All’alba del debutto della produzione ERT con Teatrino Giullare, Menelao, abbiamo scambiato due parole con Davide Carnevali, promessa della drammaturgia italiana e recente vincitore del premio Hystrio alla drammaturgia. Essendo all’oscuro delle modalità con cui verrà messa in scena l’opera poniamo alcune domande abbastanza generali, estrapolate dalla descrizione disponibile sul sito dell’Arena Del Sole. Menelao è l’uomo più ricco del mondo, sposato con la donna più bella del mondo, sopravvissuto alla guerra di Troia, ma non felice. È consapevole che non sarà mai ricordato come eroe al pari del fratello Agamennone, e ciò logora la sua esistenza, portandolo a invidiare i morti.
Nel contesto dell’epos greco, come mai hai deciso di focalizzarti su Menelao e non su altri eroi che hanno avuto un lieto fine?
L’interesse è ricaduto su di lui perché, tradizionalmente, è descritto come l’uomo – il principe – più ricco della terra al momento della partenza da Troia, il più fortunato ad aver sposato la donna più bella del mondo. Nonostante ciò non è annoverato tra gli eroi che sono passati alla storia. Sicuramente è meno ricordato di suo fratello Agamennone che, paradossalmente, ha avuto una storia più sfortunata. Ho trovato interessante l’idea di una persona che ha tutto e che in teoria dovrebbe essere felice, ma che non riesce concretamente a raggiungerla. Il problema della felicità, in realtà, si ricollega al non essere ricordato come un eroe. L’ho poi paragonato al paradigma dell’uomo “piccolo” europeo contemporaneo che possiede tutto, dal lato economico possediamo molti più vantaggi delle generazioni passate, ma che ha il problema dell’insoddisfazione, perché il fronte del desiderio resta sempre aperto.
Nel corso dello spettacolo emerge una continua ricerca di un finale impossibile; si può interpretare come una predestinazione dovuta dalla forma originale del mito, in cui ci viene presentato il personaggio?
Il problema è l’impossibilità di chiudere il percorso della tragedia. Ci si ritrova ad avere costantemente davanti un finale aperto, perché non si arriverà mai al “punto” della storia. Analizzando la storia giudaico-cristiana, e la vicenda greca stessa, troviamo sempre implicita l’idea di un ἀρχή (archè) e un τέλος (tèlos), rispettivamente un inizio e una fine. Le tragedie greche pur rappresentando un destino circolare, sono strutturate in modo lineare affinché si possa vedere un cambiamento che porta a una conclusione; ciò avviene per una necessità filosofica di mostrare l’uomo tragico come esempio da seguire o no, a seconda della morale. L’idea di tragedia è racchiusa proprio nell’impossibilità di chiudere la storia con un finale conclusivo. Quando mi sono chiesto «che tipo di tragedia possiamo scrivere nella contemporaneità?» la cosa interessante che volevo mettere in luce era proprio questa: nel finale, che non arriva, si consuma la tragedia e in ciò si racchiudono molti ideali del teatro del ‘900, da Beckett a Heiner Müller ad esempio.
Senza aver letto nulla su Menelao, il pubblico del teatro deve aspettarsi una tragedia “classica” o vedrà tratti innovativi e contemporanei?
Vedrà sul palco una rielaborazione e una riflessione che parte da quel concetto di tragedia e da quel concetto di teatro greco che metteva a confronto il singolo con il gruppo, l’individuale con il collettivo.
Com’è nata la collaborazione con Teatrino Giullare?
La collaborazione è nata dal fatto che ammiro molto il loro lavoro; li avevo visti in scena e mi erano piaciuti molto. Grazie a Claudia Cannella, giornalista del Corriere della Sera di Milano e presidente di Hystrio-Associazione per la Diffusione della Cultura teatrale, hanno ricevuto i miei testi, tra cui Menelao, in seguito a una richiesta di Teatrino Giullare di leggere qualcosa di mio. Teatrino Giullare organizza ogni estate una rassegna a Sasso Marconi nel loro spazio e quell’anno, nell’estate del 2017, il tema centrale era il mito, e hanno deciso di usare Menelao in una lettura scenica. Lì ci siamo incontrati per la prima volta. Dopo ciò ERT – Emilia Romagna Teatro – che è il teatro con cui collaboro più stabilmente da quando è gestito da Claudio Longhi, mi ha proposto di produrlo, e ho pensato di portare avanti e ufficializzare questa collaborazione con Teatrino Giullare.
