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Il teatro è l'unico gioco serio rimasto. L'Enrico IV di Carlo Cecchi

di Altre Velocità

Enrico IV di Pirandello, spettacolo prodotto da Marche Teatro. Si riconferma un grande interprete dell’autore siciliano, di cui ha allestito con gran successo nel 1976 L’uomo, la bestia e la virtù prima a teatro poi in televisione e nel 1991 Sei personaggi in cerca d’autore in una lunga tournée. Cecchi, anche questa volta, ci immerge con grande destrezza nella logica pirandelliana stravolgendo e sottoponendo l’opera a una nuova luce, interpretando brillantemente il ruolo di Enrico IV e ironizzando sul personaggio in una farsa all’interno della farsa, creando un groviglio tra finzione e realtà dove l’attore interpreta l’attore di un attore. Anche la scelta del cast è innovativa: abbiamo da un lato attori consolidati come Angelica Ippolito, Roberto Trifirò e Gigio Morra; dall’altro giovani che hanno la freschezza dell’inizio carriera come Davide Giordano, Federico Brugnone, Dario Iubatti, Chiara Mancuso, Remo Stella e Matteo Lai diplomati alla Silvio D’Amico. [caption id="attachment_1636" align="alignnone" width="1030"] ph Matteo Delbò[/caption] L’opera, pietra miliare del teatro italiano, narra della storia di un nobile che a una mascherata in costume si traveste da Enrico IV di Franconia. Alla festa sono presenti anche Matilde, donna della quale è innamorato, e Belcredi suo rivale in amore. Quest’ultimo gli gioca un brutto tiro: durante una cavalcata lo disarciona lo fa cadere e lui batte la testa. Quando si rialza cade in preda alla follia e crederà, da quel momento in poi, di essere realmente l’imperatore Enrico IV. La follia dell’uomo verrà assecondata dai suoi servi e da Di Nolli, figlio di sua sorella. Dopo vent’anni Matilda, Belcredi e la loro figlia in compagnia di Di Nolli e di uno psichiatra andranno a trovarlo ed egli, alla vista della figlia di Matilda, identica alla madre da giovane, torna in sé e tenta di abbracciarla ma Belcredi si oppone. Allora il finto imperatore sguaina la spada e lo trafigge, e per non pagare le conseguenze del suo gesto si fingerà pazzo per il resto dei suoi giorni. La rielaborazione drammaturgica di Cecchi verte sull’interpretazione dell’attore dove la dualistica contrapposizione tra l’uomo e il personaggio prende una piega inaspettata stravolgendo le aspettative del pubblico. L’opera è riproposta con uno spiccato accento sul lavoro di gruppo dando rilievo alla pluralità dei caratteri e non più alla centralità del ruolo principale, come in Pirandello. Ora la macchina scenica è aperta e scorgendo l’interno possiamo vederne tutti gli ingranaggi; questo avviene grazie alla decostruzione che Cecchi fa dell’opera mettendo in rilievo le parti minori e smontando quel grande monologo principale del protagonista che si era giovato dell’interpretazione di grandi attori come Ruggero Ruggeri. «Il vecchio va distrutto per dare spazio al nuovo» ci dice il regista e non esita a mostrarcelo, soprattutto quando uno dei servi recita la lettera che l’autore scrisse a Ruggero Ruggeri e lui (Cecchi) si sente in dovere di rispondergli dicendo «quelle parole lui le ha scritte all’altro, non a me! Lui ha preso la sua strada, io prendo la mia!». Ancor più rilevante è la stessa interpretazione che l’attore-regista compie, scimmiottando uno stile accademico tradizionale con pose statuarie, movenze molto lente e accentuate, impostando forzatamente la voce al modo del “grande attore” ottocentesco, rendendo il tono dello spettacolo comico, quasi grottesco, ma allo stesso tempo facendo riflettere il pubblico sui concetti chiave dell’opera mostrando, con grande maestria, due facce della stessa medaglia: essere o apparire? Vita o teatro? Lui sceglie il teatro fingendo di essere pazzo, ma quando l’identificazione col personaggio della tragedia è assoluta e consapevole, quella tragedia diventa una farsa. [caption id="attachment_1637" align="alignnone" width="1030"] ph Matteo Delbò[/caption] Cecchi alleggerisce, taglia e modernizza l’opera riportando il tutto in un unico atto. Spesso in questi casi si corre il rischio di uscire troppo fuori dal testo, ma questo il regista lo sa bene. Infatti, all’interno dello spettacolo, imposterà uno dei quattro servitori-attori come suggeritore, e questi, con il copione originale in mano, di volta in volta, tenterà di “indirizzare” la pièce verso la struttura originaria di Pirandello, ma spesso non sarà ascoltato. Di scena in scena il clima si riscalda, le ambientazioni scenografiche mutano dinanzi agli occhi del pubblico dando quel senso di “straniamento” che incita lo spettatore a restare fuori dalla storia e guardare il tutto con occhio critico. Sarebbe scontato pensare che la tematica metateatrale dello spettacolo di Cecchi abbia matrice pirandelliana, ma non è così; pare che il regista si sia ispirato ad Amleto di Shakespeare, altra fonte nota di Cecchi, proprio a quella scena dei comici recitata al cospetto di Re Claudio che anticipa il concetto di teatro nel teatro. Nel finale, dove uno specchio mette in risalto “retoricamente” il confronto fra l’uomo e l’attore dell’attore, il pazzoide imperatore incalza un incandescente monologo diretto al pubblico, arso dal fuoco della verità, quella verità che brucia, infuoca le orecchie di chi l’ascolta, in cui emerge uno strabiliante confronto tra l’uomo e il suo doppio (il teatro), lo stesso doppio di cui parla quell’Artaud divenuto poi simbolo del lavoro dei Living Theatre tanto cari a Cecchi :«Non sappiamo più, noi spettatori, dove l’uno comincia e l’altro finisce […] ed è come un gioco di specchi» (Il teatro e il suo doppio, A. Artaud). La farsa è svelata, non resta che affrontare i propri fantasmi e ammettere di aver giocato al ruolo delle parti sottomettendo tutti coloro che sono causa di questa macchinazione psichica, esprimendo l’impossibilita di adeguarsi a quella realtà che volontariamente si è voluti abbandonare: «Ho scelto la pazzia lucidamente e con divertimento, non come voi che ne siete schiavi». La vita spesso è schiava della farsa, tutti siamo attori nella vita, ma quando ci sforziamo di essere noi stessi veniamo considerati pazzi, forse il teatro può nasconderci e farci apparire tutto come un gioco o forse è «l’unico gioco serio rimasto».  

Maurizio dell’Acqua

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