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(Kurt Van der Elst)
(Kurt Van der Elst)

Il Sublime intenzionale: “Het Land Nod” di FC Bergman

di Giulia Penta

«Le nostre performance sono bestie selvagge che hanno bisogno di essere domate. […] un animale che vuole raccontare la propria storia, che ci spinge lontano e sempre più in profondità nella sua pancia». I membri del collettivo belga FC Bergman uniscono la voluttuosità e la grandiosità delle loro smisurate produzioni alla fragilità umana. L’esperienza del sublime – il delightful horror di Edmund Burke – è generata dalla dismisura, dalla vertigine del percepirsi impotenti di fronte all’incommensurabile distanza fra il linguaggio e le cose, fra il simbolo e la sua tangibilità.

Fatta eccezione per Van den vos (About Reynard the Fox, 2013) e l’opera Les Pêcheurs de perles (2018), i lavori di FC Bergman non prendono forma a partire da un testo, ma da un pensiero drammaturgico poroso e imprevedibile. L’idea scatenante è quasi sempre un’immagine, ma sono i luoghi a definire le coordinate dei loro spettacoli. Spazi smisurati dove i personaggi tentano di instaurare una relazione tra i loro corpi e i limiti di ciò che li circonda. Nella stessa condizione di smarrimento si trova il pubblico, inghiottito dalla scenografia in un approccio che va al di là degli stessi confini teatrali. Di ambiziose, scenografiche installazioni è pieno il paesaggio dell’arte visiva contemporanea. Ne fa una breve ricognizione sulle pagine de La Lettura di domenica 23 luglio Vincenzo Trione, passando per la Land-art, Anselm Kiefer, Ólafur Elíasson fino al “Sublime inintenzionale” della monumentale versione della Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto annichilita dalle fiamme a Napoli. Tra i maestri di quell’Arte Povera che oggi di povero ha solo il ricordo delle origini (nel 2011 la sua opera Muro aveva raggiunto da Sotheby’s i 609.540 euro) Pistoletto ha forse perso di vista l’etica del “teatro povero” di Grotowski, quando, ritrovata in Piazza Municipio una crinolina al posto della sua Venere Callipigia, ha accolto il gesto come segno del nostro tempo guerrafondaio, ma a patto che venisse ricostruita. Un’opera instaura una relazione con il pubblico quando l’artista lo invita e lo autorizza all’azione, accettandone le conseguenze – una sfida quasi finita male per Marina Abramović che a Napoli nel 1974 allestì la performance Rhythm 0 alla Galleria Studio Morra. Quando invece a distruggerla è un giovane senzatetto, si riflette meno in termini di esperimento sociologico e si riduce l’azione a “un atto di vandalismo e di violenza”.

Cosa c’entra tutto questo con la riproduzione in scala naturale di una tela di Pieter Paul Rubens da parte del collettivo belga FC Bergman per lo spettacolo Het Land Nod? Forse che la potenza del simbolo non dipende tanto dalla superficie che è in grado di occupare o dalla sua moderna conquista dell’ubiquità, per dirla con Valéry, ma dalle azioni che invoca a gran voce nel cuore dell’uomo?

La storia universale, quella scritta e quella tramandata, non ci è spesso di nessun aiuto; l’intuizione umana, invece, ci porta spesso fuori strada, ma comunque ci guida, non ci abbandona.
(Franz Kafka, Quaderni in ottavo)



Due ladroni, uno a destra e l’altro a sinistra, esibiscono i loro corpi ritorti dalle fattezze michelangiolesche davanti ai visitatori della fedele riproduzione veneziana del KMSKA (il Museo Reale di Belle Arti di Anversa). Gesù è in mezzo a loro sul Golgota. Chi lo piange non rivolge a lui il suo viso, al contrario di chi seppur con l’incertezza della fede e la fiducia nel sinedrio lo trafigge, liberandolo dall’agonia. Barabba è libero, così ha voluto il popolo, così ha ordinato Pilato. È la storia immutabile dei Vangeli canonici, dove il sicario zelota non torna ai piedi della croce a domandarsi il perché del suo destino di salvato, né il quinto procuratore della Giudea si inginocchia alla paranoia dell’aver giustiziato colui che l’aveva guarito dalla domanda della Verità.

