altrevelocita-logo-nero
(foto di Luca Dal Pia)
(foto di Luca Dal Pia)

Kepler-452, a bordo per raccontare l’Europa

di Irene Ringozzi

Kepler-425 ha debuttato all’Arena del Sole con il suo ultimo spettacolo A place of safety. Dopo la prima bolognese, questo “reportage teatrale” a firma di Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi passerà in autunno al Metastasio di Prato, al CSS di Udine e al Théâtre des 13 vents CDN di Montpellier. Abbiamo parlato con i due registi (Borghesi è anche attore in scena) per capire quali scelte stanno alla base di questo e degli altri spettacoli della compagnia, scoprendo le complessità del lavorare con attori non professionisti e, per di più, con persone verso cui, in qualche modo, si sente una certa affinità.

Vorrei partire dalla questione degli attori non professionisti: quanto la loro presenza ha influito sull’elaborazione della drammaturgia e della scena, quanto è stato il testo ad adattarsi a loro, alle loro capacità e alle loro storie oppure il contrario?

Nicola Borghesi: Tutto il materiale che è stato prodotto, è stato prodotto a partire da loro. Le fasi dell’elaborazione dei nostri lavori sono abbastanza fisse: nel senso che è molto difficile immaginare uno spettacolo a cui fai aderire delle storie delle persone perchè non sai mai prima quali sono, quindi per noi il procedimento è sempre al contrario. Prima capiamo quali sono le persone, poi ne sviluppiamo artisticamente le storie e solo quando sono sviluppate allora capiamo qual è la cornice narrativa, il dispositivo narrativo-drammaturgico che regge il tutto. È molto difficile immaginare un dispositivo drammaturgico senza sapere quali sono le storie che sono in campo, noi partiamo dalle storie, dalla loro realizzazione sulla scena e poi è quella realizzazione che ci suggerisce che tipo di spettacolo si debba fare.

Come avete conosciuto e scelto le persone presenti sul palco? Non tutti erano parte dell’equipaggio della nave di cui avete fatto parte, vero?

Enrico Baraldi: Si esatto, diciamo che il lavoro ha avuto diverse fasi: una prima fase di ricerca molto ampia che è durata praticamente un anno a bassa intensità in cui abbiamo contattato varie ONG e frequentato persone che vi lavorano. Successivamente la pietra angolare della nostra ricerca è stata sicuramente il viaggio a bordo della nostra Sea Watch, in realtà preceduto da un periodo di permanenza a Lampedusa; lì a bordo della Sea Watch abbiamo conosciuto la prima persona che abbiamo coinvolto che è José, José Peña.

Quando siamo partiti avevamo già in mente di portare avanti un certo tipo di osservazione, di conoscenze che avessero anche la finalità di coinvolgimento delle persone sulla scena, rimanendo molto liberi in quella fase di ricerca di esplorare. Fra le persone che erano a bordo con noi quella più disponibile e con più attitudine narrativa era proprio José e da quel punto di partenza abbiamo capito che dovevamo continuare le nostre ricerche.

In realtà appena scesi abbiamo avuto un secondo incontro: la nave è arrivata al porto di destinazione a Siracusa, lì si sarebbe fermata per fare il cambio dell’equipaggio e lì abbiamo scoperto che accanto a noi nel porto c’era un’altra ONG, la Life Support di Emergency. Siamo andati in visita alla loro nave perché alcune delle persone che erano a bordo con noi conoscevano l’equipaggio della Life Support, è un pò un piccolo cosmo di persone che si conoscono tra di loro quello del Rescue.

È stato proprio lì che abbiamo conosciuto dunque Flavio Catalano. Fino alle quattro del mattino siamo stati a parlare con Flavio e gli abbiamo chiesto il numero per poterci risentire, siamo andati a trovarlo a casa sua a La Spezia. Abbiamo intrapreso un processo di avvicinamento che solitamente è composto innanzitutto da un paio di interviste, in cui cerchiamo di capire, approfondire e vedere soprattutto – è uno dei principi fondamentali per noi – se c’è una reciproca affinità, simpatia, anche perchè poi fare uno spettacolo significa passare del tempo insieme, condividere un pezzo della propria vita, quindi quella è una delle pratiche fondamentali che adottiamo.

