struzioni per non morire in pace è lo spettacolo nato dal progetto Carissimi padri, la cui gestazione ha impegnato il regista Claudio Longhi e il suo gruppo di attori per oltre un anno e mezzo, e che ha abitato Modena e provincia per la produzione di Emilia Romagna Teatro fino al debutto di gennaio 2016 al Teatro Storchi di Modena. Si è trattato di un lungo percorso di studio e incontri attorno alle radici della Prima Guerra Mondiale, sondando in particolare quella che il gruppo ha definito «l’epoca della Grande Pace». Laboratori nelle scuole, letture a puntate de La Montagna incantata di Thomas Mann, cene-spettacolo, serate di cabaret, concerti, l’edizione di riviste e bollettini, mise en espace, proezioni sul cinema della Grande Guerra e passeggiate con letture, il tutto coinvolgendo centinaia di cittadini abitando spazi delle città come auditorium, biblioteche, bar, scuole, fondazioni. Quello di Longhi è un teatro che, durante la sua gestazione, sposta il processo nella città, nei suoi gangli, portando ricerca, lavoro d’attore e scrittura all’aperto anziché al chiuso, manifestandosi come presenza costante nel tessuto urbano. Dopo un anno e mezzo si arriva all’esito, frutto di un procedere partecipato, che chiama a raccolta spettatori diventati spesso complici, o in ogni caso consapevoli di un processo in atto. Tre spettacoli (Patrimoni, Rivoluzioni e Teatro) per la durata complessiva di nove ore: in Istruzioni per non morire in pace vanno scena nove attori e attrici che agiscono sulla drammaturgia dello scrittore Paolo Di Paolo, elaborata durante il processo e pubblicata da Edizioni di Storia e Letteratura (Roma, 2015). Tre autonomi capitoli da vedere in sere separate oppure, a Modena, in una sola lunga maratona, un incedere recitativo vertiginoso che manifestava sul palco una teoria di personaggi attraverso le voci e i corpi di otto attrici e attori e di una musicista. Una scena scarna, con una struttura praticabile di ferro per accennare le pareti di un interno domestico, quinte rosse per costruire sipari e cafè chantant che occupavano i diversi punti del palcoscenico, passerelle estese in platea, un videofondale per trasportarci in diverse città, per evocare scioperi e proteste, ma anche visioni dell’arte e della nascente industria cinematografica, fra Cabiria e Meliès. In questo quadro gli attori e le attrici sono molto di più che interpreti, devono infatti ripensare all’idea stessa di recitazione. Devono dare vita alle vicende famigliari dei Gottardi, armatori riconvertiti all’industria militare, con due figli maschi (uno attore, l’altro pittore) e due femmine; devono mettersi nei panni di guitti che introducono e raccordano i vari passaggi del lavoro, cantando e ballando sfrontati come nel cabaret; devono calarsi nelle vesti di figure storiche, da Giolitti a Salandra, da Frued a Trockij, da D’Annunzio a Sarah Bernhard, ma nel contempo prestare voci e corpi a scioperanti, a membri socialisti in riunione e proteste, a banchieri senza scrupoli, a emissari che gridano l’evolversi delle vicende storiche (attentati, proteste, ultimatum, accordi ecc) entrando dalla platea, camminando sul proscenio, recitando dai palchetti. Tanti sono i livelli di questa presenza attoriale, a tratti calata nei personaggi a tratti impegnata in un secondo livello dove si “recita la recitazione”, sfalsando la percezione di chi guarda, imponendogli una presa di posizione sull’essenza stessa di quello che si sta osservando, dunque sulla propria posizione.
Di questo e tanto altro abbiamo parlato con Lino Guanciale, uno dei collaboratori più stretti di Claudio Longhi, attore-autore non solista come raramente se ne vedono nel teatro italiano odierno. Quella di Guanciale è una presenza che crea, collaborando a tutto il processo di scrittura, scrivendo le musiche e le canzoni e in generale facendosi carico di una voce “autoriale” dal punto di vista dell’attore dentro a un processo di scrittura collettivo che prevede più poli.
