La Quadriennale di Praga è nata nel 1967 con lo scopo di presentare le ultime ricerche negli ambiti della scenografia: disegno della scena, dei costumi, delle luci, del suono e di tutti gli elementi che concorrono all’invenzione e alla realizzazione dello spazio del teatro. Negli ultimi anni, raccogliendo una sfida proveniente dalle stesse arti sceniche, si è aperta una interrogazione netta attorno agli eventi dal vivo, allo spazio di relazione, all’identità sempre più labile di ciò che definiamo performance, al punto che nel 2008 la Quadriennale ha cambiato nome: da International Exibition of Scenography and Theatre Architecture a Prague Quadriennale of Performance Design and Space. Quale è lo stato dell’arte, quali sono i percorsi di invenzione e realizzazione dello spazio del teatro? La Quadriennale mira a costruire visioni in cerca di risposte, assumendo la polifonia e la frammentazione come chiavi d’accesso alla complessità. Fitto è il programma: una sezione di Paesi e regioni (con 62 partecipanti da tutto il mondo), una riservata a scuole nazionali dove si mostrano opere e progetti di studenti, una dedicata al costume e una all’architettura. In questa sede non possiamo (né sapremmo) esaminare la Quadriennale nel suo complesso, tranne forse accennare a sensazioni di estrema diversità e dispersione che inevitabilmente colgono il visitatore non specializzato, complice la naturale assenza di un tema. All’elenco delle sezioni ne manca ancora una, se escludiamo tutta la galassia di eventi paralleli (workshop, programma OFF, incontri ecc.): Intersection, sorta di cittadella dell’arte progettata e costruita ad hoc, ideale punto di incrocio di tutte le sezioni della Quadriennale. L’idea di base è semplice: si tratta di una struttura costituita da trenta box vuoti, di circa 3x3x3 metri, allineati l’uno sull’altro o affiancati o giustapposti in modo da creare l’effetto di una città in miniatura, con tanto di strade principali e ponti, installata nella Piazzetta che divide il National Theatre da il New Stage Theatre (Ex Lanterna Magika). È stato chiesto a trenta artisti di riempire gli spazi vuoti, prefigurando una relazione con i visitatori, che potranno fra l’altro rilassarsi in una zona bar o seguire un’apposita programmazione di video d’arte nello spazio cinema all’aperto. «Il progetto Intersection sonda la relazione fra teatro e arti visive attraverso la disciplina della performance», sostiene nel catalogo la curatrice Sodja Lokter. Può esistere uno spazio «neutro» per l’arte dal vivo, che si privi di tutto ciò che non è essenziale all’arte stessa? Quanto lo “spazio immaginato” riesce a entrare in dialogo con uno spazio reale, e in prima istanza vuoto? E come questo vuoto può chiedere ad artista e pubblico di attivare lo spazio di rappresentazione e di relazione in una maniera inedita? Queste ed altre domande si sono posti i curatori progettando Intersection, queste ed altre domande ci siamo posti noi entrando nei trenta box. Quelli che seguono sono alcuni snodi chiave con i quali proveremo ad attraversare le visioni di Intersection, quelle che ci sono sembrate affondare di più in un possibile “discorso”, consegnandoci la fotografia di un ipotetico stato dell’arte.
Piccolo, intimità (realismo?)
Se fra le idee di partenza c’era la volontà di immaginare delle miniature di sale teatrali e gallerie, c’è chi ha accolto in pieno la sfida e ha lavorato in piccolo, interrogandosi sull’idea di un micro-illusionismo scenografico. Il duo di fashion designer maurenol’s ha installato su una parete nera un intero condominio in miniatura (come una casetta di Barbie) che contiene stanzette abitate dagli inquilini (Tenant / Untitled Movement). Sezioni di interni con una donna dai lunghi capelli, un uomo che gioca a un videogame, un altro in attesa. Come un presepe meccanico questa scena minima è scossa da piccoli accadimenti, come un velo che viene spostato o una mano che si alza. Sarà la visione complessiva, realistica sebbene stilizzata; sarà la sensazione di intimità, palpabile sebbene ricostruita: all’uscita, vien fatto di pensare che le poche chance rimaste all’illusionismo scenografico, quello che ricostruisce sezioni d’interni che “stanno per” (e che i nostri teatri Stabili praticano da sempre e anche oggi), possa risiedere nella miniatura: talmente stilizzato da apparire vero, talmente artefatto da risultare credibile. È una visione spaziale che dominiamo, una visione che non c’investe pretendendo un’adesione o un’acritica accettazione. Siamo di fronte a un condominio alto come noi, di fronte a figurette meccaniche piccolissime, “come noi”.