Dopo, grazie a Flavio, abbiamo avuto il contatto di altre persone tra cui Floriana che è appunto anche lei un’infermiera che lavora per Emergency sulla Life Support ed era stata in missione con Flavio: tra le tante interviste che abbiamo fatto è stata una di quelle che ci ha colpito di più tant’è che anche in quel caso siamo andati a trovarla a Napoli. A quel punto avevamo già cominciato a conoscere questo mondo, non erano le prime interviste che facevamo e avevamo anche un idea di quali fossero i punti di vista che potevano essere interessanti per creare un cast quanto più sfaccettato possibile, più diversificato possibile.

Dopo abbiamo conosciuto Miguel Duarte, quello con Miguel Duarte è stato un incontro abbastanza particolare, inusuale: se per gli altri c’è stato un abbastanza lungo percorso di avvicinamento, con Miguel avevamo fatto una chiamata zoom e dopo una chiamata di un’ora abbiamo detto “va beh questa persona è assolutamente da coinvolgere” e quindi gli abbiamo fatto una seconda telefonata zoom in cui la prima cosa che gli abbiamo detto è stata “senti tu che stai in Portogallo e fai la tua vita, ci siamo conosciuti per un’ora e un quarto di Zoom ti va di passare un periodo della tua vita a Bologna e fare uno spettacolo di teatro?”. Lui ci ha pensato, ci ha pensato molto bene, e dopo una minuziosissima riflessione, com’è solito fare Miguel, che è un pò un pensatore, ha detto “sì facciamolo”. È nata così la nostra collaborazione con Miguel.

In ultima istanza, fuori tempo massimo, veramente quando il buon senso avrebbe detto che il cast era già chiuso e formato – anche per le tempistiche eravamo nel periodo delle vacanze di Natale e era già oltre il limite massimo che ci eravamo imposti e che la produzione con cui lavoriamo ci aveva dato per arrivare a un cast definitivo- abbiamo incrociato Giorgia Linardi. L’avevamo conosciuta un po’ di sfuggita a Lampedusa, ma essendo portavoce di Sea Watch ha una sua qualche visibilità nel mondo del rescue e l’avevamo più che altro vista in televisione, a Propaganda Live, su Internet. Non ci aspettavamo che potesse o volesse partecipare a un progetto di questo tipo e invece si è fatta avanti lei: parlando con i colleghi di Sea Watch era rimasta molto colpita dell’iniziativa che stavamo portando avanti con lo spettacolo, ci ha voluto conoscere. Anche per lei c’è stato un periodo di riflessione molto lungo perché c’erano diverse questioni in campo: questioni organizzative perché è impiegata a tempo pieno per Sea Watch e poi questioni legate al suo ruolo di portavoce, come questo poteva impattare nello spettacolo o come lo spettacolo poteva impattare nel suo ruolo di portavoce. Da parte sua c’era una forte urgenza di raccontare un lato della sua storia che non era mai emerso proprio a causa di questo ruolo che aveva portato avanti negli ultimi anni, ma che poteva trovare un suo spazio in uno spettacolo di teatro.

Quindi sotto Natale, regalo di Natale è stata l’ultima persona che ha aderito al nostro cast Giorgia Linardi. Questo direi che è quanto rispetto al cast di attori e attrici.

(foto di Luca Dal Pia)

A proposito di questa urgenza di raccontare e a chi raccontare: tu, Nicola, nello spettacolo dici “parliamo tra di noi” rivolgendoti alla platea, è un’affermazione che dà adito all’idea che ci sia un’identità specifica del pubblico del teatro e del vostro pubblico. Come arriva questa riflessione quasi di stampo “sociologico” nello spettacolo?

Borghesi: Secondo me in buona parte della drammaturgia e degli spettacoli che abbiamo prodotto in questi anni, una delle domande fondamentali che ci poniamo è di chi parliamo quando parliamo di noi. L’ossessione per questo pronome è presente in tanti nostri lavori e mi sento di poter dire che è un pò proprio una delle missioni artistiche, non che ci siamo dati, ma che è proprio emersa dal lavoro in quanto tale, cioè domandarsi se esiste un noi e di volta in volta cercare di definirlo, di battezzarlo. Quindi quando io dico “noi”, per me stesso che lo pronuncio è sempre un enigma, non so bene di chi sto parlando quando parlo di noi, ho tante idee. Diciamo che il grado zero di questo “noi” pronunciato in quel momento, in quella circostanza, in quella scena, secondo me ha una dimensione che è anche semplicemente “noi che non abbiamo fatto quel viaggio”.

