Abbiamo chiesto a Francesca Camilla D’Amico di raccontarci il suo percorso di narratrice e del suo legame con la forma del racconto e con il territorio in cui è nata e dove ha scelto di vivere. Una testimonianza importante per avvicinarci alle nuove generazioni di narratrici e narratori che hanno cercato una propria strada continuando a nutrirsi degli insegnamenti dei maestri e delle maestre della narrazione.
Come ti sei avvicinata alla narrazione?
L’inizio della mia storia con il teatro di narrazione comincia in un piccolo paese della provincia di Chieti, Paglieta, dove ho incontrato il modo antico di narrare. In quel periodo stavo studiando Arti e Scienze dello Spettacolo all’università “La Sapienza” e facevo la pendolare da Roma a Paglieta per formarmi al Piccolo Teatro del Me-ti, che dal 2020 non esiste più, dopo oltre cinquant’anni di attività. Seguivo le lezioni tenute da Sandro Cianci, che poi è diventato il mio maestro, e di Angelo Coccia, detto Zì Angelo, un contadino narratore che incontravamo solo due volte l’anno. Erano momenti molto preziosi. Quando Zì Angelo raccontava portava con sé un repertorio, un bagaglio immenso di storie legate alla millenaria cultura agro-pastorale di cui lui faceva parte, mentre noi osservavamo il tramonto di quella civiltà. Quelle storie le ho ascoltate e imparate. Ho avuto la possibilità di ereditare direttamente un modo di raccontare, che è quello arcaico, antichissimo, di assolvere all’interno di un solo corpo, di una sola voce, tutti i personaggi e i paesaggi che la storia contiene, con minimi cambi di voce e di intenzione, modificando al momento alcuni dettagli, anche a seconda del tempo a disposizione o della predisposizione degli ascoltatori. Il racconto contadino per me è stata la base, la radice, una grande palestra di narrazione, ma soprattutto di relazione.
Relazione perché Zì Angelo attraverso il suo modo di raccontare ci insegnava a creare un legame con chi ascolta. Sapeva perfettamente come rompere il ghiaccio, con degli indovinelli, con delle domande, anche solo offrendo qualcosa da mangiare, perché per lui il racconto era soprattutto arte dell’incontro. Per me è stato importante chiedermi come fare a ritrovare a teatro quella relazione. Dentro gli spazi del mondo contadino, che sono la casa, l’aia, il cammino in montagna, ovviamente non esiste una separazione netta tra platea e scena. Ho iniziato allora la mia ricerca dei maestri della narrazione teatrale. Mi sono avvicinata innanzitutto a Mimmo Cuticchio. Mi interessava molto il fatto che narrasse anche in dialetto, che il suo racconto fosse strettamente legato ai suoni della sua terra e volevo capire come riuscisse ad approdare ai teatri nazionali mantenendo buona parte della sua lingua. Come i maestri di una volta sceglieva lui quando farsi rubare il mestiere e mi diceva, per esempio, di stare attenta in un certo punto del suo spettacolo per vedere quello che succedeva. E io ovviamente ero tutt’occhi e tutte orecchie! Ho cercato di apprendere da lui una parte della sua tecnica per poi adattarla al mio modo di raccontare.
Un insegnamento preziosissimo che mi ha consegnato è che la tradizione muta continuamente, è come per il letto del fiume: l’acqua che ci scorre dentro non è mai la stessa. Successivamente ho incontrato altri narratori, anche di generazioni successive, come Luigi D’Elia, con cui condivido il percorso di guida ambientale. Lui comincia facendo questo lavoro per poi arrivare al racconto della natura, mentre io parto dalla narrazione e poi mi dedico anche a questa attività, utilizzando lo strumento del teatro per raccontare la montagna, i suoi abitanti, la sua cultura. Con Luigi ho fatto un’esperienza in Salento, insieme a un gruppo di narratori e narratrici. Abbiamo raccontato delle conseguenze della malattia della xylella non solo sugli ulivi ma anche sugli abitanti del territorio, utilizzando uno strumento a me caro, che è la raccolta di interviste, successivamente rielaborate e restituite in forma di spettacolo.