Nel contesto dell’epos greco, come mai hai deciso di focalizzarti su Menelao e non su altri eroi che hanno avuto un lieto fine?
L’interesse è ricaduto su di lui perché, tradizionalmente, è descritto come l’uomo – il principe – più ricco della terra al momento della partenza da Troia, il più fortunato ad aver sposato la donna più bella del mondo. Nonostante ciò non è annoverato tra gli eroi che sono passati alla storia. Sicuramente è meno ricordato di suo fratello Agamennone che, paradossalmente, ha avuto una storia più sfortunata. Ho trovato interessante l’idea di una persona che ha tutto e che in teoria dovrebbe essere felice, ma che non riesce concretamente a raggiungerla. Il problema della felicità, in realtà, si ricollega al non essere ricordato come un eroe. L’ho poi paragonato al paradigma dell’uomo “piccolo” europeo contemporaneo che possiede tutto, dal lato economico possediamo molti più vantaggi delle generazioni passate, ma che ha il problema dell’insoddisfazione, perché il fronte del desiderio resta sempre aperto.
Nel corso dello spettacolo emerge una continua ricerca di un finale impossibile; si può interpretare come una predestinazione dovuta dalla forma originale del mito, in cui ci viene presentato il personaggio?
Il problema è l’impossibilità di chiudere il percorso della tragedia. Ci si ritrova ad avere costantemente davanti un finale aperto, perché non si arriverà mai al “punto” della storia. Analizzando la storia giudaico-cristiana, e la vicenda greca stessa, troviamo sempre implicita l’idea di un ἀρχή (archè) e un τέλος (tèlos), rispettivamente un inizio e una fine. Le tragedie greche pur rappresentando un destino circolare, sono strutturate in modo lineare affinché si possa vedere un cambiamento che porta a una conclusione; ciò avviene per una necessità filosofica di mostrare l’uomo tragico come esempio da seguire o no, a seconda della morale. L’idea di tragedia è racchiusa proprio nell’impossibilità di chiudere la storia con un finale conclusivo. Quando mi sono chiesto «che tipo di tragedia possiamo scrivere nella contemporaneità?» la cosa interessante che volevo mettere in luce era proprio questa: nel finale, che non arriva, si consuma la tragedia e in ciò si racchiudono molti ideali del teatro del ‘900, da Beckett a Heiner Müller ad esempio.
Senza aver letto nulla su Menelao, il pubblico del teatro deve aspettarsi una tragedia “classica” o vedrà tratti innovativi e contemporanei?
Vedrà sul palco una rielaborazione e una riflessione che parte da quel concetto di tragedia e da quel concetto di teatro greco che metteva a confronto il singolo con il gruppo, l’individuale con il collettivo.
Com’è nata la collaborazione con Teatrino Giullare?
La collaborazione è nata dal fatto che ammiro molto il loro lavoro; li avevo visti in scena e mi erano piaciuti molto. Grazie a Claudia Cannella, giornalista del Corriere della Sera di Milano e presidente di Hystrio-Associazione per la Diffusione della Cultura teatrale, hanno ricevuto i miei testi, tra cui Menelao, in seguito a una richiesta di Teatrino Giullare di leggere qualcosa di mio. Teatrino Giullare organizza ogni estate una rassegna a Sasso Marconi nel loro spazio e quell’anno, nell’estate del 2017, il tema centrale era il mito, e hanno deciso di usare Menelao in una lettura scenica. Lì ci siamo incontrati per la prima volta. Dopo ciò ERT – Emilia Romagna Teatro – che è il teatro con cui collaboro più stabilmente da quando è gestito da Claudio Longhi, mi ha proposto di produrlo, e ho pensato di portare avanti e ufficializzare questa collaborazione con Teatrino Giullare.
Eleonora Poli
]]>L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.