Anche Monica Pormale, nel suo Exibit N.10, mette in scena un mondo piccolo: chi entra guarda la cornice di un quadro, solo che al posto della tela sta un artigiano in carne e ossa che ritocca i dettagli di personaggi, di tavolini e sedie della grandezza di una mano. Un inno all’artigianato, lo definisce l’artista lettone già a lungo collaboratrice di Alvis Hermanis. Un modo per guardare, per stare di fronte a chi costruisce illusioni preservando uno sguardo bambino.
Il piccolo è dunque una prospettiva diversa dalla quale guardare, certamente distante dalla Bigness alla quale siamo abituati e che, come già sosteneva Rem Koolhaas, sembra l’unico paradigma visivo e architettonico in grado di descrivere il rapporto uomo-città-natura. Se il piccolo entra in uno spazio scenico dove accade un’azione, per chi guarda può semplicemente significare doversi sdraiare al fianco di attori che bisbigliano, se noi che ascoltiamo vogliamo provare a intendere qualcosa. Paradosso voluto, allora, che l’alta temperatura emotiva dei testi (brani estrapolati da scritti di Rodrigo Garcìa) qui si raffreddi al ritmo di un sussurro (World of interiors, dei portoghesi Ana Borralho e João Galante), paradosso che richiede una volontà, un lavoro supplementare allo spettatore, in altre parole un desiderio.
Quando il piccolo diviene invece una chiave di spostamento, di trasposizione di eventi che già erano stati concepiti per altri luoghi, convince certamente meno. Alcuni box partono da una domanda diretta: è possibile mostrare residui, lacerti, tracce di un evento che non c’è più, facendolo rivivere nel box? Saremmo tentati di rispondere negativamente, perché quell’altrove che si tenta di evocare (uno spettacolo, una serie di rappresentazioni: i progetti in tal senso erano numerosi, per un elenco completo rimandiamo al sito web: http://www.intersection.cz) finisce sempre con l’avere la meglio, facendo sì che il box non sia che un tentativo mancante di ricostruzione, qualcosa che anela a un intero che non può darsi, e che così non può acquisire una sua autonomia.
Giochi, relazioni (partecipazione?)
Inevitabile che la Quadriennale s’interroghi sullo spazio relazionale, sulla tensione di molta scena europea a costruire meccanismi in cui lo spettatore è chiamato ad agire, forzando così la tradizionale suddivisione di scena e platea. Tensione non nuova e discussa anche su questo sito, studiata e programmata dai maggiori festival internazionali. Roger Bernat, il catalano di Domìni Public – forse uno dei lavori di questo “panorama” che hanno avuto più risonanza internazionale – ha anche proposto un libro che ruota attorno alla nozione di “spettattore che diventa spettacolo” (Querido Pùblico. El espectador ante la participaciòn: jugadores, usuarios, prosumers y fans. Cendeac, Barcelona 2009): abolire le differenze fra chi fa e chi guarda, sentirsi parte di uno spettacolo che non ci esclude ma ci comprende fisicamente (come nelle dance hall, nei riti dionisiaci, nelle feste del settecento, nelle adunate), sentirci soggetti e oggetti di un accadimento, tutti nodi che questa società dell’ultraspettacolo ha affinato nel tempo che ora il teatro trasfigura in opere a un tempo cariche di potenzialità di riflessione ma anche sul confine dell’intrattenimento. Questa Quadriennale può allora essere l’occasione per fare un punto, forse non ancora definitivo, però con qualche elemento di discussione in più.
C’è chi non chiede molto, né allo spettatore né alla propria opera. Intendiamoci, non si tratta di un giudizio negativo, solo della constatazione dell’assenza dichiarata di una riflessione che tenti di mettere in crisi le azioni che siamo chiamati a fare, o almeno che provi a instillare qualche dubbio, qualche crepa. Partecipare è la parola d’ordine, e in molti casi accompagnata dall’imperativo del divertimento. Ma se accade che ci si diverta davvero, sia a partecipare che a guardare (come in Touring Dance Teacher di Dace Džerina, un tappeto con le orme dei passi da seguire per danzare un tango), in altri casi si tenta di aggiungere una riflessione alla pura evasione, forse temendo di essere troppo leggeri, finendo però col far confondere chi entra. Cosmic Harmony Club di Ioana Mona Popovici è un cubo che ospita una discoteca, con una decina di ragazzetti figuranti impegnati a ballare “davvero”, come se si trattasse di un club notturno. A chi entra non resta che osservare con distacco ciò che accade dentro (e cioè né più né meno di un’azione quotidiana, solo spostata in un contesto d’arte), e chiedersi “perché”. Ci viene chiesto di unirci al ballo? Possibile, ma c’è già chi balla al nostro posto, come ha previsto l’artista. Ci viene chiesto di osservare l’animale umano mentre si diverte? Possibile, ma allora l’esiguità di questo assunto e del dispositivo che lo veicola porta a concludere che c’è nulla di male a divertirsi. Meglio allora giocare per davvero, come nel Monopoli a tema europeo (Europoly, di Dejan Kaludrejovic), o scherzare a essere qualcuno che non siamo facendoci abbigliare da una “vera” boutique, in cui si entra e ci si aggira nella cittadella cambiandosi d’abito. A ogni cornice la sua apparenza, sembra dirci scherzando Paul Divjak nel suo Paul’s Boutique – Dress to Exhibit, e lo “scherzo” sembra poter essere il filo conduttore di questi e altri tentativi, laddove invece il gioco presupporrebbe almeno una “gratuità” e un orizzonte di regole molto più seri.