A proposito di maestri, Roberto Anglisani è stato un incontro fondamentale per la nascita dello spettacolo Paolo dei Lupi che hai portato in scena oggi a Pontedera…
Mentre stavo lavorando alla storia del poeta e biologo Paolo Barrasso, che poi sarebbe diventata lo spettacolo Paolo dei lupi, iniziai a frequentare un laboratorio di Roberto Anglisani a Pescara. Una volta ci chiese di portare un racconto scritto da altri. Io barai. Volevo approfittare del fatto di avere davanti un narratore come lui per lavorare su un mio testo. È stato il primo racconto scritto da me. Fino ai miei 26-27 anni sono sempre stata una narratrice orale: ascoltavo le storie, le rielaboravo e andavo a canovaccio. Quando Roberto ascoltò questa storia ne cassò un bel pezzo, ma gli piacque e mi incoraggiò a lavorarci. C’era un problema, però: mi ero immedesimata troppo. Innanzitutto era una storia vera, poi vivevo nel territorio in cui era accaduta e inoltre bisognava trattare con un certo tatto la vita di una persona che non c’era più, la sua memoria e quella delle persone che ancora la custodivano. Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse e poiché notai che durante il laboratorio con Roberto riuscivo ad assorbire immediatamente i suoi suggerimenti, gli chiesi se se la sentisse di fare la regia di questo spettacolo. Accettò e iniziò un lavoro che fece tappa anche a Montagne Racconta, dove ho conosciuto Francesco Niccolini, un’altra persona importante nel mio lavoro, dal quale ho ricevuto degli strumenti drammaturgici utilissimi. Si trattava di un’esperienza di narrazione nuova per me: scrivere un testo e poi farlo passare dalla pagina all’oralità. È stato interessante anche quello perché nel passaggio all’oralità il testo si liberava, si alleggeriva e nello stesso tempo si arricchiva dell’intenzione trasmessa dal corpo e dalla voce.
Hai avuto altre figure di riferimento nel tuo percorso?
Narratori e narratrici che io definisco naturali, che non hanno ricevuto una scuola, come Zì Angelo, e che forse non hanno neppure coscienza di essere così bravi e brave a raccontare. Oggi diamo tanto peso alla parola scritta, ma quando non c’era o quando l’alfabetizzazione non era diffusa, la parola orale contava tantissimo e le persone avevano una memoria straordinaria. Per me trattenere le cose a memoria è il grandissimo insegnamento che mi hanno dato questi narratori e narratrici non professionisti. Gli stessi Dario Fo, Marco Baliani, Ascanio Celestini, sono tra i narratori che hanno avuto un contatto con questa tradizione orale. Anglisani, raccontando delle sue origini tarantine, parla di uno zio particolarmente bravo a narrare. Capita spesso, nelle tavolate per esempio, che ci sia qualcuno capace di raccontare meglio degli altri, di intrattenere. Chi ha avuto la possibilità di ascoltare il racconto vivo, che si manifesta sotto forma di immagini, di piccoli movimenti del corpo, di un leggero cambio di voce, resta segnato da quell’esperienza e forse è più probabile che impari a raccontare a sua volta.
Mi spaventa molto la crisi del racconto che viviamo oggi, perché vuol dire che manca il passaggio precedente, cioè quello della relazione. Non si ascolta più nello spazio domestico, tutto viene delegato alla televisione e altri media. Così facendo potrebbe sparire nella nostra società la narrazione diretta.

Come si è evoluta la tua ricerca negli anni?
La mia ricerca continua ad andare sul racconto del territorio, ma non solo dell’Abruzzo, anche dell’Appennino in generale. Soprattutto credo che stia arrivando per me una nuova fase come narratrice. Passati questi primi quindici anni di raccolta di storie, ora mi interessa molto capire le persone come raccontano, se hanno spazi per raccontare e quindi spesso più che su spettacoli teatrali mi piace lavorare a progetti di narrazione che non sono laboratori. Mi spiego. Adesso sto portando avanti un progetto che si chiama Animal narrans, perché noi siamo animali narranti ed è ciò che ci distingue dagli animali. Siamo in grado di creare archetipi, fiabe, di trasformare la realtà. Questo percorso nasce per restituire spazi di narrazione alle persone che non raccontano per mestiere. Ci incontriamo una volta al mese in luoghi diversi dell’Abruzzo, è un progetto itinerante e per ogni appuntamento scelgo un segno, un simbolo (disegnato da un illustratore e messo su carta), un tema, un luogo, un rito collettivo e un “mastro” o una “mastra” di rito, vale a dire le persone che incarnano il tema che io scelgo di volta in volta.
