File di sedie nere osservano gli spettatori seduti sulle gradinate della sala teatrale. Ci si sente di fronte a uno specchio, in verità. Sul palco-platea sostano dei ragazzi, paiono in attesa. Di cosa? Più il tempo passa e più, forse, quel che si sta attendendo insieme è un semplice accadimento.
x-machine di tsd-teatro dei servi disobbedienti (Federica Amatuccio e Andrea Gianessi) inizia così, in una situazione sospesa e avvolta nel silenzio. A un certo punto, quattro performer e musicisti danno avvio al “dispositivo scenico”, agendo nello spazio attraverso il proprio strumento: Jacopo Giacomoni – sax; Marco Puzzello – tromba; Federica Furlani – viola; Andrea Gianessi – elettronica. Non c’è parola, solo suoni e corpi che ora paiono attraversare individualmente il contesto, tentando di trovare la loro dimensione; ora entrano in contatto, dialogano, si scontrano. L’ordine infine si rompe. Distruzione o cambiamento?
In una uggiosa serata di fine novembre incontro Federica e Andrea nel caloroso spazio del DAS – Dispositivo Arti Sperimentali (via del Porto 11/b, Bologna), che co-gestiscono insieme ad altre numerose realtà e associazioni bolognesi. Siamo qui per una ricca chiacchierata attorno al lavoro che stanno preparando, x-machine, andato poi in scena in prima assoluta ad Ateliersì il 20 e il 21 dicembre 2022. A partire dalla loro ultima creazione, tsd racconta i presupposti della performance, ma anche la propria pratica artistica e le direzioni della propria ricerca, sempre orientata alla disobbedienza, come suggerisce il nome del duo. Abbiamo concluso il lungo scambio, riprendendo alcune questioni attorno alla nuova generazione teatrale tratte dallo speciale Chi l’ha vista? di Altre Velocità, per approfondire insieme visioni, prospettive e difficoltà di una compagnia indipendente a confronto con il sistema teatrale.
x-machine è una performance sonora, la cui anteprima è stata presentata alla Biennale College Teatro 2020. Quali sono i presupposti di partenza e quali sono stati gli sviluppi del lavoro?
Andrea: «Abbiamo iniziato nel 2019, anche se l’idea originaria è addirittura del 2017. In quel periodo avevamo cominciato a ragionare su come liberarci dalla rappresentazione per trovare modi di essere-in-atto. Questo ci ha portati a concepire un progetto in chiave sonora, riconoscendo nella musica una modalità espressiva immediata, che non comunica altro da sé. In parallelo stavamo approfondendo il concetto di “dispositivo”, inizialmente attraverso lo studio del rapporto tra lo spazio e il suono concreto, ovvero quello emesso da un qualsiasi strumento, compresa la voce (da qui x-machine); e in un secondo momento guardando alla relazione del suono con il microfono o l’impianto audio, veri e propri dispositivi e filtri, per tentare di entrare in dialogo con lo spostamento della fonte sonora e acustica nello spazio. Questo percorso ci ha poi condotti a una riflessione sul posizionamento del corpo in scena e su come esso abbia una fisicità che si auto-comunica: in altre parole il corpo, come il suono, si rapporta inevitabilmente con lo spazio, agendo all’interno di un dispositivo che lo condiziona. Dall’analisi dei rapporti tra fisicità concreta e dispositivo, siamo tornati a quel desiderio di mettere in scena l’attualità, non nel senso di cronaca, ma nei termini di un divenire, di un essere-in-quel-momento. A pensarci ora, credo sia uno degli spettacoli più concettuali che abbiamo realizzato. Tuttavia nasce da un’esigenza molto concreta, ovvero quella di indagare le modalità con cui ci relazioniamo non soltanto con lo spazio scenico, ma anche con la realtà in generale».
Quali sono stati i vostri riferimenti teorici e artistici, tra letture, materiali audiovisivi, musica, teatro?
