Nella programmazione del Festival Danza Urbana 2022 si inserisce una ricerca sulle aree residuali che accompagna il pubblico alla scoperta del Giardino Gennaro Fabbri, un’area verde lambita dal fiume Reno e lontana dal centro della città di Bologna. Elisa Sbaragli, danzatrice e coreografa, Fabio Brusadin, artista multimediale e Edoardo Sansonne, musicista, propongono Sull’irrequietezza del divenire, una scoperta di un luogo dimenticato e un invito ad entrare in relazione con il non-umano.
Com’è iniziata la vostra collaborazione e da dove ha avuto origine l’idea di questo lavoro?
Elisa: «Io porto avanti le mie ricerche come autrice del movimento e coreografa dal 2016 grazie al supporto di Peripezie Urbane. A Edoardo mi lega una grande amicizia che altre volte in passato si è tradotta in una collaborazione artistica. L’esigenza di rincontrarci è nata a seguito dello scoppio della pandemia, nell’estate 2020, quando è nato in noi il desiderio di intraprendere un nuovo progetto legato alla relazione tra umano e non-umano. Edoardo mi ha proposto una sua ricerca sonoro-visiva che gravitava attorno a questo tema e io ho aggiunto l’intuizione di alcune idee. Volevamo però fin dall’inizio avvalerci di linguaggi diversi per cui abbiamo coinvolto anche Fabio (il mio compagno) con le sue competenze in campo multimediale e tecnologico».
Che tipo di studio e ricerca si nasconde dietro la performance finale? Che fonti di ispirazione avete usato nella fase di studio?
Elisa: «Il primo testo con cui ci siamo confrontati è stato Manifesto del terzo paesaggio di Gilles Clément. Da lì, la fase di ricerca teorica è stata molto lunga e approfondita e ha visto come guide, tra gli altri, testi di Francesco Careri, Annalisa Metta, Stefano Mancuso, Emanuele Coccia. Abbiamo incontrato molti esperti e abbiamo vissuto in prima persona i luoghi che stavamo studiando per comprendere la loro composizione a livello biologico e vegetale e per conoscere le relazioni che li abitano nel quotidiano.
Il progetto non si è limitato all’esito performativo, ma prevedeva anche parti laboratoriali e installative che hanno arricchito il lavoro di ricerca proponendo nuove prospettive da cui guardare al rapporto con lo spazio e con il pubblico».
Edoardo: «Nelle ricerche, eravamo guidati dalla volontà di non fermarci alle teorie sviluppate sul tema in passato, riflessioni che sentivamo ormai esaurite. Desideravamo scoprire come certe nozioni si sono evolute nella contemporaneità».
Il vostro lavoro si inquadra come una riflessione sugli spazi residuali, un’indagine sulle dinamiche che li muovono e un dialogo con gli elementi che li compongono. Durante la performance è venuto fuori un tratto particolare del vostro atteggiamento nei confronti dell’ambiente: non siete arrivati come “colonizzatori”, vi siete innestati nello spazio ricercando una relazione simbiotica con il paesaggio, siete entrati nella rete delle tante relazioni che già lo popolavano, nel flusso del divenire che già lo trasformava.
Edoardo: «È interessante il fatto che usi la parola “colonizzatori” perché effettivamente, oltre che essere una riflessione sugli spazi residuali, il nostro lavoro ci ha portato ad abitarli e attraversarli con delle consapevolezze diverse rispetto alle modalità in cui l’umano è solito vivere un luogo nella quotidianità. A proposito delle aree residuali, Careri parla di spazi “improduttivi”, luoghi in cui il tempo e le energie possono essere destinati a qualcosa che non rientra nel ciclo della produzione e del consumo e che quindi rema contro le logiche vorticose del mercato contemporaneo.
Le ricerche ci hanno portato a sostare per tanto tempo in luoghi che hanno subito trasformazioni, abbandoni, mutamenti, trascuranza ed emarginazione. Un laboratorio di sei giorni ad esempio ci ha fatto abitare gli spazi ora occupati dalla riserva del Monte Mesma che in passato erano adibiti a pascoli e coltivazioni di alberi da frutto: un territorio una volta sfruttato e poi abbandonato a sé stesso. Ci siamo immersi nel verde per cercare di capire effettivamente che cosa potesse significare abitare un luogo che ha subito una trasformazione e che continuerà a mutare secondo velocità e ritmi che non appartengono propriamente all’umano e che si possono comprendere solo rimanendovi a lungo. L’esempio di questa riserva è quello più estremo, perché il marginale, il residuale è a portata di mano. Proprio lo spazio scelto per il Festival Danza Urbana era intessuto nell’urbano, facilmente accessibile, quasi confuso nella geografia della periferia».
Elisa: «La parola “simbiosi” che hai usato mi piace molto perché effettivamente il nostro obiettivo era quello di spalmarci nello spazio, confonderci con le sue dinamiche, entrare in connessione con il suo flusso trasformativo. Volevamo far emergere elementi dello spazio apparentemente invisibili occupando una posizione rispettosa e contemplativa, il meno invasiva possibile.
L’osservazione è stata la guida del lavoro, lo sguardo il senso primario che abbiamo attivato, uno sguardo che andava nel sentire più profondo, che si accorgeva del microscopico. E l’attenzione a non invadere lo spazio come colonizzatori ci ha guidati nei modi in cui usavamo la tecnologia, nelle forme in cui ci collocavamo a livello spaziale e nei modi in cui spostavamo il pubblico, scegliendo un percorso che non fosse da cartolina ma offrendo prospettive che normalmente non è facile cogliere».
