A Preci, in Umbria, un gruppo di artisti ha costruito una casa senza mura. È fatta di legno e ha due piani: al primo ci si siede ai tavoli, ci si incontra, si cucina e si mangia. Al secondo sono montate delle tende, per dormire. La casa è ospitata in un campo privato, temporaneamente restituito alla collettività; piccole sedie di legno, opere di Mael Veisse, sono state disseminate nel paese, così come nuovi ponti di legno permettono di attraversare il fiume che lambisce i piedi di Preci alta, paese tutt’ora evacuato, zona rossa dopo il terremoto del 2016. Da due anni il gruppo di artisti “abita” Preci, dapprima portandovi laboratori, poi anche fisicamente nella casa, in vista di una “festa” lungo i mesi di giugno e luglio 2018, tre weekend con spettacoli, concerti, camminate (i “riti”) e occasioni conviviali. Un “Museo delle cose splendide” raccoglie in paese oggetti cari alla popolazione, corredati da piccole storie che permettono a chi passa di fermarsi per condividere frammenti intimi-collettivi. Al lato del campo c’è un bosco che ospita uno spazio teatrale, con le lucciole. La camminata alla quale abbiamo assistito, il 29 giugno, è iniziata con un bambino che guidava il gruppo verso un promontorio. Camminando nel buio si arrivava a una radura sulla collina, da dove si poteva vedere Preci alta illuminata, vuota; il bambino si è seduto a terra con un compagno e insieme hanno cominciato ad accendere incensi. Fili di fumo si sono levati di fronte a loro, mentre il paese in lontananza veniva invaso da imponenti nuvole di fumo.
Che alcuni artisti mettano in secondo piano pezzetti delle proprie poetiche in vista di creazioni collettive, dando forma a identità mobili e temporanee ci pare rarissimo; così come raro ci sembra il tentativo di rimettere in discussione radicalmente le forme attraverso cui l’arte interagisce con la società. A Preci abbiamo trovato quell’urgenza che permette di rispondere a un disagio attraverso tentativi comuni; mentre tutti, anche nelle arti, la evocano senza bene capire che cosa sia, a Preci si sta rigenerando un’idea di comunità, con tutte le domande, i rischi, i problemi e le accensioni che un processo di questo tipo comporta.
Abbiamo incontrato il gruppo di lavoro, composto da Leonardo Delogu (Dom), Daria Menichetti, Vincenzo Schino e Marta Bichisao (Opera Bianco), Emiliano Pergolari e Michele Bandini (Zoe), Mael Veisse, Carolina Balucani, Angelo Carchidi, Francesca Agabiti.
Una casa senza muri in un campo, e una festa. Cosa c’è stato prima, come siamo e siete arrivati qui? Ce lo raccontate?
Leonardo Delogu – L’innesco è stato il terremoto, dopo il quale tutti quanti ci siamo chiesti come reagire. Abbiamo cominciato a sentirci fra di noi con assiduità. In quel momento Marta Bichisao stava lavorando sul concetto di vibrazione, Michele Bandini ed Emiliano Pergolari da tempo riflettevano sull’idea di partire e di risiedere nei territori del sisma, per me il tema della casa e dell’abitare è sempre stato molto forte. C’è stata l’interlocuzione con il Teatro Stabile dell’Umbria, l’idea di un progetto l’abbiamo inizialmente condivisa con Linda Di Pietro, io ho poi letto un testo di Ilenia Caleo dove si affermava che gli artisti che arrivano a essere prodotti da uno Stabile dovrebbero ricollocare nella collettività i fondi, perché il merito è comunque collettivo (si tratta di una provocazione, ovviamente). Il punto di partenza andava nella direzione di produrre uno spettacolo sul terremoto, che avrebbe circuitato, con la compagnia dei giovani dello Stabile. Ci siamo presi alcuni mesi per capire, per fare sopralluoghi e siamo tornati dallo Stabile controproponendo un lavoro con la comunità. Corale è difficilmente assimilabile all’identità “produttiva” di uno Stabile, ora va capito in che modo sia possibile dargli seguito, questo è un progetto che ha tolto ciascuno di noi dalla sicurezza dei propri strumenti, ci ha spiazzati e l’unica possibilità è quella di farci permeabili e modificarci per assecondare l’imprevidibilità del percorso che abbiamo messo in piedi.