Federica: «In merito al rapporto tra corpo e spazio e al concetto di “dispositivo”, abbiamo avuto come principale riferimento Gilles Deleuze e le riflessioni tratte dal suo libro Che cos’è un dispositivo?. Per quanto riguarda invece l’azione performativa, ci siamo lasciati ispirare dalla musica minimalista, a partire dalla visione del documentario sperimentale Koyaanisqatsi (1982) diretto da Godfrey Reggio e con le musiche di Philip Glass. Ma fondamentale è stata la mostra Antropocene, vista al MAST.Auditorium di Bologna (maggio – dicembre 2019), perché ci ha proprio reso evidente quanto noi umani siamo vittime di un dispositivo che procede in modo autonomo. In parte lo stiamo manipolando, in parte lo abbiamo creato noi; a ogni modo ci siamo collocati al suo interno e agiamo secondo delle regole che generano dei risultati. Tali esiti, come rivela la mostra, non sono né positivi né negativi: sono e basta, accadono, sono dati di fatto. Sta a noi decidere se assecondare certe direzioni, pur sapendo di non averne il totale controllo e di essere noi stessi influenzati dal contesto. Sul piano filosofico, inoltre, il concetto di entropia ci dice che non possiamo prescindere da un risultato: una volta avvenuto il cambiamento non si può tornare indietro, ma soltanto proseguire. Tutti questi ragionamenti hanno alimentato la riflessione attorno alla nostra pratica artistica: abbiamo così iniziato a trattare lo spazio scenico come un micro-dispositivo in cui, come teatranti, agiamo liberi e al tempo stesso condizionati dal dispositivo stesso».
Queste fonti, ricerche e riflessioni come hanno contribuito, nel concreto, a ispirare e alimentare il lavoro scenico? Quali sono state le fasi del processo creativo?
Andrea: «Sempre a partire dalla mostra Antropocene, ci siamo lasciati suggestionare dalla visione dall’alto e dalla stratificazione che, dopo una serie di esperimenti, ci ha condotti prima a lavorare sulla relazione tra azione umana e materiali non puri, in primis la plastica; e poi sulla modularità, ricercando azioni ed elementi ripetibili. Abitando lo spazio teatrale, siamo partiti da ciò che il contesto offriva: il primo oggetto in serie immediatamente percepibile sono state le sedie della platea, che noi poi abbiamo deciso di ricreare sul palco».
Federica: «A questo però ci siamo arrivati per gradi. Inizialmente abbiamo semplicemente utilizzato l’oggetto “sedia” e soltanto in un secondo momento, posizionandone alcune nello spazio e ragionando sulla modularità, ci siamo resi conto che avevamo ricreato sul palco una platea, ritrovando in questa scenografia una chiave per restituire performativamente i nostri studi. In scena quindi ricreiamo una platea iper-reale, mentre gli spettatori sono su sedute sopraelevate, per proporre loro una visione dall’alto. L’intento è stato di porre prima il pubblico nella condizione di comprendere immediatamente in che luogo si trova; e poi far in modo che avvenga un processo di rispecchiamento e immedesimazione, quando si osservano gli attori seduti intenti a guardarsi attorno o a scrollare il telefono, in attesa che accada qualcosa. È così che avviene l’atto di realtà: non sei tu, ma quella è una platea, in scena ci sono delle persone sedute e tu le stai guardando. La questione dal particolare diviene generale: sul palco non sono propriamente io ma potrei esserlo, perciò quella cosa mi sta parlando. Arrivati alla modularità, abbiamo poi sviluppato l’azione scenica ragionando sulla stratificazione e il cambiamento, arrivando quindi a rompere l’ordine modulare: si genera così una rottura che modifica in modo irreversibile lo stato dello spazio. Come però per gli strati geologici, non si tratta di un atto di distruzione, ma di cambiamento, che può essere un bene o un male per qualcuno o per qualcosa, ma di fatto è un’evoluzione che non permette di tornare indietro, ma proseguirà il suo corso».
Andrea: «Questo ci fa riflettere sul fatto che agire nel presente significa muoversi nella direzione di qualcosa che si evolve, ma anche sulla responsabilità del singolo individuo che genera tante piccole modificazioni continue. Non esiste, in altre parole, un cambiamento astratto, improvviso, totalmente imprevedibile. Così avviene anche agendo sulla scena».
