Sempre più diffuso negli ultimi anni, il reality trend raggiunge il teatro in varie forme. Se in senso stretto possiamo individuare con questo termine la tendenza, sempre più diffusa, ad aprire le porte della scena ad attori non professionisti, interpreti del ruolo che rivestono nella vita reale (come Black Tie dei Rimini Protokoll), ampliando la prospettiva è possibile rendersi conto di quanto siano vari e continui gli scivolamenti tra piano del reale e del finzionale nell’elaborazione artistica contemporanea.
Un primo concetto da tenere in considerazione nel momento in cui ci si avvicina a questa tematica è sicuramente quello di “autofinzione”. Con questo termine dai confini incerti si designa la preminenza della componente autobiografica in un filone di opere (letterarie, teatrali, artistiche) contemporanee, intesa come rielaborazione del disorientamento causato dalla compresenza di livelli di realtà in un periodo ipertecnologico come quello in cui stiamo vivendo. Secondo Carlo Mazza Galanti, infatti, un aspetto fondamentale di questa tendenza è la cosiddetta “indecidibilità” che non permette di distinguere in maniera netta il piano finzionale e reale all’interno di un’opera. Proprio nella capacità di problematizzare a livello estetico e teorico questa mancanza di confine netto risiede, secondo l’autore, la possibilità di trasformare la semplice adesione allo stato delle cose in un risultato artistico capace di approfondire gli interrogativi che legano la soggettività ad una realtà (o a delle realtà) contemporanea fumosa e indefinibile.
Per evitare di cadere in riduzioni semplicistiche è necessario precisare che, qualsiasi definizione di autobiografia postfreudiana non può prescindere dalla considerazione del linguaggio come struttura capace di rivelare aspetti inconsci. In altri termini, nessun’opera con rimandi biografici è da considerare come trasposizione trasparente di fatti recuperati attraverso la memoria. Quest’ultima inoltre, trova il suo punto di partenza nel presente, perciò ogni racconto del passato si configura in realtà come una rilettura di elementi, funzionale e direttamente collegata alle circostanze in cui l’io narrante ripropone un se stesso in una narrazione, facendogli assumere il ruolo di personaggio.
Inoltre, anche se è vero che la tendenza autofabulativa accompagna la letteratura ed il teatro fino dalle sue origini, è nell’epoca contemporanea che l’ibridismo tra reale e finzionale ha raggiunto una indecidibilità tale da essere considerato una problematica (nonostante gli elementi biografici, nessuno mette in discussione che la Divina Commedia sia un’opera finzionale). Nell’età postmoderna, infatti, potremmo individuare nell’autofiction lo spazio in cui il soggetto, arriva, attraverso la parola, a manipolare la propria identità in maniera creativa e cosciente, portando alla luce le dinamiche che la legano alla realtà.
Nell’ambito strettamente teatrale, è possibile parlare di “Teatro Riflessivo”, come insieme di esperienze che creano drammaturgie a partire da diverse manifestazioni del reale, intrecciando realtà sociale, drammatica e teatrale. L’uso di testimonianze, dati e documenti si interseca con i personaggi e le situazioni sceniche, così come a livello di interazioni tra pubblico, attori, registi e drammaturghi. Il teatro, come arte della relazione per eccellenza, diventa uno dei luoghi privilegiati per l’esplorazione e la dilatazione dei confini fluidi tra reale e finzionale. La compresenza dei due piani, non si dà, tuttavia, solo in termini di consonanza tra io biografico ed io presente nell’opera. Forse, anche la dissonanza consapevole tra le soggettività potrebbe essere considerata una modalità di ridefinizione ed approfondimento dell’identità attraverso la rappresentazione. La lontananza cosciente tra i due (o più) io, quello reale e quello scenico, potrebbe essere vista come un’altra faccia del reality trend, nel momento in cui la negazione di un soggetto biografico arriva ad essere il punto di partenza per un ampliamento dei confini dello stesso, attraverso la problematizzazione del legame con la realtà.
Emma Pavan
Tra realtà e negazione: un viaggio nella stagione teatrale bolognese
Molti gli spettacoli, nella stagione teatrale appena conclusasi, che si rifanno più o meno dichiaratamente alla corrente del reality trend. Primo fra tutti Granma. Metales de Cuba dei Rimini Protokoll, compagnia svizzera che dal 2000, il suo anno di fondazione, porta in scena attori non professionisti con le loro reali testimonianze e biografie. Sul palco dell’Arena del Sole quattro attori non professionisti, due ragazzi e due ragazze, ripercorrono la storia della rivoluzione cubana intrecciandola alla vita dei propri nonni: ministri, piloti, musicisti, tutti inevitabilmente legati, nel bene nel male, alle vicende storiche e a quell’utopia socialista di una Cuba mitizzata che oggi sembra essersi persa.