Emiliano Pergolari – Siamo partiti da Norcia, paese che nel periodo immediatamente successivo all’emergenza era già “pieno” di progetti e percorsi, mentre queste zone erano sguarnite. La prima grande domanda era: che cosa possiamo fare noi? In quanto artisti, compagnie teatrali dell’Umbria. Per prima cosa ci siamo messi in ascolto, capendo quale potesse essere il nostro ruolo. Abbiamo così deciso di stabilirci per un mese e stabilire un primo contatto. Nonostante i disastri qui abbiamo trovato un clima di paese, con l’idea di volere stare insieme, ritrovarsi. La prima fase iniziata a maggio dello scorso anno è culminata con la Festa del 17 giugno in cui la nostra presenza, in un primo momento molto discreta, a tratti invisibile è diventata sempre più esplicita e concreta.
Lo abbiamo fatto in tre momenti diversi della giornata, con l’attraversamento insieme ai paesani di Preci Alta devastata dal terremoto, con l’ingresso in un campo lungo il fiume che avevamo trasformato in un giardino magico, anche grazie alle storie inventate che i bambini hanno raccontato agli adulti e alla Festa vera e propria, una grande cena nella strada principale di Preci bassa, in una lunga tavolata con i tavoli e le sedie costruite da Mael Veisse.
Poi durante l’inverno abbiamo continuato, e non è stato facile. La nostra proposta, che si articolava attraverso dei percorsi laboratoriali sul teatro, il movimento, il video, la rassegna di cinema, gli incontri coi bambini, il coro, non ha sempre ricevuto una grande risposta del paese… delle volte c’erano 7/8 a volte di più, altre volte ancora solo 3/4 persone… Qui infatti d’inverno si esce meno, ma la continuità della nostra presenza ha avuto comunque un senso anche in relazione al momento in cui poi ci siamo stabiliti qui, ovvero da maggio. Da quel momento con la nostra presenza fissa e con il cambio di stagione, il progetto si è intensificato e il nostro lavoro ha decisamente dato i suoi frutti, in termini di risposta e coinvolgimento da parte di tutta la comunità.
Michele Bandini – Lo scorso anno la nostra residenza è iniziata in punta di piedi, abbiamo piantato le mostre tende e abbiamo cominciato a frequentare gli spazi del paese, da quelli pubblici, a quelli naturali, ai bar, sono nate delle amicizie e delle relazioni, abbiamo lavorato con i bambini, un lavoro che ha portato alla creazione di fiabe scritte a partire dall’immaginario e dai paesaggi della valle… poi i mobili fatti da Mael hanno iniziato a riempire gli spazi pubblici e gli spazi privati. Pensa cosa accade se regali una seggiolina alla signora che vuole annaffiare le piante, i tavoli e le sedie ai bar… abbiamo realizzato una processione con i bimbi che hanno posizionato le sedie in giro per il paese. Questo è stato il primo episodio, un segno forte in un processo che ricrea degli spazi, o che invita a contemplare e abitare i luoghi in modo diverso. Abbiamo installato dei ponti sul fiume, costruito una zona di sosta vicino a una cascatella, appeso altalene sugli alberi.
E. P. – Come quando getti un sasso nell’acqua, si creano cerchi concentrici. Prima conosci la singola persona, poi la sua famiglia, poi gli impiegati al supermercato quando compravamo i panini…abbiamo ricevuto i primi inviti a pranzo, ci siamo conosciuti via via, cercando di non essere invasivi, rispettando quello che le persone stavano vivendo, rispettando la vita del paese, rispettando degli avvenimenti che già erano in atto.