Entrando più nello specifico dell’azione performativa, in scena vediamo gli artisti che si muovono tra le sedie in serie suonando il proprio strumento. Quali sono i presupposti dietro all’agire dei performer e come avete lavorato con loro?
Federica: «Gli artisti in scena sono innanzitutto musicisti. Come regista non li ho voluti forzare ad essere quello che non sono, invitando loro ad agire naturalmente in relazione alla propria attitudine e al proprio strumento. In generale nei nostri lavori, parto dalle reali propensioni dei singoli performer e durante le prove lancio degli input, degli stimoli o delle domande, chiedendo loro di reagire, rispondere, restituire sensazioni. L’intento è quello di creare una situazione in cui i performer si sentano liberi dalla struttura ma al tempo stesso scomodi. Accade così un atto di fiducia: io chiedo loro di agire liberamente – ognuno con il proprio pattern di suoni, movimenti e azioni – ma al tempo stesso io impongo delle regole affinché alcune cose vadano in una direzione precisa.
Nello specifico di x-machine, inizialmente ho chiesto di agire nello spazio a partire dalla loro relazione con lo strumento, che è di per se stesso un dispositivo: ha permesso di far emergere una postura e un’attitudine dei singoli nei confronti dello spazio. Successivamente ho dato loro delle direzioni, ma piano piano queste son state smontate dalla necessità dei musicisti di trovare il proprio modo di essere in quel dispositivo. Jacopo (Giacomoni), per esempio, suona il sax a occhi chiusi: inevitabilmente si è scontrato per errore con una delle sedie della platea. Da questo incidente, si è generata la modificazione della platea, un atto con cui gli altri performer – per caratteri e attitudini diverse – si sono ritrovati loro malgrado a confrontarsi. Marco (Puzzello), una persona estremamente attenta, ha provato fastidio di fronte a quel piccolo atto di “violenza”. Inoltre, le due presenze maschili con due differenti strumenti a fiato – il sax suonato con attitudine alla chiusura fisica e la tromba in fiera apertura – hanno dato un esito interessante sul piano drammaturgico: essi si pongono spesso in contrasto tra di loro, quasi come se si scontrassero verbalmente. Federica (Furlani), invece, che suona la sua viola e ha un fare delicato, di fronte alle modificazioni e a quello scontro, si è posta in ascolto. Come diceva prima Andrea, x-machine è senz’altro uno spettacolo concettuale, ma alla base del lavoro c’è molto del reale e dell’umano».
C’è stata una precisa scelta degli strumenti oppure i musicisti sono stati selezionati per via di altri aspetti?
Andrea: «Il concept di questo progetto pone l’incognita “x”, per cui eravamo aperti a qualunque strumento, suono o input. Per l’esigenza di chiudere, il lavoro si è cristallizzato in questo modo. Ma lo consideriamo come lo strato base di x-machine, che ora non può più prescindere dai musicisti che abbiamo coinvolto, ma che vedrà altre evoluzioni e quindi nuove aperture. Con Marco, Jacopo e Federica ci siamo conosciuti in una masterclass sul rapporto tra teatro e suono alla Biennale di Venezia, perciò li abbiamo coinvolti anche per una certa affinità artistica, nonché per la loro personale attitudine al progetto stesso. Infatti, si tratta di un percorso che abbiamo costruito insieme, nel tempo, tra incontri e residenze».
x-machine è uno spettacolo privo di parola, tutto avviene attraverso l’azione e la musica. Come avete lavorato sul suono e qual è il grado di improvvisazione in scena? Ci sono una drammaturgia e una partitura scritte?
Federica: «Non c’è nulla di scritto, ma ci sono delle regole, dei punti a cui si deve per forza arrivare. Tuttavia tra essi ci si sposta liberamente, sia sul piano fisico che su quello sonoro. E questo è il potere dei musicisti, perché riescono a viaggiare in autonomia e poi ritrovarsi continuamente. Ogni prova è quindi diversa dall’altra, ma tutto avviene all’interno di una struttura ben precisa».