In questo spettacolo rivesti un ruolo che potremmo definire di “capocomico”…
Il gruppo di lavoro del progetto Carissimi padri si è raccolto per un reciproco riconoscimento di affinità a partire da relazioni che ciascuno aveva con me o con Claudio Longhi. Si tratta di undici persone che hanno condiviso anche altri progetti come Il Ratto d’Europa, un vero e proprio ensemble. Al suo interno vige un equilibrio di responsabilità creative tale per cui dialogo e dialettica sono paritari, anche nel confronto con la regia. Si tratta di un assetto fondato su una graduale responsabilizzazione dei singoli, su una partecipazione attiva nella quale ognuno si fa “promotore culturale” sul territorio. Questa è la matrice ideologica del lavoro. Ognuno di noi ha lavorato alla promozione del progetto sui social o con le istituzioni, ma non solo. Tutta l’attività di ricerca filologica e drammaturgica è stata condivisa dai membri del gruppo, dall’elaborazione delle musiche con Olimpia Greco (musicista di riferimento del gruppo ormai da anni) alla stesura delle canzoni e delle diverse drammaturgie che durante tutto l’anno abbiamo utilizzato per le varie attività.
C’è poi la presenza di Paolo Di Paolo, che firma il testo dello spettacolo. Come riferisce lui stesso nelle interviste, Paolo non ha agito come un drammaturgo indipendente a cui è stato commissionato un testo. Al contrario, ha seguito le nostre prove, ha conosciuto gli attori, ha dialogato incessantemente con me e con Claudio. Il tutto per confezionare su misura un “abito drammaturgico” per ognuno dei membri del gruppo. Ha insomma tratto ispirazione da tutti noi per comporre il nucleo famigliare attorno cui ruota la trama, così come la galleria di personaggi secondari.
Venendo al mio percorso, mi sono trovato in questi anni a dare priorità emotiva al lavoro teatrale, che è divenuto un impegno quotidiano. Oggi tale lavoro mi risulta meno faticoso, perché l’ensemble ha fatto in modo che un sempre maggior numero di responsabilità, anche autoriali, venissero divise e condivise.
Gli ultimi vostri spettacoli vanno pensati con una particolare attenzione al processo, a come si apre e come si evolve, coinvolgendo una larga collettività. Va però ovviamente anche considerata la solitudine dello spettatore con l’opera. Dal tuo punto di vista di attore e alla luce del risultato, quali elementi del processo ti sono sembrati particolarmente fecondi?
In un contesto lavorativo siffatto, si tende a concepire ogni pezzetto del percorso come qualcosa di integrato rispetto a ciò che avverrà in scena nello spettacolo. Abbiamo dunque utilizzato le occasioni dell’ultimo anno e mezzo come “test” per capire come strutturare certi momenti di cabaret interni allo spettacolo, per provare diversi modelli drammaturgici ed elaborarli noi stessi in scena o ancora per consigliarli a Di Paolo. Dal punto di vista attoriale è capitata un po’ la stessa cosa: il lungo percorso mi è servito per tentare strade nuove rispetto a quelle a cui sono abituato, per vincere la tentazione di restare “nel mio”. Dall’inizio è stato chiaro che avremmo interpretato una dozzina di personaggi, di cui tre o quattro sarebbero stati caratteri portanti nella struttura complessiva… il percorso precedente lo spettacolo è stato così una sorta di laboratorio generale, una dimensione molto fruttuosa, una lunga preparazione di un anno e mezzo di cui tutti abbiamo beneficiato. Credo che questo si percepisca anche dalla platea: anche chi non conosce il processo, ha avvertito la presenza di un certo “spessore di esperienza”, fattore che fra l’altro ci ha conferito molta serenità e sicurezza.