È statisticamente molto inverosimile che in una sala dell’Arena del Sole si trovi, non una persona migrante che quello è più probabile, ma che si trovi una persona che ha da poco affrontato quel viaggio perché le persone che affrontano quel viaggio non sono li, hanno altre destinazioni, altre traiettorie che non incrociano quel teatro. Quindi secondo me il primissimo livello che possiamo immaginare è quello: per cui io sto dicendo in quello spettacolo “ci parliamo tra di noi che non abbiamo affrontato quel viaggio”, perché un altro rischio abbastanza ingenuo quando si parla di migrazione, che fa parte dei rischi che denuncio in quel pezzetto lì, è definire i migranti come una categoria omogenea o con delle caratteristiche in comune, cosa che è del tutto falsa. La stessa categoria di migrante che io impiego per praticità di scena è scivolosa, migrante chi è? È chi sta migrando? Sei migrante nel momento in cui migri? Una volta che sei immigrato quanto resti migrante e dopo quanto diventi immigrato? E una volta che sei immigrato dopo quanto tempo diventi non immigrato, ma cittadino al di là della sua possibilità di acquisire o meno legalmente parlando la cittadinanza?

Tutto quel pezzo è ispirato alla lettura de I dannati della terra di Franz Fanon, nella cui bellissima prefazione Sartre fa un pò la stessa operazione cognitiva che facciamo noi dal punto di vista dei pronomi: dice “è una prefazione destinata a un pubblico europeo occidentale francese particolare” e anche lì lui usa un noi “noi che leggiamo questo libro cioè noi che non siamo loro, questo libro dobbiamo immaginarlo come un oggetto letterario che non è destinato a noi è destinato ad altre persone e noi il contenuto di questo libro, come occidentali, possiamo solo spiarlo”. Ecco anche Sartre in qualche modo si prendeva questa responsabilità di definire un noi e un loro. Chiaro che siano categorie molto poco definite, tuttavia io ho l’impressione che negli ultimi anni nel dibattito pubblico questo desiderio un pò identitario di dire “noi e loro” è stato fallimentare. È chiaro che noi non siamo le stesse persone che sono appena sbarcate dal barcone, sarebbe disonesto, volgare immaginarsi di fare un’affermazione del genere: quindi collocarsi nel “dove” per ascoltare, per parlare è sempre un gesto fondamentale.

Nel corso dello spettacolo vediamo che praticamente tutti i membri della Sea Watch sono attaccati da una sorta di sindrome dell’impostore, nessuno si sente veramente all’altezza della situazione, c’è un senso di colpa collettivo per essere lì sulla nave e per le motivazioni che hanno spinto all’esservi. Questi dubbi sono sorti anche a voi, come ve li spiegate?

Baraldi: Io credo che un pò il punto, uno dei punti fondamentali di questo spettacolo, uno dei punti fondamentali per loro che hanno deciso di salire sul palcoscenico sia la possibilità di raccontare compiutamente, raccontarsi nelle proprie debolezze. C’è una grande questione che riguarda la narrazione sempre eroica di chi fa soccorso in mare o, quantomeno, nella percezione comune, nonostante i grandi tentativi che vengono fatti da parte delle ONG di smontare questa forma di eroismo, tuttavia permane un’ idea di “Ah che grandi loro che vanno a fare queste cose così pericolose così provanti psicologicamente”. C’è ovviamente una questione che rimane alla base delle scelte di chi ha deciso di andare a fare questo tipo di attività in mare cioè la possibilità di farlo: una forma di privilegio che noi abbiamo come società civile europea-occidentale rispetto a chi invece dal sud globale tenta di arrivare, una forma di privilegio che è alla base del concetto di search and rescue.