Andrea: «La partitura è di tipo contemporaneo, anche se nulla ci vieterebbe di scriverla. Di base si fa ogni volta la stessa cosa, ma c’è sempre una percentuale di variabilità. Tra i musicisti c’è un interplay, ovvero un punto di incontro da cui parte la struttura musicale, che ha valenza drammaturgia e sul quale arrivano a sintonizzarsi. Siamo però partiti dalle melodie che avevo chiesto loro di portare, ciascuno secondo determinate caratteristiche, consapevoli che durante le prove le avremmo scomposte, destrutturate e riassemblate. Dalle cellule che ne son derivate, ci siamo dati una tonalità di riferimento e abbiamo lavorato sulla decomposizione e stratificazione di queste cellule, con l’obiettivo di avere un arco che non è propriamente narrativo, ma è dell’azione, della scena e della musica. Alla fine, dunque, si arriva a una sintesi, cioè ci si posa su uno strato sotterraneo di quello che si è creato e si comincia a costruire qualcosa di nuovo che fino a quel momento non era stato sentito. Comincia così lo strato successivo».
Federica: «Collegando poi la musica all’azione, quel che si va a creare è una sorta di coreografia. Una volta che il dispositivo è stato azionato, si agisce in base a quel ritmo ed è impossibile non arrivare alla fine: nulla si ferma e quando accade in realtà abbiamo “attraversato un’era geologica”».
La musica permette forse anche di fare da ponte tra un teatro concettuale, ricco di un pensiero filosofico non immediato per tutti, e il pubblico. Cosa chiedete agli spettatori?
Federica: «Io vorrei ci fosse un atto reciproco di totale fiducia. Io quindi non chiedo nulla, ma tento di fare in modo che lo spettatore si senta dentro a una possibilità di libertà. Il pubblico per noi è l’acqua, è quella cosa per cui esistiamo; non siamo sul palco per indicargli una direzione, ma a dargli la possibilità di essere coinvolto, di essere insieme in uno spazio del reale. Negli spettacoli precedenti abbiamo sempre avuto attenzione per l’accadimento vero, ma agivamo sempre all’interno di temi molto chiari ed espressi, facendo capire in modo evidente quali fossero i nostri ragionamenti, da dove partivamo e quale fosse la nostra posizione. Questa cosa ora cerchiamo di perderla progressivamente, di partire da alcune questioni per poi astrarci».
Andrea: «Anche per questo x-machine non è da considerarsi un discorso sull’Antropocene o su Deleuze. È semplicemente un’esperienza che accade, che noi proponiamo di attraversare insieme. Il punto quindi del nostro discorso è diventato l’accadimento e riuscire a trovare il modo di comunicare con l’altro nella maniera più immediata possibile. Per uscire dalla rappresentazione ed essere e basta, abbiamo tentato con x-machine di fare un lavoro radicale, dimenticandoci il nostro tema. Si tratta ora di provare a liberarsi dall’obbligo di avere una narrazione, che non significa non ci sia una storia, ma questa è semplicemente un’azione che accade nel presente e nel reale. Una folgorazione in tal senso, è stato The ghost writer and the brokens hands break dell’artista fiamminga Mietwarlop, il cui foglio diceva soltanto “meduse elettriche”. Era una pièce fisica e musicale, da cui ne siamo usciti con la semplice sensazione che qualcosa fosse successo, ma non saremmo tuttora in grado di raccontarlo».
Liberarsi sempre più dalla rappresentazione e dalla narrazione, ma anche dalla scrittura e dal testo. Da dove nasce questa urgenza? È un tentativo di distaccarvi da un certo tipo di teatro in cui non vi riconoscete? Su quali tracciati si pone la vostra ricerca?