Inevitabilmente, un così poderoso percorso “a valle”, prima della salita finale, ci interroga sul senso stesso del teatro oggi, sulla sua necessità, sullo stato di emergenza in cui sembra perennemente versare.
Credo che l’emergenza attuale per il teatro sia la necessità fare percepire la sua stessa esistenza. Per molte persone, il teatro infatti non esiste neanche come ipotesi. Questo è il movente da cui scaturisce l’enorme mole “formativa” che il progetto prevede. Nel 2004 a Lugano, mentre replicavamo uno spettacolo, io e Claudio Longhi ci stavamo ancora “annusando” per capire se potessimo fidarci l’uno dell’altro. Claudio mi chiese: «Cosa maggiormente ti colpisce, sia negativamente che positivamente, dell’andare in giro per teatri?» Risposi che a colpirmi era la quasi totale assenza di spettatori al di fuori di una stretta cerchia di abbonati, spesso di una certa età. Ci siamo trovati d’accordo su questo aspetto, organizzando dei “caravan” di persone con la priorità di dimostrare che il teatro è un “luogo culturale”, in cui è possibile entrare e pensare. Istruzioni per non morire in pace rappresenta per noi un grosso salto in avanti in tale idea, dal momento che una delle priorità del progetto va nella direzione di rendere chi guarda consapevole di stare osservando degli attori impegnati al massimo delle proprie possibilità.
Che tipo di ricerca, di lavoro richiede una dimensione di continua entrata e uscita da così tanti personaggi?
Si tratta di un nodo teorico fondamentale, sia per chi osserva dall’esterno sia per noi che siamo dentro al processo. Provo a spiegarmi. Una volta costruita la macchina, da un dato momento in poi è lei che ti porta; se tu ti sei predisposto al viaggio, è il flusso stesso che ti conduce dove è meglio che tu stia. Quello che emerge in scena in Istruzioni è solo la punta di un iceberg, nessuno sta fermo, anche dietro le quinte corriamo sempre… in tale condizione si verifica una specie di accelerazione sensoriale per cui non si ha più il tempo di concettualizzare il rapporto con le figure che portiamo sul palco. Si tratta di un meccanismo di cui si è consci prima dello spettacolo, ma durante è come se ci si dovesse fidare dello studio che si è fatto e lasciarsi trasportare dall’energia complessiva, avendo chiari gli obiettivi.
In questo senso, le maschere (realizzate da Paolo Bellagamba) rivestono un’importanza fondamentale.
Sì. Prima di introdurle avevamo proceduto cercando di mettere a punto caratteristiche vocali o fisiche per ciascun personaggio, in modo da alternarle poi sul palco. Le maschere, come sempre succede quando si aggiunge una piattaforma neutra sul viso, hanno amplificato altri codici espressivi di comunicazione col pubblico. A mio avviso si è trattato di un salto di qualità non di poco conto, che ha consentito di affrontare la questione fondamentale per un attore che interpreta diversi personaggi: come ci si distanzia? Qui si esaurisce il percorso razionale, la base di certezze del lavoro dell’attore.
E che cosa viene, dopo la razionalità?
Nel momento in cui le maschere funzionano, predispongono diversamente il corpo. Nello specifico il mio personaggio di Lelo, che ha una maschera bianca, mi ha portato a un lavoro quasi di stampo burattinesco mentre Freud, che invece ha una maschera molto connotata e realistica, mi ha portato a un’interpretazione meticolosa. Io come attore ho costruito un percorso di paletti razionali, poi sono intervenute le maschere che hanno spinto in una precisa direzione, amalgamandosi con la partitura fisica costruita nel dettaglio… eppure, quando sei sul palco devi soltanto esserci, abitare quella dimensione. Qui tocchiamo una sorta di aporia, qualcosa che ha a che fare col grande mistero – che poi mistero non è, perché è molto facile da percepire – della presenza scenica. Personalmente, aderisco a quella che è la mia comprensione di Brecht: nei sui Scritti teatrali non si esclude la prassi dell’immedesimazione, si parla semplicemente della necessità di usare più pedali per spingere su un limite o sull’altro. Questo dentro e fuori tra interpretazione del personaggio e presenza dell’attore che si rivolge a una platea, è in realtà più semplice da attuare di quanto non sembri a chi osserva. Se si ha chiara l’esatta conformazione dei Lelo o dei Freud di turno, questi e altri personaggi li possiamo dominare, mettere in pausa, li possiamo utilizzare per farli parlare più direttamente con le persone. Come compagnia ci siamo imbevuti di prassi didattica ancora più che di studio analitico, così tale processo ce lo siamo sentiti addosso, e le maschere sono state quell’intuizione che ha permesso di abbandonarci a un’alternanza serena di “marce” espressive.