Quindi da un lato c’è sia una questione che riguarda le proprie scelte individuali, personali, delle persone che lo fanno, ma che lo fanno perchè possono farlo, perché possono permettersi di farlo, perchè per tanti motivi ne hanno avuta la possibilità; questo non fa di loro degli eroi e questa è una cosa che a loro importa tantissimo comunicare. Trasmettere un’idea di eroismo è una forma di assoluzione verso chi non partecipa a queste missioni “loro sono dei grandi sono degli eroi io non mi sento tale però per fortuna ci sono loro così io posso non farlo”: questa è un’ idea che va fortemente combattuta, è anche un pò inconscia, nessuno lo direbbe magari così, però c’è una forma di percezione alterata rispetto alla questione del Mediterraneo centrale, di quanto la società civile possa intervenire in quella zona.

E poi la seconda questione, quella del privilegio è proprio una questione politica: noi abbiamo dei passaporti che sono molti più forti dei passaporti di altri stati, il passaporto italiano è uno dei più forti del mondo, ti dà la possibilità di potersi spostare liberamente – a volte chiedendo dei visti, molte volte no, visti che comunque è molto facile ottenere – per girare per il mondo e se ci va di andare a fare l’Erasmus, se ci va di andare e cambiare vita, andare a vivere in Canada. Lo possiamo fare dipende soltanto da noi e dalla nostra buona volontà, ma è un nostro diritto che noi diamo per scontato. Come c’è scritto sulla fiancata della nave Life Support “i diritti se non sono garantiti per tutti sono soltanto dei privilegi” e quindi c’è una forma di senso di colpa rispetto all’ingiustizia di essere nati dalla parte “giusta” del mondo, dalla parte dove ci sono i passaporti più forti e insieme ai passaporti tutta un altra serie di diritti, non si tratta solo del diritto di movimento,ma di un privilegio iperesteso su tutti i fronti che è la condizione di base per poter partire e andare in mezzo al mare e cercare di rendere questo nostro privilegio, questo nostro diritto un pò contagioso nel momento in cui andiamo ad incontrare le persone in mezzo al mare e in qualche modo trasmettere questi nostri diritti tramite il contatto e il soccorso in mare.

Ecco quindi tutto questo implica una condizione, che è la condizione di venire da un luogo di privilegio, l’Europa o comunque l’Occidente e quindi mettere in atto una forma di salvataggio dove c’è un uomo o una donna, un bianco, che aiuta e salva persone che vengono spesso ritratte come persone bisognose e in difficoltà. Questa disparità è oggettiva e ti pone in uno stato di sofferenza, perché sarebbe ingenuo pensare che su quelle navi questa disparità scompare -cioè che nel momento in cui ci incontriamo anche se io sto in mezzo al mare,cercando di salvarti, e tu hai bisogno di una mano e io te la tendo- ecco sarebbe ipocrita pensare che questo tendere la mano nel salvataggio faccia scomparire la disparità; e quindi questo senso di colpa è proprio dato da questa condizione di innegabile disparità e privilegio che noi abbiamo nei confronti di quelle persone che vorremmo parte di in una società più equa, più solidale. Le persone che vanno su quelle navi hanno questo come principale motore delle loro azioni, tuttavia questa disparità è impossibile cancellarla.

(foto di Luca Dal Pia)

Vi ponete degli obiettivi specifici coi vostri spettacoli? Avete più l’ambizione di raccontare storie reali o di fare denuncia sociale? Insomma, come vi inserite nella dialettica fra portato artistico e portato politico della scena?

Borghesi: Il nostro obiettivo è realizzare degli spettacoli bellissimi, il fine didattico non è mai nei nostri pensieri, o meglio compare solo e soltanto per quanto riguarda gli elementi storico-fattuali-cronachistici quindi ogni tanto dobbiamo spiegare delle cose sennò si fa fatica a seguire la storia, però tutta la politica che c’è nel nostro lavoro riguarda il racconto di storie, non abbiamo nessun fine che non sia quello di raccontare quello che vediamo. La nostra sfida è soprattutto trovare dei dispositivi narrativi e artistici per mettere in scena ciò che abbiamo visto, per mettere in scena ciò che altri hanno visto. Questo per me è il nostro gesto politico, poi, forse, l’aspetto più politico è anche la scelta dei luoghi in cui andiamo a cercare, d’altra parte non esistono, come sappiamo, dei luoghi che non siano politici. Quindi semplicemente a noi interessa raccontare quello che abbiamo visto e riflettere ad alta voce, pensare ad alta voce rispetto a quello che abbiamo visto cercando, il più delle volte, di metterlo in discussione.