Federica: «Ci son voluti anni prima di acquisire una sorta di consapevolezza di quel che stavamo cercando: ormai abbiamo 10 anni di compagnia alle spalle. Di certo a influenzarci sono stati i nostri studi. Io vengo dalle arti visive, ho frequentato il corso di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna e in questo contesto ho approfondito il lavoro di artisti che, pur molto diversi tra loro, avevano in comune il tentativo di discostarsi da ciò che si intende comunemente per teatro. La necessità alla base del nostro agire è avere sempre un’urgenza in relazione al presente, riuscire ad abitare la scena come lo spazio del qui ed ora, che poi è ciò che è intrinsecamente il teatro. Questo comporta il fatto che i nostri spettacoli sono molto diversi tra loro, anche sul piano estetico, perché lo sviluppo e l’esito creativi dipendono dall’esigenze di un quel dato lavoro. Come si arriva a certe soluzioni non lo sappiamo mai a priori, le cose accadono o le facciamo accadere lungo il percorso. Non sentiamo quindi di avere propriamente un metodo, sebbene io parli spesso di “drammaturgia partecipata”; ma in verità ogni lavoro si sviluppa in modi diversi e ci piace anche contraddirci. Sulla questione della rappresentazione e narrazione, quindi, non la stiamo negando o rifuggendo, ma semplicemente non la consideriamo centrale o sacra: il testo e il racconto sono solo alcuni degli elementi con cui possiamo costruire uno spettacolo, ma possono anche non esserci o avere un ruolo di secondo piano».
Andrea: «Ovviamente siamo consapevoli di non star dicendo nulla di nuovo, ma è su questi tracciati che ci poniamo, perché in questi riconosciamo un senso del nostro fare artistico, troviamo stimolo alla nostra ricerca e tentiamo di trovare il nostro modo di calcare tali direzioni».
Federica: «Infatti il nostro allontanamento dalla drammaturgia scritta, non significa che da qui in avanti la bandiremo dai nostri lavori, anzi. Il prossimo spettacolo, Stracciatella e nocciola, parte proprio dalla parola. Tuttavia ci poniamo di fronte al testo con l’idea che questo non sia sacro, non detta alcuna regola, e lo stesso vale per tutti gli elementi della scena: ogni cosa si può modificare, destrutturare, distruggere. Crediamo sia necessario rompere dei meccanismi per entrarci dentro. Forse siamo tutti ancora troppo legati a un teatro “seduto”, comodo; noi vogliamo tentare di stare nella scomodità, una scomodità interessante, che permetta di aprire nuove strade di riflessione e di osservazione, anche da parte del pubblico».
Andrea: «Non avere un metodo e non fissare i nostri lavori su carta, non significa però improvvisazione. Quello che cerchiamo è sempre un rigore e una coerenza, anche estetica. Ma nel processo ci diamo un alto grado di libertà, poniamo delle regole e le rinneghiamo al tempo stesso».
Federica: «Il nostro metodo è proprio non avere una religione. È stimolante arrivare in sala disorientati, dicendo «e ora, dove andiamo insieme?» e vedere che qualcosa nonostante tutto accade. E di solito è sempre qualcosa di inaspettato».
Per anagrafica e per esperienze, siete parte di quella che si tende a definire la “nuova generazione teatrale”. Voi vi sentite parte di una generazione? Come vi posizionate in questo senso? Percepite percorsi comuni, estetiche?
Andrea: «Il concetto di generazione oggi credo sia molto difficile, perché secondo me comprende una serie di artisti molto diversi tra loro e un’anagrafica più ampia dell’etichetta “under30”, ovvero personalità che vanno dai 20 ai 40 anni. In questi termini, io la vedo una generazione. Tuttavia non vedo un’omogeneità e una condivisione di linguaggi ed estetiche, ma la scena è molto vivace: dalle compagnie indipendenti, fino a registi e autori. Negli ultimi anni credo ci sia stata un’apertura verso questa “nuova generazione” da parte delle istituzioni, penso fra tutte alla Biennale Teatro di Antonio Latella, che ha dato l’opportunità a molti registi e autori di emergere e anche di affermarsi, portandoli a lavorare con importanti teatri. Ma guardare solo ai contesti tradizionali non basta per intercettare le nuove voci: l’area delle compagnie indipendenti è vivacissima, ma resta spesso nel sottosuolo, nascosta».
Federica: «In Italia c’è tanto teatro indipendente, che meriterebbe molta più attenzione. Non so bene quale sia la difficoltà di emergere o quantomeno farsi conoscere. Il punto è provare a cercare nei luoghi giusti, spostarsi, capire che cosa accade fuori dai circuiti tradizionali. Per fortuna non è tutto istituzionalizzato c’è anche dell’altro. In fondo a guardare alla storia del teatro è spesso in questo “fuori” in questi “margini” che accade lo straordinario».