Come definisci la “presenza” da dentro?
Per capire una cosa, un attore la deve fare, la deve mettere in pratica. Fingere di essere un altro o imitare un altro è una situazione estremamente attrattiva (almeno nel mio caso) perché è necessario riattraversare fisicamente quel linguaggio di cui ci si vuole appropriare. Forse il momento in cui mi è sembrato maggiormente di aver afferrato la questione è stato durante una lettura con Edoardo Sanguineti, che amava molto leggere in pubblico, declamare poesie. Il poeta è in qualche modo padrone del linguaggio, e nonostante Sanguineti non avesse capacità recitativa mi impressionò il suo modo di articolare: era come se le parole, anzi i singoli suoni, venissero generati per la prima volta dalla sua bocca. Avvertivo una sorta di piacere fisico da parte sua e quando ho cercato di replicare tale attitudine la presa su chi mi guardava era infinitamente più forte. In questi casi si innesca un flusso di interscambio molto più chiaro e limpido rispetto a quando la produzione linguistica è di stampo routinario. Ecco, penso che la presenza scenica passi la ricerca dell’eros nella produzione di suoni. Carissimi padri ha forse messo in secondo piano tale aspetto, data la quantità di elementi di cui doversi occupare. Però c’è stato un momento significativo, accaduto durante le generali, due giorni prima del debutto. Si era come creato una specie di lago di tranquillità, vale a dire che il flusso era talmente forte e netto nel portarci dove voleva (che poi è dove volevamo noi) che ho potuto occuparmi soltanto di quell’aspetto “erotico”. A livello personale, dunque, lo spettacolo è stato in realtà una parte importante di una mia riappropriazione dell’eros linguistico.
Per discutere del lavoro degli attori in Istruzioni, diremmo di avere visto una recitazione recitata, una sorta di “secondo livello” che prende di petto, assume lo stereotipo. È una questione sulla quale vi siete interrogati? È stato in qualche modo anche uno scoglio da affrontare?
Questo secondo livello esiste, ed è certamente è intenzionale. Se eccettuiamo alcuni momenti dove abbiamo utilizzato un primo livello di recitazione, dunque una forte adesione personale dell’attore al personaggio, in realtà quasi sempre recitare è stato programmaticamente un re-citare. Vale a dire, etimologicamente, la riproposizione di modelli linguistici e comportamentali già esistenti, cercando di oggettivarli il più possibile. Durante una presentazione in una libreria, Di Paolo ha parlato di quanto abbia pesato nella progettazione delle figure lo studio dei pregiudizi che i Paesi europei avevano l’uno per l’altro negli anni in cui si svolgono le vicende. In effetti da questo siamo partiti, cercando di oggettivare come ci si guardava dall’interno e dall’esterno rispetto alla propria nazionalità e condizione sociale. Abbiamo pensato che proporre delle “caricature” fosse il miglior modo per restituire al pubblico una “cartolina” veritiera di quegli anni. È appunto quello che succede con una foto: è una rappresentazione del suo oggetto, quindi avrà sempre un elemento di finzione, capace però di raccontarlo in modo eloquente. Credo che tale processo ci abbia permesso di mettere in luce da una parte le distanze, dall’altra le preoccupanti contiguità del presente con un’epoca che era del tutto convinta della propria forza, eppure è finita nel baratro.