L. D. – Noi non dovevamo essere quell’elemento che suscita la discussione ma al contrario proporci come quell’orecchio che ascolta. Ascoltare qualunque storia, senza mai domandare del terremoto, sapendo che è già lì. Questo campo lo scorso anno lo avevamo adibito a giardino con i bambini, sempre però in una dimensione di selvatichezza, creando sentieri dentro l’incolto come avviene un po’ in questa valle. Il campo è un luogo privato che è diventato pubblico e la proprietaria (la fioraia del paese) si è presa una grossa responsabilità. C’è un accordo privato di assunzione di responsabilità che ha permesso la nascita della casa; il campo si raggiuge da due parti, è molto visibile se lo si guarda dal ponte, è vicino al Mulino, un caseggiato che custodisce diverse storie e tratti identitari, fino a prima del terremoto è stato il centro visite del Parco dei monti Sibillini poi col sisma quella funzione si è interrotta e oggi ha una nuova vita.
In effetti il nostro “abitare” ha modificato anche un poco la mobilità: aprendo questo campo ora si può passare in mezzo per andare da una parte all’altra del paese, evitando un giro largo o una mulattiera ripida. Si modificano gli spazi per creare uno sguardo diverso su un luogo consueto, ma è anche qualcosa di concreto, di fruibile, che serve a chi si muove a piedi da bar a bar.
La stessa formulazione “arte comunitaria” andrebbe discussa nelle sue implicazioni. Viene da chiedere, proprio a voi che avete deciso di creare un progetto collettivo, che cosa si perda e che cosa si guadagni, quando l’arte abita le comunità.
Marta Bichisao – Credo che ci voglia una tensione fra due poli. Se si smette di fare teatro non si fa nemmeno “teatro comunitario”. Occorre nutrire uno stare “diverso”, come è questo, con una pratica opposta, altrimenti semplicemente si “diventa parte” e non si riesce più a costruire. Facciamo attenzione a non cadere nella semplificazione che solo il lavoro con la comunità manifesti “la vita reale”, mentre nel teatro non la si trova più… la pratica nel teatro può servire anche a persone che stanno fuori dal teatro, si creano delle energie che poi nutrono anche altri contesti.
L. D. – In ogni caso qui abbiamo creato, o si sono creati, dei chiari canali di comunicazione fra le pratiche che ognuno porta avanti “fuori da qui”. Penso al Museo delle cose splendide e al lavoro fatto da Carolina sulla narrazione.
Il Museo delle cose splendide è una continua scoperta. Camminando per il paese si passa costantemente dall’intimo al pubblico, grazie agli oggetti messi in mostra e alle piccole storie che li descrivono. Si cammina, si osserva, ci si commuove, si sorride… si comprende che quella storia, che non è tua, tuttavia fa parte di qualcosa di più grande che in qualche misura ti comprende. Come avete lavorato?
Carolina Balucani – Siamo partiti dall’idea di farci raccontare una storia legata a un oggetto, che avrebbe comportato la “consegna” dell’oggetto. L’importante è che quell’oggetto rimandasse a qualcosa di bello, o di “splendido”. Un luogo, una memoria, un episodio. Abbiamo creato un museo diffuso dove alcuni di questi oggetti sono collocati anche dentro spazi privati.
Io mi sono molto interrogata sulla scrittura, ho voluto lasciare i racconti il più possibile vicini a come venivano dette le parole, italianizzando però ogni frammento. Credo sia rimasta sempre un’ombra di non giustezza ortografica che rispecchia il parlato naturale delle persone.
Quali erano le domande? Come li avete incontrati e sollecitati?