(Kurt Van der Elst)

Anche sulla laguna più fragile d’Italia, l’iconografia resiste al passare del tempo attraversando l’indifferenza dell’uomo ai suoi richiami. L’immaginario del secolo breve e della sua fase successiva, si è fatto inquieto e privo di speranze. Servono nuove parabole per accendere la luce. Era quasi mezzogiorno, e si fece buio su tutta la terra fin verso le tre essendosi eclissato il sole, e il velo del tempio si squarciò in due (Vangelo di Luca – Cap 23,1-56). «In che rapporti sei con Dio?» – «In nessun rapporto, temo». È una delle prime battute del film Sacrificio (1986)di Andrej Tarkovskij, girato in Svezia sotto l’influenza di Ingmar Bergman dopo che i rapporti fra Tarkovskij e le autorità sovietiche lo avevano costretto all’esilio. La tragica predestinazione del destino umano e l’imperscrutabilità del mistero divino sono una costante nei lavori della compagnia fiamminga FC Bergman che proprio dal regista della Trilogia del silenzio trae la tensione alla rappresentazione della fragile condizione dell’uomo. Vincitori del Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2023, Stef Aerts, Joé Agemans, Thomas Verstraeten e Marie Vinck hanno presentato qui, a giugno, in prima nazionale (dopo il mancato debutto a VIE Festival 2020 a causa del lockdown) lo spettacolo Het Land Nod. Realizzato nel 2015 come lavoro site-specific al Park Spoor Noord di Anversa, e non all’interno della Sala Rubens del KMSKA come avrebbero voluto gli artisti (riaperto al pubblico nel 2022 dopo 11 anni di lavori per ristrutturazione) lo spettacolo è stato riallestito per la Biennale in un hangar del porto industriale di Marghera. La sala dell’edificio neoclassico ospitante la più grande collezione d’arte delle Fiandre è qui ricostruita fedelmente, nel momento del suo disallestimento. Mentre il pubblico prende il proprio posto, il parquet a lisca di pesce viene levigato da un’idropulitrice pigramente spinta da un addetto, il gallerista e il suo staff si premurano di imballare le ultime tele avvolgendole con i consueti strati di pluriball. Il Coup de lance (429 cm x 311 cm)dipinto da Pieter Paul Rubens tra il 1619 e il 1620 e qui ricostruito a grandezza naturale, è l’unico quadro a non essere ancora stato preparato al trasferimento. È troppo grande per passare indenne lo stipite della grande porta in legno massiccio impreziosita da capitelli, cimase e cornici. Mutilare il Cristo con una sega a mano magari eliminando la scomoda Maddalena «dalla quale erano usciti sette demoni» o dinamitare lo spazio?

Da questa assurdità ha inizio l’azione dei nuovi personaggi che abitano la biblica Terra di Nod (Genesi, 4:16) del titolo, il mitico luogo d’esilio di Caino dopo l’uccisione del fratello Abele. In ebraico “nod” è la radice del verbo “vagare”, ed erranti sono il curatore del museo, i suoi assistenti, i custodi con i loro walkie-talkie comunicanti tautologie, un uomo che spogliatosi dei suoi abiti siede solo nella grande sala di fronte al Re nudo. Una donna sviene nel luogo della contemplazione, e una coppia di turisti giapponesi si fotografa con la stessa immutabile espressione ad ogni scatto. Quello a cui assistiamo è una sequenza di vignettes e tableaux vivants che nell’arco temporale scandito dalla personale lettura vivaldiana The Four Seasons del compositore britannico Max Richter, oscillano tra la comicità del cinema muto di Charlie Chaplin e Buster Keaton, la leggerezza del teatro-danza di Pina Bausch e soluzioni tecniche e drammaturgiche che trasformano lo spazio in un raffinato sistema di scatole cinesi. La Storia occidentale, con i suoi riferimenti culturali (la celebre scena della corsa nel Louvre di Bande à part di Godard poi ripresa da Bertolucci in The Dreamers) e le sue tragedie, scorre di fronte a un Dio afono all’interno di una finzione spaziale che ci fa (anche) riflettere sul senso odierno di “Museum” inteso non più solo come luogo di raccolta dove oggetti naturali e artificiali vengono esposti allo sguardo passivo del pubblico, ma dove le opere di maestri del passato dialogano con gli artefatti di artisti contemporanei in un esercizio continuo di traduzione e ri-traduzione dei nostri miti.