Quali sono le principali difficoltà che avete e state riscontrando nella relazione con il sistema teatrale in quanto compagnia indipendente emergente?
Andrea: «Sebbene, come dicevo, sentiamo un’apertura e una curiosità nei confronti dei “nuovi”, resta molto difficile stabilire un rapporto con i grandi teatri o con quelle realtà più istituzionali che potrebbero garantire continuità, distribuzione e una certa sicurezza. Al tempo stesso, l’attenzione è rivolta a un certo tipo di teatro e di artisti, quindi a essere accolti sono registi, autori e drammaturghi che, sebbene originali, hanno un’impronta più tradizionale. Stando fuori da certi circuiti, inoltre, la principale difficoltà è ottenere repliche e finanziamenti. Due forse sono i poli di questa generazione: i registi e gli autori che riescono a lavorare con i grandi teatri e le compagnie indipendenti. Ci sono chiaramente pro e contro sia da una parte che dall’altra…».
Per la ricerca, riuscire a collaborare con una grande istituzione o un teatro nazionale, è un vantaggio o un limite? Il vostro teatro come si relazione in questo senso?
Federica: «Nelle istituzioni inevitabilmente vieni incasellato, in parte la ricerca è limitata. Non è dovuto soltanto alle scelte di direzione artistica, il problema è a monte, è politico. Per quanto riguarda il nostro percorso, a noi piace stare nel sottosuolo, ci permette una libertà che non avremmo altrimenti, ci dà l’opportunità di essere disobbedienti. Tuttavia sarebbe una bugia dire che rifiutiamo il sistema teatrale: avere l’occasione di confrontarci con un teatro stabile sarebbe un modo per noi di capire alcune dinamiche e anche avere una possibilità economica maggiore ci aprirebbe a prospettive creative nuove. La tempesta perfetta sarebbe poter entrare nel sistema con la libertà della propria ricerca, in modo tale da portare avanti le proprie urgenze; avere un buon budget e pure la possibilità distributiva. Insomma, un po’ un’utopia. Al momento si tratta quindi di trovare il giusto equilibrio».
Si dice spesso che i “giovani” (che poi chi rientri in questa etichetta non è dato sapere) non vadano a teatro, anzi che ne siano totalmente disinteressati. Sentite esserci davvero un problema di pubblico?
Federica: «Secondo me è una comoda retorica. Il nostro sottosuolo è sempre pieno, vivo e popolato. Chiaro, abitiamo una città come Bologna, ma credo sia importante partire sempre dai luoghi: per noi avere la possibilità di abitare lo spazio del DAS è stata la svolta. Radicarsi in un posto, estremizzarlo e farlo diventare un fatto: è questo che genera una comunità di spettatori, un pubblico che vuole che lì certe cose accadano».
Andrea: «Stando alle istituzioni poi si è consolidata l’idea che per attirare i “giovani” a teatro ci sia bisogno di aperitivi con dj set. Se si frequentano invece festival o rassegne organizzate da persone appartenenti alla stessa fascia generazionale, la partecipazione è viva e attiva, senza la necessità di presentare l’esperienza del teatro come qualcosa d’altro. Forse vuol dire che alcune cose le devono gestire i “giovani”? Sarebbe anche un atto di responsabilità, sia da parte di chi apre a questa possibilità, sia da parte della generazione che accoglie questa sfida. Un altro aspetto da tenere in considerazione secondo me è che nei circuiti tradizionali c’è poca multidisciplinarità: il teatro comprende linguaggi, modi e forme diverse, con cui gli spettatori potrebbero confrontarsi, anche per prendere consapevolezza della propria attitudine al teatro, incontrare i propri gusti e interessi estetici».
L'autore
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Laureata in Dams e in Italianistica, si occupa di giornalismo e cura progetti di studio sul rapporto tra audio, radio e teatro. Ha collaborato con Radio Città Fujiko ed è audio editor per radio e associazioni. Nel 2018 ha vinto il bando di ricerca Biennale ASAC e nel 2020 ha co-curato il radio-documentario "La scena invisibile - Franco Visioli" per RSI.