C. B. – L’idea era raccontare Preci attraverso le storie delle persone che ci vivono, storie legate ai loro oggetti cari. Così abbiamo evitato l’eccessiva autoreferenzialità, ma anche la naturale “finzione” che subentra nel volere rappresentare se stessi. Nel rapporto con l’oggetto in realtà si evince molto delle persone, il racconto è come un’ombra che rende l’oggetto “splendido”, un’ombra che lo illumina e lo accende. Separarsi dagli oggetti è dunque stato un grande atto di fiducia con valore simbolico altissimo, occorre fidarsi di tutti quelli che lo osservano nel museo.
Non volevamo assolutamente che si collegasse l’oggetto alla sua importanza materiale. Per esempio una cosa che si è persa, un vaso che si è riuscito a salvare… no, non era questo il senso. Lo “splendore” poteva anche essere nel passato, dunque andava bene anche un oggetto perduto o distrutto. Allora in questo caso si trattava di strappare alla memoria un momento, un ricordo in cui l’oggetto aveva avuto importanza, fare rivivere le cose per come sono state nella loro epoca d’oro. Forse il teatro è una delle arti nelle quali si riesce a mettere in atto una simile operazione di annullamento del tempo, un concetto che a me personalmente interessa molto. Se una cosa è stata splendida non mi importa se adesso non lo è più: di quella cosa mi devi raccontare non come è stata distrutta ma il momento di tempo in cui è stata importante.
Quali sono state, nel concreto, alcune delle domande che avete posto loro?
C. B. – «Mi parli di una cosa che per te è splendida?» «Mi racconti una cosa che per te è bella?» «Hai un posto che ti fa stare bene?» All’inizio si tendeva a rispondere: «No, per me non c’è più niente di bello». C’era chi aveva in mente subito un oggetto, c’era invece chi entrava in crisi. Alcuni hanno capito di avere oggetti cari non legati a ricordi “splendidi”, ma oggetti che conservavano abitudini, come delle piccole zavorre.
E. P. – I laboratori di questo inverno sono stati necessari per arrivare alle storie. È una consapevolezza che abbiamo costruito e raggiunto nel corso del tempo, con le persone. Per alcuni col teatro, con il video, col gioco, con la danza, per altri con la narrazione.
M. B. – Attraverso i vari laboratori e i linguaggi utilizzati si è delineata una modalità di interazione e di relazione con le persone che ha aperto la strada alla condivisione delle storie, e alla scelta condivisa della qualità della restituzione, sia essa in forma di scrittura, che di video intervista…
C. B. – Condividere i racconti del paese con il paese significava per noi ricostruire una sorta di “casa interiore collettiva”. Una casa fatta di oggetti cari che non si distrugge perché è tenuta insieme dai racconti ed è invisibile.
Daria Menichetti – A livello laboratoriale abbiamo lavorato sul contatto, il rapporto con l’altro, la dimensione di sé nello spazio, l’essere guardati… abbiamo voluto mettere insieme tali livelli di lavoro che con il Museo è come se fossero divenuti visibili, come uno specchiamento continuo. La comunità si riconosce dentro oggetti, storie, luoghi che ritornano nel Museo… è un processo di racconto di un territorio e della sua anima. Ci serviva un fil rouge che mettesse insieme tutto il lavoro e il museo è stato questo, una pratica di messa in mostra che si modifica via via.
L. D. – In una comunità così piccola e coesa, le persone si sono commosse leggendo le storie degli altri. Persone che si conoscono da sempre, su alcuni aspetti è come però se si fossero guardate per la prima volta, riconoscendosi attraverso gli sguardi degli altri. O anche conoscendo storie che non erano note.
Come tutto questo poi può “tornare al teatro”? Ci si riesce? Mi pare che qui stiate costruendo frammenti di esperienza, come sono anche le camminate. Ma la visione di spettacoli può ancora essere esperienza condivisa?
Vincenzo Schino – Il sistema dell’arte e della cultura è “terremotato”. E a mio parere questo deriva anche da come umanamente ci si relaziona gli uni con gli altri. L’origine di questo progetto credo che sia la relazione umana, fra noi, fra artisti e istituzioni. Abbiamo così cercato di approfondire e lavorare sulle relazioni umane in un cerchio stretto, in una piccola comunità. Dalle relazioni poi si risale, a cascata, alla domanda sull’arte.