Siamo partiti per esempio l’1 novembre dal “capetiempë”, che sarebbe il capodanno agricolo in Abruzzo nella tradizione popolare, perché è il momento in cui si semina. E il seme è legato al tema della morte: viene tumulato nella terra, si decompone e poi ritorna a nuova vita. Non a caso l’1 novembre è il giorno dedicato alla celebrazione dei defunti, quindi abbiamo scelto delle storie dedicate a “dellàdamonnë”, cioè a coloro che sono passati al di là: animali, persone, tutto ciò che non è più tra noi. Il rito collettivo che ho scelto è stato una semina simbolica in cerchio e dopo aver condiviso del cibo ci siamo seduti a raccontare intorno a un fuoco. Sono venute fuori storie meravigliose. Io come narratrice ho un punto di vista privilegiato perché so, o penso di sapere, come funziona una storia e ho capito che siamo davvero “animal narrans”, animali narranti: ognuno è capace di raccontare una storia che abbia un inizio, un luogo, dei personaggi ed è capace di trarre una morale chiudendo la storia o lasciando un finale aperto. Possiamo farlo anche in pochi minuti, ma deve essere qualcosa che ci appartiene, che si abbia la voglia e l’esigenza di raccontare e che nasca in un clima di relazione. Per questo il cibo e il rito sono momenti preparatori importanti.
È chiaro che il racconto in sé è già un rito, ma quelle due pratiche precedenti aiutano. Siamo quasi al quinto appuntamento. Sto registrando tutti i racconti per tenerne memoria e penso che alla fine di questi 12 mesi avrò acquisito un bagaglio di storie degli altri che non so cosa diventerà, ma per me è sicuramente un esperimento sociale, antropologico, di narrazione, di teatro. Il racconto per me in questo momento è una frontiera di ricerca, poi magari nasceranno anche altri spettacoli per il teatro, ma al momento mi piace moltissimo, al di là del teatro, realizzare progetti di questo tipo e raccontare camminando, coniugando narrazione ed escursionismo in montagna per far si che le persone vivano un’esperienza di cammino narrato e di ascolto. A questo proposito dal 28 al 24 maggio intraprenderò un cammino sulla Majella di 90 chilometri. Si chiama “Il cammino di Celestino” e attraversa uno degli angoli più belli dell’Appennino. Sono sei tappe. Saremo un piccolo gruppo di persone, dormiremo in strutture e per sei giorni racconteremo e ascolteremo, finché non saremo in grado di percepire anche quei silenzi che la montagna sa offrire. Non solo racconto, quindi, ma anche silenzio e ascolto. L’ascolto è fondamentale per imparare a raccontare.
Hai mai provato a costruire spettacoli a partire da testi esistenti?
A me piace molto partire dalle storie vive, quelle che vengono narrate per trasmissione. È chiaro che poi le rielaboro, le passo al setaccio, cerco di tenere l’estratto di quello che mi colpisce maggiormente e restituirlo. Una volta ho sentito il desiderio di misurarmi con un testo esistente. Lo spettacolo Il partigiano piuma del 2023 nasce dalla lettura de Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino. Alla fine ho tenuto solo alcuni inneschi drammaturgici, mi sono ispirata al testo, poi l’ho adattato sul mio terreno ed è diventato uno spettacolo. Mi interessava il punto di vista di un bambino sulla guerra. È stata però solo una deviazione sul percorso, interessante, formativa, ma continuo a credere che la mia strada sia quella della raccolta viva, non solo delle storie antiche, ma anche recenti. Paolo dei lupi per esempio è una storia degli anni ‘70.
Lavorare su quelle che chiami “storie vive” in che modo arricchisce la tua pratica di narratrice e come questa pratica del raccontare può (se può) diventare strumento di trasformazione per una comunità?
Nel 2023 ha debuttato Mondo Pane. In scena ci siamo io e un musicista. Ho raccolto le storie di panificatori e panificatrici che oggi fanno questo mestiere, spesso dopo un percorso di studi completamente diverso. Scoprono il piacere di ritornare all’attività manuale, ma con una consapevolezza e una coscienza molto diversa. Del resto è cambiato il contesto, non ci sono più i forni comunali, di borgata, quindi bisogna inventarsi un nuovo modo di fare il pane. Ho scoperto che coltivare il grano e fare il pane è una piccola rivoluzione, molto silenziosa, che coinvolge economia, quindi lavoro, qualità della vita delle persone, rispetto del suolo, della terra e di chi la lavora. Da un elemento semplice come il pane sono arrivate tantissime storie che abbiamo fatto fatica a scremare e a condensare in un’ora e un quarto di spettacolo. Ci muoviamo in un tempo ciclico fatto di storie di oggi, ma anche di cortocircuiti con leggende legate al grano, perché grano e pane sono elementi sacrali della nostra cultura, da sempre, al di là del credo.