Uscendo dalla sfera dello scherzo, possono folgorare per qualche istante gli abbracci di coppia esibiti in un box coi muri di vetro (Exhibit no. 17 di Monica Pormale): camminando fra la calca, l’occhio si sofferma su qualcosa di minuto e intimo, come un abbraccio, ben sapendo che dietro c’è la volontà di artista e spettatori di ricrearlo artificialmente. Eppure, vien da pensare, assumere una posa basta per fabbricare una sensazione e uno stato che poi sono vissuti davvero da chi li incarna e da chi guarda, constatazione non di poco conto, almeno in tempi di artifici quotidiani.
Se però si deve fare un punto, dobbiamo discutere di due opposte visioni che Intersection propone allo spettatore, invitandolo a interrogarsi sulla sua posizione, sulla sua scelta di essere in quella cittadella, dentro e fuori dai box. Da una parte si è come esposti di fronte a qualcuno che ci guarda e ci giudica, ben sapendo che la nostra ansia di visione nasconde un’ansia di partecipazione, di protagonismo. In Comment dire di Egon Tobias entriamo in una saletta vuota, di fronte a noi un microfono e un video di spettatori che ci guardano. Se proviamo a proferire parola al microfono la platea inizia ad applaudire, fischiare, dormire, ridere, protestare, secondo una striscia di variazioni che si ripetono preimpostate. Sarà anche chiaro che è tutto finto, ma stare al microfono e vedere qualcuno che reagisce ai tuoi discorsi fa un certo effetto, fa provare una sottile sensazione di “potere”, un potere che è anche desiderio di essere al centro di qualcosa, di farci ascoltare, di non disperderci nella marea anonima («perché noi valiamo», direbbe la pubblicità). Quanto questo Comment direci spinge a guardare fuori, portandoci inevitabilmente “dentro”, tanto Mikado di Hans Rosentröm ci fa fare il percorso inverso. Si entra in un piccolo corridoio, ad attenderci una stanzetta con un tavolino, una specchiera, una sedia. Ci si siede, si indossano cuffie. Ci investe una voce a tre dimensioni, anticipata da passi. Ci si volta per capire chi sia entrato, ma siamo soli. «Guardati allo specchio. Sei bello. Voglio che tu veda che sei cambiato». La voce ci dice che ormai ci siamo abituati a truccarci, che tradiamo indifferenza, indolenza, impazienza, noia e che una volta non era così. «Puoi vedere tutto questo nella mia faccia?», ci viene chiesto. Noi ci guardiamo allo specchio, vorremmo uscire, non ascoltare quella vocina, vorremmo rifiutare questa partita a scacchi fra noi e noi il cui testo è un adattamento di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman. Qualcuno sta dialogando con noi: vorremmo rispondere, sorge allora il sospetto che siamo noi stessi a interrogarci: proferire parola non servirebbe perché probabilmente diremmo le stesse cose, perché conosciamo a memoria ogni battuta del testo. Siamo cambiati, ci nascondiamo dietro a cornici, trucchi, che tradiscono indolenza? Questa domanda risuona mentre guardiamo la nostra immagine riflessa, come Narcisi contemporanei lo sguardo dell’identico ci abbacina ma ci fa stare su un confine: siamo noi, non possiamo che ascoltarci, guardarci, compiacerci; quel noi ci dice verità insopportabili, che volendo possiamo attraversare. Allora qui, partecipare agire guardare lo specchio, significa volontariamente sfaldare i perimetri che ci costruiamo, nella cittadella praghese, nell’Europa di questi anni, nella nostra stessa vita quotidiana.
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.