Chi è Pinocchio se non il burattino di legno per eccellenza nell’immaginario popolare? La sua cornice ideale non può che essere il teatro, l’aveva capito anche il furbo Mangiafuoco: Pinocchio era la sua gallina dalle uova d’oro. Il mero fine di lucro del burattinaio inventato da Collodi si scontra invece con una scelta diversa operata da Babilonia teatri, cioè rendere la scena mezzo di comunicazione utile alla comprensione della realtà, rivolgendosi a un pubblico popolare che sia in grado di leggere ciò che vede, anche se a livelli diversi. Enrico Castellani e Valeria Raimondi non muovono i fili di marionette per attrarre la platea ma lavorano insieme a tre attori dell’associazione “Gli Amici di Luca”, non-attori come ama definirli Castellani, volontari con esiti di coma che si dedicano al teatro sfruttandone le qualità terapeutiche. Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli di Pinocchio conservano rigidità fisiche e nervose, conseguenza nefasta di un attimo beffardo del loro passato nel quale hanno fatto i conti con il buio dello stato di incoscienza. Le loro storie s’intrecciano con quelle del burattino più famoso grazie alle regia di Castellani.
Il corridoio del reparto Casa dei Risvegli dell’ospedale Bellaria si fa scena, e accoglie uno alla volta i corpi seminudi dei protagonisti. Il loro incedere è lento, faticoso, i loro movimenti sono farraginosi, trascinano con fatica il proprio vissuto e lo offrono al pubblico. Si dispongono uno vicino all’altro, in orizzontale, con lo sguardo rivolto al piano superiore del reparto, ove staziona il regista Castellani. Il pubblico non lo vede ma ascolta la sua voce che comunica con i tre protagonisti. Una delle immagini possibili che lo spettatore contempla è quella di tre uomini scampati alla morte, in attesa di sapere da qualcuno o qualcosa che sovrintende l’umana comprensione quando e come sarà possibile tornare alla vita. Il regista chiede loro di presentarsi, scandisce i loro cognomi ogni qualvolta li chiama in causa, li invita a raccontare perché somiglino più a maschere che a uomini e, come da copione, essi obbediscono, sono abituati ormai ai perimetri, ai paletti, ai “non posso”, “non posso più”.
Ferrarini, a differenza degli altri, indossa delle bretelle di sicurezza simili a quelle utilizzate dagli alpinisti. È posizionato nel mezzo tra Facchini e Sielli, dei tre è sicuramente quello che ha riportato le disabilità maggiori, ma al contempo è anche quello che più degli altri mostra il proprio desiderio di libertà, di movimento, è colui che non resiste alla rigidità imposta, che odia il copione di Castellani, spesso volutamente non lo rispetta, si serve dell’ironia per ribaltarlo e andare a braccio, mostra la dinamicità che la sua mente mantiene a dispetto del corpo. Castellani, da buon padre (eterno) dello spettacolo, detta i sentieri entro i quali muoversi ma allo stesso tempo offre diverse opportunità agli attori di divagare, di dare sfogo alla propria immaginazione, con forme nuove, personali, non perdendo mai di vista quel Pinocchio che sta sullo sfondo, seduto alla loro sinistra, interpretato da Luca Scotton. Tutto deve necessariamente tornare al suo lungo naso, e alla sua favola dal lieto fine, orizzonte difficile da vedere che pur si cerca di mettere a fuoco, come quando Sielli racconta della lucina in mezzo al buio, unico e indelebile ricordo dei giorni passati in sospeso tra la vita e la morte, tra l’inizio e la fine. Il risveglio si è trasformato in un principio di vita nuova, Ferrarini lo descrive come una macchina nera, priva di qualunque accessorio, una carrozzeria vuota alla quale aggiungere giorno per giorno i pezzi mancanti. Prima di tutto gli specchietti retrovisori, per guardarsi indietro e capire se alle spalle del dramma esistesse un paese dei balocchi che il fato ha deciso di interrompere bruscamente. In fondo è in quel non-luogo che Pinocchio ha smarrito il grillo parlante e, trasformandosi in asino, ha iniziato a fare i conti con le responsabilità della vita, con la maschera quotidiana che spesso pesa e limita i movimenti più naturali. La fata turchina ha poi premiato il burattino trasformandolo in bambino vero.
Facchini ha già una fata ma non gli dispiacerebbe averne due, Sielli la rincorre da una vita, lo faceva in moto prima del coma, lo fa oggi con la riabilitazione, Ferrarini la vuole bionda, buona e gentile.
Diverse musiche accompagnano i loro racconti, i loro desideri, tra queste c’è Patience dei Guns N’ Roses, ad indicare la via della speranza non solo per quel corpo che non è più lo stesso, affaticato e lento nel suo danzare, nel suo lottare, ma anche per la mente, più libera di contraddire il copione, più autonoma nell’assecondare la fantasia. Una ricerca determinata dell’arcobaleno: se Patience se non avrà tutti i colori, l’importante sarà comunque tentare di non guardarlo in bianco e nero, come quando la luce del sonno di Sielli era così lontana da perdersi nel buio della fine.
La danza scatenata che anima il finale è un inno al ritmo, alla lotta, alla scoperta: Scotton aggancia le bretelle di Ferrarini a una fune per realizzare uno dei tanti sogni del protagonista, volare senza ali, prova a tirarlo su proprio come si farebbe con un burattino, ma non ci riesce. Ferrarini non è deluso dal fallimento del corpo, è al contrario felice del tentativo della mente, quella sì in grado di raggiungere qualunque latitudine senza bisogno di bretelle, senza bisogno delle ali, senza bisogno dell’odiato copione.
di Davide Di Lascio
Spettacolo visto in anteprima il 7 ottobre 2012 alla Casa dei Risvegli Luca De Nigris, in occasione della giornata nazionale dei risvegli per la ricerca sul coma. Anteprima teatrale: 23 novembre 2012, Teatro al Parco, Parma. Debutto: 8 e 9 dicembre, Teatro Storchi, Modena.
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.