Cerchiamo sempre di evitare il rischio di diventare apologetici, al contrario proviamo a porci continuamente. delle domande. Allo stesso tempo, vogliamo evitare un posa eccessivamente conflittuale, nell’ottica semplicemente di condividere con gli spettatori non solo quello che abbiamo visto, ma anche le domande che ci siamo posti mentre vedevamo ciò che vedevamo. Da tutto questo, appunto, che insegnamento traiamo? Del fatto che a un certo punto è successo che una persona aveva una nave troppo piena e ha dovuto lasciare una signora con sua figlia? Secondo me in queste cose non c’è un insegnamento, è una storia e poi di queste storie ognuno fa quello che vuole: noi non abbiamo altro obiettivo che non sia raccontare quella storia e farla raccontare a qualcuno che l’ha vista con i suoi occhi. Tutto il resto, in un mondo di persone senzienti, o anche di persone parzialmente senzienti, viene da sé, una volta che tu sai che quella cosa è successa poi ti regoli di conseguenza.

Pensando ai volontari della navi da soccorso in scena, mi viene da dire che si tratta di persone forse umanamente più vicine a voi rispetto ad altre con cui avete creato spettacoli precedentemente. Questo grado di affinità ha favorito o complicato la realizzazione della messa in scena?

Borghesi: Tutte e due le cose secondo me.

Baraldi: Soprattutto complicato però direi.

Borghesi: Sì, cioè, è terribile avere a che fare con persone simili a se stessi, soprattutto se sei noi. Diciamo che, come ha rilevato giustamente qualcuno, una cosa banale che però Enrico ha proferito con stupore, ma in effetti è una banalità, è che è la prima volta che ci occupiamo di persone che non sono vittima di un’ingiustizia, ma che tentano di evitare che un’ ingiustizia accada. È una prospettiva molto diversa ed è un pò la condizione nella quale ci troviamo noi comunque di testimone di altrui ingiustizie, non di oggetto dell’ingiustizia. Ci assomigliano e ci assomigliano più di altri anche per anagrafe perché hanno più o meno la nostra età, a parte Flavio che è più grande, Miguel, Giorgia e gli altri sono tutte persone sui trent’anni come me ed Enrico, quella generazione lì tra i 20 e i 40. Sono persone anche per istruzione, per, credo, letture, tipo di studi più simili a noi: il che da una parte ti permette di capirle molto meglio, più simili di quanto poteva essere un operaio metalmeccanico o una persona migrante, d’altra parte hanno gli stessi difetti che abbiamo noi.

Quindi ci assomigliamo in tutto e sicuramente rispetto ad altri hanno avuto un approccio molto più accurato, interattivo sulla drammaturgia: erano molto attenti a quello che dicevano, sono persone evidentemente abituate a pesare bene le parole che impiegano e se stai sulla sea watch capisci il perchè. Sono persone che lavorano in contesti che sono continuamente oggetto di criminalizzazione quindi sono sempre attenti a come usano le parole, alle cose che dicono e in qualche modo e sono anche abituati a scegliere le parole a livello politico. Nel mondo delle ONG c’è molto dibattito sulle parole, ti basti pensare che in molte ONG le persone soccorse hanno nomi diversi, ogni organizzazione si dota di una sua policy per chiamare quelle persone: c’è chi li chiama rescue people (persone soccorse), qualcuno li chiama naufraghi come Emergency, la Sea Watch li chiama ospiti, guest, e chissà ancora in quanti modi che nemmeno immaginiamo. Quindi la riflessione sul linguaggio c’è ed è molto articolata, spesso ha più a che vedere con parametrici politici e filosofici più che con parametrici artistici e questa è stata una complessità in più rispetto al solito.

L'autore

  • Irene Ringozzi

    Laureata in Lettere Classiche all' università di Bologna, ritrova la sua passione per il teatro dall' altro lato del sipario. Attualmente studentessa di Italianistica con all'attivo una tesi sulla drammaturgia italiana riletta secondo la critica transfemminista.

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.