Non esiste attimo privo di tensione in O_N. Da sotto i capelli che le andranno a coprire il viso per tutta la rappresentazione, Paola Bianchi ci scruta con ancora maggiore determinazione di quella che avrebbe se i suoi occhi fossero invece visibili, non “schermati” dalle ciocche bianche. È come se fossimo portati a far convergere l’intensità che leggiamo nei movimenti del corpo verso lo sguardo della danzatrice, verso una sua “intenzionalità emotiva” che, però, nei fatti non ci è dato di leggere: «Passare dall’informe all’informe» è d’altronde la locuzione che la stessa coreografa e danzatrice torinese (ma attiva in Romagna da decenni) utilizza per sintetizzare la traiettoria del proprio lavoro. Vale a dire: non c’è volontà di lasciare traccia intellegibile, ma solo un passaggio da stato indefinito a un altro stato indefinito, concentrandosi semplicemente sul percorso li collega.
Eppure l’anteprima andata in scena nella terza giornata del festival Ipercorpo, se da una parte non offre alcuna frontalità visiva (non vediamo appunto mai in faccia la danzatrice, che peraltro continua a girare percorrendo un ampio cerchio sulla scena), dall’altra è pur sempre una proposta estremamente rifinita, coerente in se stessa. Possiede una forma, magari non come disegno e volontà drammaturgica che eccede il corpo della performer ma nello sviluppo intrinseco dei suoi movimenti, nella regolare sovrapponibilità di ciascun momento con ciascun altro. O_N, cioè, sembra rispondere a un principio compositivo (che la peculiare poetica di Paola Bianchi cerca di spingere nella carne anziché in un pensiero esterno) ben preciso: la negazione radicale di ogni smussatura o fluidità, per modulare il gesto in una maniera che sia il più possibile “quadrata”, rettilinea. Il corpo della danzatrice si piega e ripiega come fosse un origami, al massimo si “accartoccia” su se stesso ma mai e poi mai si sviluppa entro delle curve o delle traiettorie “dolci”. Tutto è sforzo, sebbene ponderato e omogeneo. O meglio, tutto è “contrasto”, frizione con la gravità, è attrito (concetto quest’ultimo centrale nella pratica della coreografa).
Le uniche due linee circolari sono date da un fascio di luce che, per una breve parte dello spettacolo, disegna appunto un cerchio per terra e dallo spostamento della danzatrice, che si muove in modo circolare come fosse su dei binari. Segni a indicare che, tutto sommato, (r)esistono delle strutture di riferimento, schematismi percettivi: non c’è nessuno sviluppo propriamente narrativo, ma l’orbitare continuo attorno a un centro restituisce comunque l’idea del tempo che passa, di uno sfondo immobile su cui la performance scorre.
Si tratta di una proposta molto articolata al suo interno, estremamente definita e lineare. La performance di Paola Bianchi giunge dal punto iniziale a quello finale come se stessimo attraversando l’ingranaggio di un orologio, che cambia in continuazione la qualità e le caratteristiche del proprio battito ma è che è costante nello scandire un preciso ritmo di progressione. Anche la musica, pur sviluppandosi in un andirivieni di accrescimento e scioglimento della tensione, permane tutto sommato sui medesimi timbri e sulle medesime sonorità, che a tratti sembrano richiamare lo scricchiolio degli arti, l’incrinarsi di oggetti. Siamo dentro territori che la coreografa e danzatrice esplora da tempo: una delle sue pratiche di composizione è, infatti, quella di costringere il proprio corpo con delle fasce di contenimento, in modo da riuscire a lavorare sulla “contro-pressione motoria”, su una qualità del movimento che è innanzitutto scatto, reazione a spinte e influenze che derivano dall’esterno. Non c’è interazione col pubblico, c’è – al contrario – una “calcolata istintualità” che pare riguardare solo ed esclusivamente il soggetto in scena, la sua personale “lotta” di posizionamento nello spazio, la faticosa costruzione di un’identità fisica che sappia prescindere dalle immagini e dalle stratificazioni del corpo.
Quasi non ci fosse soluzione di continuità, dopo lo spettacolo è appunto il corpo di Paola Bianchi e la sua poetica tutta che si traslano in altri formati, che diventano immagini-in-movimento (per utilizzare la definizione di Deleuze del cinema): La parte maledetta è un ciclo di documentari realizzati da Teatro Akropolis e AkropolisLibri, diretti da Clemente Tafuri e David Beronio, in cui la compagnia genovese cerca di porre sotto la particolare lente di osservazione della videocamera altri artisti e artiste con cui sente un’affinità di ricerca. La prima “tappa”, presentata a Ipercorpo, è appunto dedicata al lavoro e alla personalità della coreografa e danzatrice piemontese, al suo percorso artistico e a quanto la sua biografia (o, a un livello forse ancora più profondo, la rielaborazione della biografia in memoria) sia andata a influenzare nel corso del tempo le attitudini e le “inquietudini” in scena. Teatro Akropolis prova a costruire un’intima prossimità con il soggetto della propria esplorazione cinematografica, prossimità tesa a svelarne non tanto le ragioni ultime di alcune scelte artistiche, le progettualità poetiche, quanto piuttosto i compositi e personalissimi contesti in cui tali scelte vengono intraprese. Oltre agli spezzoni tratti da alcuni degli spettacoli della sua lunga carriera, infatti, le inquadrature del primo documentario de La parte maledetta (nella quasi totalità girate all’interno di abitazioni private) sembrano “incastonare” (l’immagine del) volto e (l’immagine del) corpo di Paola Bianchi dentro stanze che sono già ambienti, dentro particolari di paesaggio (un giardino, etc…) che diventano già, in qualche modo, “dimensioni di ispirazione artistica”.
In un certo senso – e forse proprio per “smarcarsi” dal classico meccanismo da documentario giornalistico – la compagnia genovese, invece di raccontare i retroscena di quanto accade sul palco, prova a trasformare quanto è fuori dalla scena in un piccolo avvenimento teatrale anch’esso. O, perlomeno, a metterne in risalto gli elementi di teatralità, per quanto poi il carattere generale del ritratto che ne esce è certamente improntato a una qualità davvero molto intima e per certi versi toccante dello sguardo. Nessuna “morbosità euristica”, nessun marcato intento di “scavo”: piuttosto, un approccio semplice e delicato che si rivela pronto a lasciarsi indirizzare dalle volontà di condivisione del soggetto “intervistato”. Quasi un ri-negoziamento continuo e aperto fra compagnia/regista e attrice/coreografa di come e con quali ritmi dovrà avvenire – dentro alla fantasmagorica simultaneità della celluloide – la trasmutazione della realtà in immagine, del corpo in “sedimento”. A provare a pensarli entro un unico arco percettivo, l’anteprima O_N e il documentario de La parte maledetta compongono – nella terza giornata di Ipercorpo – un dittico dissonante ma complementare, in cui le rigorose spigolosità coreografiche dello spettacolo dal vivo trovano il proprio racconto più smussato e “levigato” su pellicola. Corpo e anti-corpo, dunque: due necessari momenti in cui “avviene” la danza.
L'autore
-
Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.