Fra gli elementi che maggiormente ricorrono vanno citate sicuramente le canzoni, supportate da una corporeità che lambisce i confini della danza, tipica di un “modo” da varietà, da avanspettacolo..
Ci siamo chiesti come restituire in maniera obiettiva quegli anni, affinché fosse più semplice per lo spettatore capire come collocarsi. Da questa domanda è giunta l’intuizione di citare dei modelli, anche dal punto di vista drammaturgico: i momenti di varietà sono mutuati a calco dal materiale per esempio di Ettore Petrolini, dei caffè-concerto di quegli anni, che progressivamente stavano diventando vera satira. Tutto ciò ha portato Claudio, che ha anche interessi da studioso nei confronti della storia del teatro, a interrogarsi su un tema che non è stato ancora sviscerato del tutto: il cabaret così come lo abbiamo in mente, col suo sguardo politico ficcante al vetriolo, non esisteva fino all’epoca successiva alla prima guerra mondiale. Si tratta dunque di un figlio della grande guerra e dello shock che ha provocato, anche se prima sono esistite figure che ne hanno anticipato alcuni caratteri. Noi abbiamo dunque cercato di ricostruire a calco tali momenti per restituire delle figure, il più possibile prossime a cosa è stato e cosa ha significato quel mondo. Una sorta di archeologia dei saperi, come recitava il sottotitolo del Ratto D’Europa.
Pensando al tuo percorso, al lavoro in alcune fiction trasmesse anche in prima serata su Rai Uno, viene da pensare alla “responsabilità sociale” dell’attore. Come la vivi?
Amalgamare il mondo del teatro con quello dei prodotti seriali televisivi è certamente difficile. La mia carriera televisiva è il frutto di una scelta abbastanza precisa, che ho deciso di intraprendere cinque anni fa. Prima di quel momento avevo rifiutato alcune offerte per concentrarmi sull’attività teatrale. Tale percorso penso mi abbia permesso di arrivare più preparato, con a disposizione strumenti più affilati, e di abitare un mondo televisivo che prevede ritmi di produzione nei quali spesso il lavoro dell’attore soccombe sotto le ragioni della messa in onda. Ho sempre cercato di lavorare in prodotti che reputavo sopra la media dei canoni della tv generalista, e avere raggiunto una notorietà televisiva non ha ostacolato o inficiato il percorso teatrale, nonostante avvertissi all’inizio questo timore. Penso per esempio alla necessità che abbiamo come compagnia di proporre numerosi laboratori nelle scuole… grazie alla tv ho al contrario probabilmente guadagnato maggiore credibilità, che ho utilizzato a vantaggio del teatro.
Per rispondere alla tua domanda, direi che il mio tentativo è fare in modo che il percorso televisivo non prevarichi mai quello teatrale, anche a livello di organizzazione dei calendari. La dimensione teatrale di gruppo è diventata quasi esistenziale e la utilizzo per difendermi da alcune derive sempre dietro l’angolo quando si entra a far parte di un apparato industriale massiccio come quello televisivo.
C’è poi un altro elemento, prettamente estetico, legato alla dialettica fra la recitazione teatrale e quella di stampo natural-realistico che si impone in ambito cinematografico. Io non mi sono mai reputato bravo a imitare, soprattutto se penso a certi “fenomeni” della recitazione. In questo senso, credo che la mia presa di posizione brechtiana unita all’esperienza televisiva mi abbiano permesso di spingere su diversi pedali in maniera più consapevole. È una questione di punti di vista che si mescolano. A tal proposito, continuo a pensare che l’immersione fino all’invasamento in un personaggio non sia in fin dei conti plausibile, ma sono altresì convinto, come sosteneva Gramsci, che il teatro sia l’unico spazio in cui ci si possa mettere nei panni di un altro. Anche chi, come me, cerca di farlo attraverso una via razionale, a un certo punto potrebbe “cadere” in un vortice dionisiaco, perdersi e lasciarsi trasportare verso altri lidi (lidi che però sono già dentro di noi…).