Potevate correre il rischio di ri-proporre all’aperto le stesse dinamiche del teatro, ovvero marcare una netta divisione tra il pubblico e la scena. Invece, durante la performance non c’è stato bisogno di erigere muri, il pubblico era quasi un altro corpo che entrava nel flusso del divenire e assumeva la vostra stessa postura rispettosa e contemplativa rispetto a ciò che accadeva.
Elisa: «Nella fase di studio, durante i laboratori, consegnavamo al pubblico una mappa del nostro percorso e alla fine lasciavamo il tempo di rivivere e riscoprire lo spazio senza la nostra presenza. Immaginando il luogo come qualcosa di dato, una volta finita la performance le dinamiche che lo permeano restano lì per essere osservate ulteriormente in mille modi diversi. Al pubblico di Danza Urbana abbiamo voluto offrire diversi tipi di visione: quando un particolare momento di attivazione lo richiedeva gli spettatori erano lontani, poi si avvicinavano, passavano per una visione intermedia e poi ancora si distanziavano perché era necessario guardare il paesaggio tutto insieme. Il lavoro è stato costruito su forme mutevoli di prossimità e di prossemica per sviluppare la percezione, la curiosità e la contemplazione da prospettive diverse».
Edoardo: «Desideriamo trasmettere al pubblico l’attenzione all’osservazione e alla contemplazione. Durante la performance, non solo si ha la possibilità di osservare un luogo che probabilmente non ci fermerebbe a guardare, ma si sposta l’attenzione sulle dinamiche più piccole che lo muovono.
Anche questa volta il nostro intento era accompagnare il pubblico fuori dallo spazio una volta finita la performance, ma gli spettatori ci hanno colto di sorpresa quando, terminata l’azione di Elisa, si sono sparsi in ogni angolo per cercare, osservare, stare nel luogo. Questa reazione ci ha fatto riflettere molto su possibili sviluppi futuri della relazione con il pubblico».
Per quanto riguarda l’uso della tecnologia, che tipo di relazione vi lega ai dispositivi che usate?
Fabio: «La tecnologia per noi è uno strumento: fa parte del lavoro, è visibile – e non può non esserlo in quest’epoca. L’uso che ne facciamo rispecchia appieno il rapporto che noi esseri umani abbiamo con questo mezzo. A livello concreto, ci dà la possibilità di campionare la realtà e tradurre in vari linguaggi questo campionamento. Quindi è un dispositivo che permette a noi e al pubblico di intensificare la visione, rende possibile uno sguardo e un ascolto diversi.
Riguardo alla sua presenza scenica, è chiaro che la tecnologia ha una sua importanza: un tale dispiegamento di mezzi nella natura può avere anche effetti respingenti. Ma la funzione principale che le riserviamo è quella di guida. Per questo abbiamo puntato su dimensioni ridotte e non impattanti: dobbiamo essere in grado di entrare nel luogo senza invadenza, fare la nostra passeggiata, scoprire insieme al pubblico e andare via portandoci dietro anche le nostre estensioni tecnologiche».
Edoardo: «Avevo molti dubbi riguardo all’uso di mezzi tecnologici dalle dimensioni ridotte, invece la resa effettiva ha aperto nuove strade a quello che pensavo fosse un lavoro chiuso dal punto di vista sonoro. È stata una scoperta di un nuovo modo di innestare la musica all’interno del paesaggio sonoro già esistente nel luogo, di scomparire e riapparire.
La tecnologia inoltre ha fatto da ponte tra dimensioni temporali incompatibili: la nostra e quella di dinamiche che hanno tempi e velocità molto diverse da quelle umane. Ci ha permesso di giocare su distanze che attraverso i nostri soli sensi non era possibile colmare, su velocità che non potevamo raggiungere. Ci ha aiutato a trasmettere anche alcune delle parti del discorso teorico che non sarebbe stato possibile integrare altrimenti. È stata un alleato».
Elisa: «La tecnologia è funzionale. Ma non si tratta solo di disporre di uno strumento, quanto piuttosto di avere la consapevolezza del modo in cui esso viene utilizzato. Volevamo rielaborare le modalità con cui certi dispositivi possono essere usati e che possiamo valerci dell’aiuto della tecnologia anche in modi non invasivi, con attenzione».
Perché accostare il divenire all’irrequietezza?
Edoardo: «Che la condizione del divenire venga avvicinata a qualcosa di serafico è puramente una nostra prospettiva, un punto di vista tutto antropico. In realtà il paesaggio è continuo fermento, trasformazioni e sopraffazioni avvengono costantemente. Ci piaceva l’idea di accostare al termine “divenire” che normalmente comunica una percorrenza lineare e imperturbabile una parola molto differente che esplicasse le dinamiche che effettivamente avvengono negli spazi che abbiamo studiato. L’irrequietezza non è solo uno stato di turbamento ma anche una condizione di potenza, un desiderio di trasformazione».
Elisa: «Durante il periodo di studio abbiamo riflettuto molto sulle parole, abbiamo costruito un glossario, cercando parole chiave che avessero una valenza sia per l’umano che per il non-umano. Accostarle nel titolo significava creare già una dinamica, una relazione.
Durante la performance il corpo impersona questa mappatura di parole, la rielabora e la mette in movimento a seconda dei diversi momenti di attivazione. Mi sono fatta aiutare da pratiche somatiche legate all’immaginario della cellula e della membrana per scoprire e toccare con il corpo dinamiche fisiche che l’umano ha in comune con il non-umano. Sono partita dalla base che condividiamo con gli altri enti della Terra. Irrequieto è il corpo come irrequieto è il divenire di cui rende palese il fermento».