«Ma la funzione cruciale da cui dipende la creazione di immagini [nel cervello] è la mappatura, il più delle volte una mappatura macroscopica, ossia la capacità di riportare differenti dati che scaturiscono dal campionamento del mondo esterno in una sorta di cartografia, uno spazio entro il cui cervello può rappresentare graficamente schemi di attività e la relazione spaziale tra gli elementi attivi nello schema. È così che il cervello crea la mappa del volto che sta davanti nostri occhi, la curva dell’intensità di un suono che state ascoltando, o ancora la forma dell’oggetto che sfiorata con le dita».
Antonio Damasio, Lo strano ordine delle cose
Ai confini del centro storico di Prato, le antiche mura e le case a torre si mescolano con la verticalità delle ciminiere. Nei vicoli del borgo nascevano intorno all’anno 1000 le prime gore, un avveniristico sistema idraulico che dava forza ai mulini degli antichi opifici, sistema che ancora nel ‘900 avrebbe avuto l’essenziale ruolo di scolo per gli scarti dell’imponente macchina industriale tessile pratese. Le gore, ormai invisibili, nascoste dal cemento delle strade, scorrono spinte dal Bisenzio tra i chiassi dove le antiche case medievali diventano edifici dell’età industriale, case di operai e tessitrici, in cui fino a qualche anno fa il rumore delle macchine pareva non quietarsi mai. Dal 2001, proprio in quel limite urbano dove il medioevo muta nel ‘900, in cui le fabbriche sono diventate musei e i complessi con le alte ciminiere delle biblioteche, sorge un altro luogo in costante e irrequieta mutazione: lo spazioK.
Kinkaleri si trasferisce a Prato quando la coda dei gruppi e movimenti degli anni ’90 sta maturando in una scena, forse l’ultima vera e propria scena del teatro italiano prima della frammentazione contemporanea (disgregazione che qui su Altre Velocità testimoniamo da tempo e, riguardo l’ultima generazione, raccontiamo nella rubrica Chi l’ha vista?). Dal 2013 spazioK non è più solo la casa dei Kinkaleri, ma diventa un centro di residenza regionale rivolto ai giovani: il progetto si veste del nome is it my world? ed è un esperimento a cielo aperto, per quanto già segnato da diversi eventi e collaborazioni. Da diversi anni ormai mi ritrovo spesso a frequentarlo e ho perso il conto delle volte in cui cercavo di capire di fronte a quale razza di ibrido mi trovassi di fronte, e così, qualche giorno fa, l’ho chiesto anche alla compagnia.
«Secondo me è anche una sorta di dichiarazione d’indipendenza…». Mentre lo dice Massimo Conti guarda in alto, come se selezionasse le parole da un paroliere fluttuante. «Indipendenza di fare come vogliamo, e al tempo stesso cura delle relazioni. La nostra relazione con l’altro è una relazione specifica sull’idea del prodotto artistico, un approccio che probabilmente viene dalla nostra esperienza degli anni ’90 e dalle tracce rimaste di quella stagione. Il nostro è il tentativo di dare suggerimenti, di offrire le possibilità di attraversare l’esperienza artistica in determinate modalità, sempre senza sentirci maestri, ma proprio nell’idea di un dialogo che contamini i processi». Gina Monaco aggiunge delle considerazioni con la lucidità di chi le ha già affrontate più e più volte: «Lo spazio, in senso generale, è un connettore di attività, di politiche, di idee. Si deve ripartire dai luoghi, ricostruire una certa densità che era tipica proprio degli spazi che frequentavamo negli anni ’90, rimettere in gioco la prossimità della parola e del confronto. Invece oggi l’indirizzo dei tempi è diverso: ne sono un sintomo anche i bandi, parte di un orientamento burocratico sempre più improntato al controllo piuttosto che alla relazione. Bisogna ricostruire una rete di luoghi sia, come diceva Massimo per permettere una certa indipendenza del fare artistico, che per ritrovarci a parlare dei processi, luoghi di pensiero e azione sganciati da sistemi produttivi che intendono il processo artistico solo come la produzione di un oggetto di mercato.