In che modo la serialità permette di “stare” nei personaggi, di approfondirli? Pensiamo ai Guido Corsi in Che Dio ci aiuti, al conte Guido Fossà de La dama velata ecc…
La serialità, nel caso in cui sia sostenuta da una scrittura non appiattita su categorie interpretative meccaniche (comico, drammatico…), offre la grande opportunità di stare vicino a un personaggio per molto tempo. Per inciso, il personaggio, che nel teatro è forse una parentesi storica ormai chiusa, nell’audiovisivo si impone con forza, è dunque ancora strettamente necessario essere credibili nel “fare” un altro di fronte a una macchina da presa. Penso che per evitare che la serialità annichilisca il lavoro di riflessione dell’attore occorra sempre, da un lato, impostare un percorso effettivo di adesione fisica alla figura. Questo è anche un po’ il lascito di Carissimi padri, quello che si definisce “mettersi nelle scarpe” di un personaggio. Dall’altro, per non soccombere alla serrata tabellina di marcia imposta dalla televisione, io cerco di impostare, creare e poi seguire una fase propedeutica di approccio al personaggio. Sono convinto che per la recitazione seriale non sia sufficiente rifarsi ai modelli inglesi e americani (Breaking bad, Mad men etc.), che restano ovviamente ottimi prodotti. Occorre invece leggere e approfondire le fonti in maniera direi filologica. In altre parole, se devo interpretare Sherlock Holmes non posso prescindere da Conan Doyle. Occorre veramente costruirsi una “bibliografia” di partenza, anche per un lavoro di natura commerciale: se l’attore spende un serio lavoro dietro alla preparazione del personaggio, inevitabilmente ne aumenterà lo spessore di realizzazione.
Quand’è che hai pensato “l’attore è la mia strada”?
C’è un momento esatto, ed è la prima volta che ho recitato. A me il teatro ha affascinato sin da bambino, ma ne ho sempre avuto un certo timore. Ad Avezzana, dove sono cresciuto, non era presente alcun teatro. Avevo assistito a tre o quattro spettacoli di compagnie locali prima di recitare a mia volta, a 19 anni. Fino a quell’età mi ero negato esperienze simili, come i laboratori teatrali a scuola, da un lato ne ero decisamente attratto ma dall’altro ero terrorizzato dallo scoprirmi inadatto. Mi spaventava probabilmente anche l’idea di convincermi a fare l’attore per mestiere, qualora mi fossi invece rivelato portato per la recitazione. Ero certamente influenzato dal contesto sociale: mio padre è dottore e mi stavo avviando a intraprendere qual tipo di carriera. L’ultimo anno di superiori decisi però di partecipare a un laboratorio teatrale, giusto per non restare con il rimorso di non averci provato. In quell’occasione c’è stato un momento, mentre stavo studiando un monologo scritto da me ispirandomi a Comici spaventati guerrieri di Stefano Benni, in cui ho iniziato a pormi domande propriamente attoriali, relative all’efficacia o meno delle scelte recitative. Quando ho presentato il testo di fronte ai miei compagni di classe, la bontà delle mie scelte fu confermata perché la mia interpretazione “funzionava”. Ecco, lì mi sono accorto di avere una tendenza a comunicare con gli altri sul palcoscenico, cosa che invece nella vita reale non mi riusciva altrettanto bene. Una volta ottenuta questa consapevolezza, è stato anche molto più facile farla capire alle altre persone, in primo luogo a mio padre che mi ha lasciato la libertà di sperimentare un percorso diverso.