È un elemento vivo e vivificante, modella il paesaggio: quando il grano è maturo è uno spettacolo per la vista! I nostri antenati rispettavano molto questo elemento, che è alla base dell’alimentazione, il pane non manca mai su nessuna tavola. Noi siamo riusciti a rovinare anche questo con l’agricoltura intensiva. Se oggi la narrazione può fare qualcosa (perché mi chiedo sempre che senso abbia oggi raccontare) allora può essere quello di diventare uno strumento per trasformare l’informazione in immagini, in emozioni, in azioni concrete non solo per informare le persone (ci sono già troppe informazioni!). Creare immagini che contengono emozioni, perché quando le informazioni passano per le corde del cuore si innescano delle riflessioni. Commuoversi vuol dire “muoversi con”, quindi muoversi insieme. Questo significa uscire da un’apatica indifferenza.

Hai citato alcuni nomi importanti relativi a quello che è stato definito teatro di narrazione. Come ti relazioni a questo fenomeno?
Non l’ho visto nascere ovviamente, perché sono nata più tardi, ma so che a un certo punto Marco Baliani si siede su una sedia, racconta Kohlhaas e la critica chiama questa operazione teatro di narrazione. Questa era una pratica che già si utilizzava al Piccolo Teatro del Me-ti. Augusta Natale, che è una formidabile narratrice contastorie, meno famosa evidentemente (praticamente sconosciuta) lo faceva prima dell’89. Il ruolo della critica in questo è importante e purtroppo i luoghi del teatro ufficiale sono quelli delle grandi città. Nutro grande ammirazione nei confronti dei maestri del teatro di narrazione, che hanno messo a punto una tecnica raffinatissima e potrebbero raccontare qualsiasi cosa. Questo è sicuramente il genere che mi appassiona di più e che sento nelle mie corde.
Poi c’è un’altra questione. Ci sono anche delle narratrici straordinarie, sicuramente Laura Curino, Giuliana Musso, per citarne alcune, ma dove sono le narratrici di 35-40 anni? Esistono, ma ci vorrebbe maggiore attenzione, perché le voci femminili sono sempre pochissime nei cartelloni e nelle stagioni. Invece sarebbe fondamentale, soprattutto in questo momento, fare emergere un’altra voce, un’altra qualità di energia. Non si tratta di quote rosa. D’altra parte la narrazione ha sempre fatto parte del mondo femminile. Ecco, questo non mi piace quando parliamo del teatro di narrazione. Ci sono tantissime narratrici che avrebbero bisogno solo di maggiore spazio.
Il teatro ragazzi è da annoverare tra le più importanti esperienze formative per i narratori e le narratrici della prima generazione. Il contatto con i bambini e le bambine permetteva loro di affinare le tecniche necessarie a catturare l’attenzione dell’interlocutore. In questo senso qual è il tuo rapporto con l’infanzia?
Io spero sempre che il racconto sia per tutti, non ho spettacoli specifici per un target, anche se, a seconda dei temi che affronto, potrei dirti se un certo lavoro è adatto a un’età piuttosto che a un’altra.
Quello che ho notato è che i bambini e gli anziani sono il pubblico più esigente di tutti: devono vedere quello che racconti, quindi ti spingono a usare particolare enfasi. Bisogna imparare a tenere la loro attenzione proiettando le immagini nella loro mente. Mi hanno insegnato la verità. Se io lo vedo, voi lo vedete. È lampante. Ma racconto le stesse fiabe a bambini e adulti, però ce ne sono alcune che prediligo perché riesco a vedere meglio quello che succede nella storia, riesco a proiettare meglio le immagini e quando avviene questo loro vedono quello che vedo io, vengono coinvolti maggiormente. Con gli anziani cambia solo il ritmo, deve essere più lento perché hanno un modo molto diverso di ascoltare e trattenere le parole. Sto pensando che, sebbene io sia una grande appassionata di fiabe di tradizione orale, non ho mai dedicato uno spettacolo a questo genere di racconti. Le fiabe tradizionali sono per me piuttosto materia di ricerca, per esempio attraverso lo studio di antropologi ed etnomusicologi che hanno raccolto fiabe e voci antiche.
Mi interessa molto questo aspetto della trascrizione delle fiabe. L’operazione più conosciuta è stata sicuramente quella di Italo Calvino, ma bisogna ricordare anche quella dei ricercatori locali. Mi piace trovare differenze e assonanze con le altre regioni ma anche con gli altri Paesi. Le fiabe sono piene di simboli, per questo per me è importante continuare a raccontarle a tutti, perché aiutano a vivere, a superare le frustrazioni e le paure della vita.