Le residenze sono luoghi di crescita e promozione, e is it my world? trova il suo perno nella relazione orizzontale che si crea tra le compagnie e gli artisti ospitati e Kinkaleri. Nel solco dell’esperienza della compagnia, anche gli ospiti fanno parte delle emanazioni più trasversali delle arti performative, preferendo spesso percorsi sperimentali, di rottura, senza la necessità di seguire un percorso prestabilito, o di procedere con un tutoraggio, ma facendo sì che la corrispondenza tra sguardi diversi sia parte integrante del processo creativo. Più che “insegnare” a creare, Kinkaleri mette a disposizione una batteria di esperienze con la funzione di aumentare la consapevolezza dietro il processo creativo, costruendo non una specifica modalità di residenza, ma interpolando le proprie conoscenze sulla base delle necessità della compagnia ospitata. Può essere una forte linea guida, come anche solo un polo di discussione, ma sempre senza alcuna forma di verticalità.
«Anche all’interno della specifica relazione con le 33 residenze toscane, questo rimane uno spazio, un contenitore, che dà una testimonianza su un fare dietro il processo artistico, peculiare, figlio di tensioni non per forza parallele a quelle odierne». Per Massimo spazioK non svolge la sua funzione di residenza esclusivamente per arginare un sistema produttivo che stimola le individualità (e quindi la precarizzazione), ma è un luogo dove si fa testimonianza di un metodo che provi far germinare le condizioni per un «fare rete» che non sia esclusivamente supporto tra artisti bensì dialogo costante, crescita anche attraverso la dialettica, che diventa prassi sia verso l’esterno sia nell’intimità del processo creativo. Aggiunge Marco Mazzoni che «in questi anni le modalità che abbiamo messo in campo sono rimaste pressoché uguali». Al tempo stesso è anche vero però, come fa notare Gina, che le residenze di is it my world? sono passate dall’essere un’esperienza di «ospitalità senza risorse» a una più «residenziale» progressivamente, chiudendosi in parte alla continua esposizione anche a un pubblico, e ragionando sempre di più sulla qualità delle relazioni. Per cui la prassi dietro le modalità messe in atto da Kinkaleri serve allo scopo di accompagnare queste relazioni fino a mettere in discussione alcune logiche istituzionali, e in tal senso l’orizzontalità viene premiata, perché l’ascolto da parte di Kinkaleri è attivo. Marco mi suggerisce come sono cambiate certe prospettive: «is it my world? è nato anche con l’idea di non fare un festival a cadenza regolare, ma quello di inserirci all’interno delle occasioni legate agli incontri e alle conoscenze del panorama italiano e internazionale del teatro e della danza, che poi noi inserivamo nella nostra programmazione. Va detto che questa sua irregolarità ha anche creato un po’ di difficoltà nella comprensione di questo strano oggetto, e soprattutto i primi tempi, senza chissà quali fondi ma solo col nostro tempo e la nostra volontà, fu molto difficile far capire a pieno questa sua irrequietezza e discontinuità».
Ideare questi programmi senza risorse divenne ben presto un modello insostenibile, non tanto per mancanza di passione e di attenzione da parte del gruppo, ma proprio nella prospettiva che si poteva migliorare un procedimento che in quelle modalità non aiutava nessuno. In seno a questa consapevolezza è nato Body To Be, progetto più similare alle prassi precedenti ma al tempo stesso sostenibile, programma di curatela più legato al dialogo con la comunità di Prato e le sue realtà aperte alle arti performative. Dopo Nerone (2006) il collettivo a sei performer si è mutato in quello a tre di oggi, ricostruendosi anche concettualmente (per esempio dedicandosi al testo, spesso dei classici). Kinkaleri in più di vent’anni di attività ha sempre preferito l’indipendenza e l’originalità anche nei percorsi istituzionali e quindi nelle residenze, concepite sempre meno come prodotti ma intese come relazioni, campionamenti dal mondo esterno con le quali costruire una mappatura della sperimentazione contemporanea.
Senza la necessità che il pubblico sia presente, is it my world? lascia che le sue contaminazioni si sprigionino come in delle gore sotterranee, che sfociano oltre le sponde del Bisenzio, correndo sotto i binari e le autostrade che circondano Prato, arrivando ovunque, anche fuori dall’Italia, servendo la sua funzione istituzionale senza configurarsi in un servizio, ma come una forza centrifuga dalla quale si formano reti e relazioni che provano strenuamente a contrapporsi alla frammentazione e l’isolamento che naturalmente la strutturazione istituzionale prevede mettendo al centro la bulimia produttiva, contro l’innata esigenza artistica di maturare con i propri tempi e le proprie modalità.
L'autore
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Blogger, scrive di teatro per Altre Velocità e cura il blog di critica rock "Una volta ho suonato il sassofono". Ha condotto nel 2017 il podcast di musica underground Ubu Dance Party.