Non sono mancati in Italia attori e attrici impegnati sia nel teatro che nella televisione. Mi pare che si tratti di una linea di lavoro carsica che di tanto in tanto riemerge, con effetti positivi, come sta accadendo in questi ultimissimi anni. Secondo te in che momento ci troviamo? A quali esperienze guardi con maggior interesse?
Mi sembra una questione che appassiona soprattutto gli attori della mia generazione. Vedo un numero sempre maggiore di attori e attrici con un background simile al mio, con i quali ci ritroviamo a condividere alcune scelte. Parlando per esempio con Marco Foschi, Flavio Parenti e altri attori con un curriculum teatrale folto e ideologicamente segnato, mi accorgo di come molti stiano cogliendo l’opportunità di fare televisione e cinema. Stiamo dunque cominciando a pensare che il mezzo non sia il “demonio”, ma rimanga semplicemente un mezzo, nonostante influisca, ovviamente, sulla considerazione e sulla natura di ciò che si fa. Noto dunque diverse figure di attori e attrici teatrali alla prova del grande o piccolo schermo e che riescono a raggiungere risultati assolutamente “propri”. A me è capitato di lavorare con Umberto Orsini, grandissimo attore che probabilmente deve la sua enorme popolarità teatrale non soltanto alla sua esperienza sul palcoscenico ma anche a sceneggiati come i Fratelli Karamazov o altre apparizioni televisive. Credo dunque di far parte di una generazione che sta crescendo coltivando la speranza che sia la qualità del lavoro a influenzare il mezzo, anche lì dove vigono leggi produttive bizzarre come quelle del panorama televisivo italiano.
Un punto di riferimento che condivido con Claudio Longhi è un “prisma teatrale” degli ultimi anni: Christoph Marthaler. Alcuni dei suoi attori sono cantanti di formazione, che il regista svizzero mette in condizione di recitare in una certa maniera, avendo loro un passato da pop-star o tv-singer. Noi rincorriamo quel modello dal punto di vista linguistico in senso lato ancor prima che estetico, ovviamente in modi e con strumenti diversi. Un buon obiettivo da porsi sta nel portare la qualità di un approccio – e tutti gli strumenti necessari per ottenerla – in qualunque contesto ci si trovi a praticare. Questo non per “elevare” il mezzo o il contesto, ma per riconoscersi nel lavoro che si svolge. Tale consapevolezza l’ho raggiunta durante la lavorazione di istruzioni per non morire in pace, dove la fatica di destreggiarmi fra riprese e prove in palcoscenico era bilanciata da una chiara percezione del mio punto di vista sul lavoro, sulla mia posizione artistica.
La dama velata, 2015
Per approfondire
> Sito web di Carissimi Padri
> Conversazione con Paolo Di Paolo (gennaio 2016)
> Conversazione con Claudio Longhi (febbraio 2015)
Istruzioni per non morire in pace
1. Patrimoni
2. Rivoluzioni
3 Teatro
di Paolo Di Paolo
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Olimpia Greco (fisarmonica e pianoforte), Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Simone Tangolo
proiezioni Riccardo Frati
luci Tommaso Checcucci
arrangiamenti musicali Olimpia Greco
trucco e acconciature Nicole Tomaini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario e ricerche iconografiche Vittorio Taboga
assistente ai costumi Sara Gomarasca
si ringrazia Giulia Maurigh per la collaborazione alle ricerche drammaturgiche e iconografiche
direttore tecnico Robert John Resteghini
direttrice di scena Madrilena Gallo;
capo macchinista Claudio Bellagamba;
macchinisti Andrea Bulgarelli, Marco Fieni;
capo elettricista Fabio Bozzetta;
attrezzista Erica Montorsi;
sarta Loredana Averci
scene costruite nel laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
attrezzista Erica Montorsi
sarta Loredana Averci
scene costruite nel laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Marco Fieni, Sergio Puzzo
scenografi realizzatori Erica Montorsi, Livio Savini
grafica Jean-Claude Capello
Si ringrazia il Museo della Figurina per la concessione d’uso di sue immagini
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.