L. D. – Qui a Preci ci siamo trovati di fronte a qualcosa di irrappresentabile… non si può fare rappresentazione di una cosa come il terremoto. Allora il tema diventava come il teatro si potesse trasformare in abitazione, come potesse attivare un tempo non produttivo. Se guardiamo bene, qui il teatro sta tornando a una forma originaria: un rituale, con gli elementi del rituale ben visibili (lo spazio, la tensione del rito, i testimoni, gli officianti). Qui il teatro recupera qualcosa che sta alla radice del teatro, qualcosa che mi pare in atto anche nelle poetiche degli artisti che abbiamo invitato (da Teatro Medico Ipnotico a Mariangela Gualtieri al Teatro delle Ariette). Non nascondo che questo generi per noi anche un elemento di sofferenza: qui non possiamo completamente fare “il nostro lavoro”, ci sono tante cose di cui avere cura. All’inizio ci siamo anche domandati come livellare un linguaggio, come cercare di parlare a un livello paritario… ci siamo chiesti come raggiungere una semplicità.
D. M. – La nostra presenza, però, è stata forse più legata all’ascolto che a voler imporre una modalità di lavoro artistico.
L. D. – Sì. Quest’anno siamo già riusciti a fare uno scarto. Grand mother di Opera Bianco è già un lavoro con tutti i crismi della loro poetica. La camminata di ieri ha toccato una forma che è quella che amo. Stiamo dentro a una pressione molto forte: non siamo qui solo per gli spettacoli ma smontiamo, puliamo i piatti, cuciniamo, facciamo sala… è una moltiplicazione. C’è un livello di inselvatichimento molto forte che moltiplica le energie, i ritmi sono forsennati, il conflitto diventa parte dell’esperienza. La casa comune però riesce a riassorbirlo, anche pensando alla dinamica dei tre weekend. Ci sono dei necessari tempi di abitazione e sospensione, questo non è un festival, si sospende il tempo e per capire e processare e cambiare.
Una domanda per Anna de Manincor di Zimmerfrei. Qui presentate Familiy Affair mentre in Tentativi di esaurimento di alcuni luoghi bolognesi avete recentemente mostrato l’esito di un laboratorio con giovani cittadini stranieri, in occasione del festival Right to the city. Le domande che ci stiamo ponendo, rispetto a come l’arte si sposta nei processi comunitari, mi pare risuonino molto nella vostra pratica. Quel lavoro visto a Bologna era come un discorso sul frammento, tanti “pezzi” di Bologna visti insieme cercando una sorta di impossibile unità, forse però per questo arrivando a un rappresentazione plausibile.
Anna de Manincor – In Tentativi di esaurimento di alcuni luoghi bolognesi abbiamo lavorato con persone appena arrivate a Bologna, provenienti da Gambia, Nigeria, Romania, Cina, giovani con storie molto dure. Loro sanno già che porrai una domanda sulla sofferenza, stanno lì e aspettano quella domanda. Yakub, che ha 17 anni e in cinque mesi ha imparato l’italiano, ci ha confessato come gli pongano sempre la stessa domanda. Noi in realtà per prima cosa gli abbiamo chiesto dove vivesse a Bologna e subito dopo è stato lui stesso a volerci raccontare i suoi due anni dalla Nigeria al Niger, dalla Libia all’Italia. Non aveva deciso minimamente di venire in Europa, ha seguito dei consigli di persone amiche e si è innescata una catena. Prima di tutto però ci ha detto che rispondere alle domande non gli piace, dunque ho capito che avevamo un problema, anche noi gli siamo andati troppo addosso. Tutti fanno una domanda, ascoltano la storia e dopo non li vedi mai più, perché hanno già ricevuto il massimo. Così, per uscire dall’empasse gli abbiamo chiesto se invece gli piacesse di più farle le domande e se mai avessimo fatto un documentario lui sarebbe stato quello che poneva le domande. Si è dunque trovato in condizione meno “frontale”, meno sotto esame.
