Questa recensione fa parte dell’Osservatorio sulle arti infette, un progetto realizzato nell’ambito del Laboratorio avanzato di giornalismo culturale e narrazione transmediale organizzato da Altre Velocità: si tratta di una serie di conversazioni che le partecipanti al laboratorio hanno condotto con artisti, operatori e studiosi per indagare i mutamenti e le difficoltà del teatro rispetto alle conseguenze della pandemia del Covid-19.
In questo periodo mi sento molto sola, in una città che non è la mia, durante una pandemia globale. Non ne parlo tanto con gli altri, cerco di limitarmi per evitare di innervosire chi a sua volta soffre la solitudine ma preferisce non dichiararla, per non tramutare il sentimento in realtà e doverne fare materialmente i conti.
Consegne di Kepler-452 è un po’ questo: una condivisione di solitudine. La mia, la tua, la nostra ma anche quella dell’arte, del teatro. Che cosa vuol dire presenza? Compresenza? Attore e spettatore?
Lo spettacolo inizia cliccando su un link di Zoom. Riccardo Tabilio ti accoglie nella prima stanza illustrandoti gli accorgimenti necessari per seguire: cambiare alcune impostazioni, assicurarsi di essere in un ambiente silenzioso, la durata dello spettacolo. Nella seconda stanza c’è Nicola Borghesi che, tramite due telecamere, una posizionata sul casco e l’altra sul manubrio della bicicletta, ti porta con sé durante il percorso verso casa, per consegnarti qualcosa di essenziale: una porzione di tagliatelle fatte a mano. Mentre Nicola Borghesi pedala per le vie di Bologna, scenografia dolceamara del tempo presente, ragiona sulla condizione del rider che, in un gioco ironico di svelamenti, diventa l’unico attore sociale a cui è permesso circolare dopo il coprifuoco. Cos’è essenziale? Chiede Borghesi.
Io, sola in platea, devo rispondere, non posso fare finta di niente.
La condivisione si basa sullo scambio reciproco e sincero, un tu per tu che non permette finzioni. Che senso ha la città quando a circolare sono solo le merci? La retorica della “fase 1” è lontana, sembra appartenere a un’altra epoca. Oggi, lo sappiamo tutti, non andrà tutto bene. L’attore, quasi arrivato sotto casa, non riesce a continuare il percorso. «Che cosa sto facendo?», si chiede. «Sto racimolando anche io un po’ di soldi per evitare di scomparire». Abbandona le cuffiette e il casco su un contenitore postale in via XXI Aprile, parte una canzone: è Goodbye di Apparat.
Prima, mentre era sui viali, mi aveva chiesto se ci fosse una canzone che ascolto spesso quando sono triste.
I suoni elettronici e la voce malinconica di Soap&Skin corrono mentre Nicola si allontana e ti abbandona in mezzo alla strada.
La musica sfuma e come nelle migliori storie, l’eroe si redime e torna a prenderti.
Sotto casa l’attesa dell’incontro è arrivata ormai al suo massimo, la telecamera si concentra sui nomi nel citofono.
Prenditi il tuo tempo per scendere, concentrati sul suono del campanello.
L’attesa rende ovvio ciò che si intende per essenziale. Davanti al cancello di casa ti viene chiesto di indossare un paio di cuffie: un monologo recitato da Paola Aiello descrive la situazione che stai vivendo. Tu e il rider vi guardate negli occhi, non vi dite niente. L’incontro tra corpi ha una data di scadenza: una volta consegnato il bene, il dovere è compiuto.
Nella situazione di presenza non sappiamo più cosa dirci. L’unica parola concessa è grazie.
Nicola inforca la bici e si allontana. Consegne non è solo un’idea intelligente, ma testimonia la capacità del teatro di adattarsi e inserirsi negli interstizi, nelle possibilità che si aprono quando tutto appare regolato e decretato, diviso per colori e sottoposto alla fuorviante retorica della responsabilità individuale. Una bussola straniante, capace di far scoppiare dall’interno i meccanismi sistemici che regolano la struttura economica. Il neoliberismo sfrenato che crea la figura del rider è lo stesso che non riconosce il lavoro dell’operatore culturale? Le due figure, a ben guardare, non risultano tanto diverse: rider e attori sono alla base della piramide, entrambi servono affinché la punta possa esistere. Il primo necessario ma facilmente sostituibile, il secondo improduttivo e quindi sacrificabile. L’importanza della compresenza, dell’alleanza tra corpi, assume ancora di più significato nella straordinarietà della catastrofe contemporanea. I sentimenti si fanno confusi, primari e secondari, incasellati in divieti. L’emozione straborda e bisogna imparare a farci i conti. Concentrarsi a trattenerla, imparare a renderla piccola e poco ingombrante per non rompere il velo di incomunicabilità.
Rimango ferma qualche secondo sotto casa, assistere a uno spettacolo da sola mi fa sentire una privilegiata.
Destrutturare il teatro e portarlo a casa delle persone non è solo un gesto artistico obbligato dalla situazione di difficoltà, ma soprattutto un atto politico coraggioso, emozionale e mai retorico, un nuovo esperimento di ripensamento dello spazio e del tempo teatrale. La compresenza però rimane intatta, il teatro è salvo. Le possibilità date dalle piattaforme online diventano un aiuto necessario ma ben calibrato, per una volta vengono sfruttate anziché sfruttare. Il travestitismo, in un gioco ironico di sovrapposizioni con il dato di realtà, trascende la categoria di personaggio. A essere straniato non è solo l’attore ma anche lo spettatore, la maglia del pigiama non tiene abbastanza caldo, la pelle delle mani si è attaccata all’involucro di plastica, per cui lo spazio domestico non sarà più lo stesso, è avvenuto qualcosa. Il meccanismo del ricordo si lega indissolubilmente all’intimità della casa, che ha cambiato per sempre conformazione: Via Valeriani è diventata un palcoscenico.
Risalita in casa mi sono messa a cucinare le tagliatelle, erano molto buone.
Una risposta
Io sono rimasta folgorata da Il giardino dei ciliegi, visto a Mira (Ve) prima dello scoppio della pandemia. E continuate a lasciarmi senza parole… anche l’articolo è estremamente toccante. Vi stimo tantissimo e vi abbraccio forte, Eleonora