Come rapide impressioni, i potenti della terra si avvicendano in un gorgo di proiezioni video incostanti e mutevoli. Despoti, governanti, strette di mano, poi Obama – Nobel per la Pace – e Hillary Clinton: sui loro volti il riverbero sgomento davanti all’orrore delle immagini, tuttora secretate, della cattura di Bin Laden. Possibile educare alla non violenza servendosene in maniera brutale? La domanda rimane sospesa, incagliandosi sulle rive del Mediterraneo, proprio accanto al corpicino esanime di Aylan, il piccolo esule siriano abbandonato sulla battigia, la t-shirt rossa, i pantaloncini blu e il volto soffocato nella sabbia umida.
Con questo prologo si apre il Giulio Cesare di Shakespeare, in scena al Teatro Storchi di Modena dal 17 al 20 gennaio 2018, per la regia dello spagnolo Alex Rigola, ex direttore della Biennale Teatro di Venezia e qui alle prese con una produzione Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale già largamente apprezzata da pubblico e critica.
Salvo il testo, il dramma subisce una radicale rielaborazione contemporanea dal forte impatto acustico e visivo, una scarnificazione profonda dal punto di vista scenografico, immersa in un paesaggio sonoro increspato da distorsioni elettro-rock. Al centro di una scena deserta, camera oscura incorniciata da due esili profili di microfono, Roma è un parallelepipedo chiaro: figura piena all’apparenza impenetrabile, blocco di marmo prefigurazione della città dei Cesari, spessore murale schermo alla congiura e insieme schermo cinematografico, su cui primi piani contrappongono alla meccanica impietosa della politica una narrazione più intima e fragile. Roma è un contenitore opaco, un container marchiato S.P.Q.R. in viaggio verso l’Impero, un pesante sarcofago, la cella frigorifera di un mattatoio. Anche la partizione tradizionale in cinque atti è scardinata, in favore di una scansione binaria marcata dalle parole WORDS e WAR: il tempo della congiura e quello della guerra.
(ph: Serena Pea)
WORDS. Un “pogo” convulso – metafora dei tempi tumultuosi che affliggono la repubblica e anticipazione dei suoi ultimi spasmi – segna l’ingresso in scena dei personaggi, animali politici con l’accento sul primo termine, la toga sostituita dal manto peloso di lupi, in un’accumulazione di citazioni da Shakespeare all’homo homini lupus hobbesiano. Solo Cesare ha perso il pelo, eppure tutto gravita attorno alla sua aura, il suo nome pubblicamente declinato in lode, in biasimo e bestemmia nel segreto della congiura. Con l’apparire dei protagonisti il sovvertimento del teatro elisabettiano è compiuto: non più infatti ruoli femminili assegnati ad attori, bensì un Cassio, un Ottaviano e persino un Cesare impersonati da attrici (Maria Grazia Mandruzzato, nei panni del Divo e del suo fantasma).
A dispetto del titolo, il vero dramma è quello che consuma i congiurati, Bruto su tutti, afflitto da due forze contrarie: da un lato la venerazione e l’amore filiale per Cesare; dall’altro una fede repubblicana integerrima, alla quale immolare la propria posizione, il matrimonio, la vita propria ed altrui, alla quale sacrificare tutto. Così come potenza e vulnerabilità toccano l’apice e si confondono in Cesare, la fulgida virtù di Bruto viene contaminandosi della spregiudicatezza e del risentimento di Cassio, fino a piegare la ragione alla congiura in una notte in tempesta di sotterfugi e bagliori elettronici. In Senato, la mattina seguente, irresistibili si compiono le Idi di marzo. Eppure, l’evento si consuma in disparte all’interno di quel monolite che si scopre cavo, la scena ci viene sottratta, rimandata in una raffica di fotogrammi sconnessi in cui il sangue schizza, gocciola, cola, tra chirurgia e macelleria: sacrificio, operazione politica o delitto cruento?
Dilaniare il corpo per aver ragione dello spirito. Ciononostante esso non cessa di incombere e anzi si fa più inquietante: non lo dilegua la morte, nemmeno dal corpo che, ancora custodito lontano dal nostro sguardo, è ora ingigantito, proiettato a tutta parete mentre spogliato e riverso a terra muove ancora le palpebre, incessantemente, lo sguardo fisso su di noi, popolo di Roma, chiamato a raccolta nella platea trasformata improvvisamente in foro. Cesare è già eterno, la sua innocente fragilità di mortale mal si attaglia al ritratto dispotico perorato da Bruto, sopraffatto stavolta dall’onda emotiva del popolo sobillato da Marco Antonio. Non resta che fuggire. E preparare lo scontro.
WAR. L’assassinio di Cesare coincide con una disintegrazione della scena, operata a sipario aperto durante l’intervallo: il solido centro è ora sventrato, le pareti crollate a scoprire inaspettatamente non il cadavere, bensì una fossa comune, un cumulo immane di ossa, gli scheletri della repubblica, i resti indigesti di un potere non esente da un rimosso ineliminabile, la traccia indelebile di una violenza fondamentale e irresistibile (persino al virtuoso Bruto). In primo piano microfoni schierati come falangi prossime a scontrarsi a Filippi. Se prima la parola amplificata era solo quella interiore, quella serpeggiante dietro ai vicoli o lontano dai cortei trionfali, ora tutto passa attraverso il microfono, in un accelerando elettronico in cui i rovesci della sorte si abbattono sui congiurati. Nel ritmo incalzante della battaglia, mentre cariche e controffensive si avvicendano, come spazzato dal vento, il cumulo di ossa si assottiglia, finché da infausto presagio si tramuta in rivelazione: emerge imponente il totem-pupazzo del piccolo Aylan, assurto a simbolo della violenza del potere, al di là del trionfo, al di là della virtù. Lo ritroviamo dove avrebbe dovuto giacere Cesare, ci si rivela alla morte di Bruto: invischiati nell’ambivalenza originaria di Shakespeare, su chi proiettare l’ombra pietosa? Non c’è parola che possa sciogliere il dilemma; non rimane che la musica ad avvolgerlo in un crescendo che ispira un’ultima danza, dona vita e movenze ai corpi, ristabilisce l’oscuro ordine del tempo su tutte le cose.
Se il Giulio Cesare di Rigola sorprende e interroga con la sua audacia scenica, desta invece qualche perplessità per quanto riguarda la recitazione. Certo la congiura si intesse sottovoce, con gesti composti e misurati, tuttavia la parola shakespeariana ne risulta irrigidita, non riesce a vibrare, non trova slancio e finisce per suonare distaccata, faticando a coinvolgere il pubblico anche quando gli attori scendono in platea nella parte corale delle orazioni funebri. Recupera d’intensità e convince nella seconda parte, anche grazie all’accelerazione degli eventi e sulla scorta della potenza visuale del finale.
Gianluca Poggi
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.