Per noi si crea una specie di pudore, un imbarazzo nel chiedere esattamente la cosa per la quale ci siamo incontrati. Anche l’imbarazzo è colpevole, perché lo sappiamo benissimo entrambi perché siamo lì. Eppure questo processo strano permette di creare una tacita alleanza di fronte a cose innominabili. Ci si attacca l’uno all’altro e si posticipa sempre quel momento, che poi si scioglie, emerge dai dettagli. Per me le domande sono sempre periferiche. In Family Affair non abbiamo mai posto domande sui rapporti famigliari, per evitare la psicologia da rivista, non abbiamo mai chiesto quali siano i conflitti, come sopravvivono le coppie quando sono separate. Chiediamo invece “i nomi delle cose”. Il lavoro di Bologna proviene da un libro di Georges Perec, un autore che scriveva infinite liste. Le nostre domande diventano, allora: come si chiamano le persone? Raccontaci qualcosa in cui siete stati coinvolti nella vostra famiglia. All’inizio le risposte cercano questioni importanti, poi noi le dirottiamo su episodi recenti, come traslocare o andare a fare la spesa al mercato. Chiediamo i gesti, le azioni, cosa è stato comprato… dove avete parcheggiato? Ci prendono per matti. Qui, forse, nascono i dettagli di cui parli, che diventano come un diversivo. Io non amo la poetica dei dettagli, mi piacciono le cose essenziali, in realtà. Ma non sono capace di produrle!
Leggendo il titolo che avete scritto qui a Preci, Insieme si spostano le montagne, ho pensato subito alla performance When Faith Moves Mountains di Francis Alÿs. La domanda del “cosa resta” dopo un progetto partecipativo può essere ribaltata: ma voi, dopo che noi ce ne siamo andati, che cosa continuate a fare? Alÿs, in Perù, in una zona mineraria, ha proposto di spostare una collina. Tutti hanno riso, sono però arrivate mille persone che dalla base della collina hanno iniziato a scavare, spalando tutti dallo stesso lato. Con un calcolo statistico si può dire che sia vero, è successo: una quantità di metri cubi di terra sono stati spostati, dunque la collina è stata spostata. Alÿs è belga ma abita a Città del Messico e afferma spesso di non riuscire a pensare al fatto di immettere nuovi oggetti in questa “foresta di oggetti”. La massima aspirazione delle sue opere o delle sue azioni è generare un mito urbano: una cosa accaduta che poi verrà raccontata e diventerà una storia. C’è qualcuno che l’ha vista accadere, ci sono i testimoni diretti, c’è chi racconta i racconti, chi la tradisce. E così via. Secondo me qui a Preci si ricorderanno di voi, penseranno alla casa di legno, a quando c’era, la racconteranno. Ai ponti, ai riti, alle sedie.
Cosa accadrà, dopo la fine della Festa?
L. D. – Non lo sappiamo. Certo è che ci poniamo il tema della responsabilità, si è generata una presenza, abbiamo piantato dei semi e si rischia di lasciare un grande vuoto. Abbiamo fatto avanti e indietro da Preci per un anno, questo lavoro ha probabilmente tolto spazio ad altri aspetti del nostro percorso, anche se tutto torna. Sicuramente serve un tempo del distacco, perché questa esperienza è trasformante.
La terza camminata sarà un attraversamento della zona rossa, con tutta la comunità, era accaduto lo scorso anno ma erano in pochi, il tempo era limitato. Quest’anno la sensazione è che saranno tanti. Sarà l’ultimo giorno, domenica 15. Forse la domanda su “che fare” ce la possiamo porre insieme, collettivamente. Un patrimonio comune che si è generato va discusso insieme, la domanda non è solo nostra, anche sul futuro della casa, non tutto è nelle nostre mani.
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.