Il contenitore viene progressivamente distrutto, mentre l’opera d’arte rimane intatta, illuminata da contrasti di luce che ci ricordano il debito di Rubens nei confronti di Caravaggio e Tiziano. La sala del Museo piomba nell’oscurità dove vibrano colpi funebri. Crolla il soffitto, nascono macerie. Come all’udire di un sibilo, i corpi si stendono proni in attesa del boato dell’esplosione. Prima che il ricordo raggiunga le “armi di rappresaglia” della Seconda Guerra Mondiale, sono le bombe che continuano a cadere, da più di 500 giorni, a 1.627 chilometri dall’Italia a risuonare nelle nostre menti. Anche il turismo fa i conti con la guerra, e mentre Summertime nella versione di Nina Simone lambisce le ombre nella sala, un mosaico di teli da spiaggia ricopre quasi interamente il pavimento del museo-capannone. Goggles e ampi movimenti nell’aria simulano una nuotata nell’etere. In pochi secondi, una corrente di risacca generata con un sistema di tiranti, trascina, facendo scomparire in un pertugio nella parete di fondo, il temporaneo pavimento-bagnasciuga di cotone variopinto, e insieme ad esso, i nostri bagnanti. Solo un telo rimane al centro della scena: ora è una piccola tenda da campeggio, unico rifugio per proteggersi dalla distruzione. Due uomini vi si stringono, elaborano strategie di sopravvivenza cercando di mascherare le proprie vulnerabilità e la scomodità della crisi, ridicolizzate attraverso la sproporzione tra la catastrofe e gli inadeguati e puerili mezzi per preservare la specie: un minuscolo fuoco di fronte a una tenda ricavata da un pezzo di stoffa quadrato. Il Figlio di Dio non è sceso dalla croce, nessuno l’ha deposto nel sepolcro, eppure sarà l’impronta del suo corpo, tenue come quella del suo viso sulla Sindone, a rimanere impressa sulla parete senza tela e a fare da commensale al gallerista nella semplicità di un’ultima cena. A illuminarli, la luce fioca di una candela che balla sulle note del brano Of the Nature of Daylight contenuto nell’album The Blue Notebooks di Max Richter.

(Kurt Van der Elst)

Già nel 2011 il collettivo belga aveva scelto la Storia Sacra come catalizzatore simbolico per 300 el x 50 el x 30 el che rende esplicite le dimensioni dell’Arca di Noè mentre mette in scena la paura dell’uomo per un’imminente alluvione. Del 2021 The Sheep Song, favola postmoderna che inchioda e ribalta la hybris umana parodiando un’altra parabola biblica, quella del Buon Pastore e della pecora smarrita. Se da una parte è vero che l’elemento distintivo di FC Bergman è la proporzione neoclassica, in termini di drammaturgia, tra poesia e ironica insolenza, dall’altro è il policentrismo, la grandiosità e il trompe-l’œil barocchi delle loro grandiose scenografie. Ma è la distruzione progressiva di quest’ultima, insieme con il proseguire frammentario di una narrazione che sembra evocare il duplice desiderio dell’uomo del vivere pienamente la sua verità e l’impotenza di fronte agli accadimenti della Storia, a guidare il ritmo dello spettacolo. Spettacolo che ci riporta alla nascita del senso del sacro, quando di fronte al mondo soverchiante, smarriti, ci siamo stretti intorno a un fuoco – foss’anche il fuoco di un’opera d’arte data alle fiamme.


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