrebbero caratterizzato in maniera più evidente la chimica dello spettacolo: «sangue e merda».
Sono gli attimi più difficili della serata, rotti tra la paura di ciò che sta per accadere e la speranza che la sala si illumini e il tremore si plachi. Ma, nel leggere le altre cose che vi scriverò, converrete con me nell’affermare che il buio non era poi una brutta scelta. Luce fu, che, seppur soffusa, ci dà modo di identificare in maniera più chiara la scenografia: a sinistra una porta vetrata, a destra il tavolino con lo specchio e una sedia; inoltre ci permette di capire che ciò che si stava spalmando sulla faccia il personaggio è terra, a rappresentare la merda. L’attore, nel ruolo di Macbeth, comincia a pronunciare le battute in maniera sempre più accelerata e confusa, tanto che risulta difficile la comprensione, ma con una musicalità così curata da far parlare di “recitar cantando”. Ad aumentare lo stato di terrore la strega: lunghi capelli neri dietro i quali si nasconde, parla con sospiri, si muove sui quattro arti, come un ragno, come un mostro, come una creatura uscita dal tuo peggiore incubo, esce invece da un bagno di sangue, partorita – o meglio cacata – dal corpo di Macbeth. Terzo e ultimo personaggio che fa irruzione in scena: una Lady Macbeth spietata, pronta a compiere i crimini più efferati e a spingere il consorte a fare altrettanto, l’antitesi di un Macbeth che ha paura, divorato dai sensi di colpa, che dubita, incerto se agire. Ma come rappresentare fisicamente la chimica del male? Ecco che entra in scena un elemento multimediale: la proiezione in una tv poggiata per terra di una gastroscopia. Perché? Perché è un male che viene da dentro quello dei nostri personaggi: sono esseri umani che agiscono di pancia ed è nella pancia che si generano anche il dolore e la colpa per quelle azioni. Da una interpretazione complessiva dello spettacolo emerge l’esigenza di sradicare quel male morbosamente attaccato alla parte più carnale del corpo, di cui metafora è la strega, ma quel male, una volta fuori, non si annulla: è potenziato; dall’altra parte un male meno fisico: Lady Macbeth, quel male ancorato nei meandri della coscienza, meno corporeo, ma non per questo meno distruttivo. E c’è solo un modo per liberarsi di loro: ucciderle. Dopo il misfatto, il ritorno della calma, non più la presenza invadente della strega, anche la musica si fa più rilassante. Ma si è veramente liberato? Forse lui no, da quanto traspare dalle parole della chiusa (“mondo marcio”… “inferno”…). Sicuramente noi pubblico sì, grazie al potere catartico accennato all’inizio, da qualcosa ci siamo liberati.

Giorgia Renghi

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