Rimanendo in un contesto internazionale, grande spazio al teatro cosiddetto “riflessivo” è stato dato nell’ambito delle rassegne Atlas of Transitions e VIE Festival. Ricordiamo, nel primo caso, lo spettacolo Samedi Détente di Dorothée Munyaneza, andato in scena a Teatri di Vita: la regista e attrice ruandese, residente in Francia, narra in scena il genocidio avvenuto nel 1994 in Ruanda attraverso la propria testimonianza, alternando al racconto di questi tragici eventi momenti puramente performativi e letture di dati e documenti storici. Ospitato sul palco dell’Arena del Sole nell’ambito di VIE, I am Europe di Falk Richter s’interroga sul concetto di identità tramite le parole e le azioni di un gruppo di giovani attori provenienti da diversi paesi europei. I nove performer si presentano in scena con il proprio nome, la propria lingua, la propria storia.
A presentarsi con il proprio nome e la propria storia – addirittura, il proprio codice fiscale – sono anche Nicola Borghesi e Paola Aiello della compagnia Kepler-452, giovane e fruttuosa protagonista della scena teatrale bolognese e nazionale. F. Perdere le cose, presentato in anteprima nazionale nella Sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole, segue dopo un anno l’acclamato Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso, primo spettacolo della compagnia prodotto da ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione. Se ne Il giardino dei ciliegi i protagonisti della scena erano Annalisa e Giuliano Bianchi, attori non professionisti, marito e moglie sfrattati improvvisamente dalla loro casa concessa in comodato d’uso dal Comune di Bologna, in F. Perdere le cose l’assenza del “vero” protagonista, un immigrato senza tetto con problemi psichiatrici, apre la strada a nuove e originali riflessioni e invenzioni drammaturgiche. Non è solo la storia di F. che Borghesi e Aiello si propongono di raccontare sulla scena, quanto il loro personale rapporto con quest’uomo inafferrabile e impenetrabile e la ricerca di una risposta alla domanda: come si porta in scena un assente?
Ma come è vero che il reality trend è una tendenza sempre più diffusa nel teatro europeo, è anche vero che sempre più registi e compagnie si orientano nella direzione diametralmente opposta: un esempio tra tutti è rappresentato dal lavoro di Armando Punzo all’interno del carcere di Volterra con la Compagnia della Fortezza, a oggi la più importante compagnia di attori-detenuti in Italia.
“Creare buchi nella realtà” è diventata, da più di dieci anni, la linea guida di tutto il lavoro della compagnia: non l’affermazione di se stessi all’interno della finzione scenica ma piuttosto l’allontanamento dal sé, dal contesto carcerario e più in generale la negazione della realtà data come dato assoluto e immutabile. Teatro non come semplice costruzione di uno spettacolo, quindi, ma come creazione di nuove e diverse realtà, aprendo così alla possibilità di sporgersi fuori da noi, fuori dai costrutti sociali e dalla stessa esistenza umana, nella ricerca di qualcosa di diverso, di nuovo e fino ad allora mai immaginato.
Abbiamo ritrovato questi temi nel nuovo lavoro della compagnia, Beatitudo, ospitato dall’Arena del Sole durante la stagione appena conclusa. Partendo dai testi di Borges, autore che forse più di ogni altro ingaggia una personale lotta contro la realtà, e dalla velleitaria volontà di creare uno spettacolo sulla felicità, è nata tra le mura del carcere di Volterra un’opera astratta, immateriale, lieve come le parole che il regista Armando Punzo e gli attori hanno per mesi cercato nella vasta opera letteraria dello scrittore argentino – non a caso, il primo studio dello spettacolo realizzato nel 2017 s’intitolava Le parole lievi – Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato. Non solo gli attori in scena non interpretano il ruolo che rivestono nella vita quotidiana ma la ricerca procede verso terre inesplorate, alla negazione dell’identità di carcerati segue una vera e propria negazione della natura umana. L’acqua, elemento scenografico principale che dal campino del carcere al palco dell’Arena del Sole si è trasformato in vapore, nega la concretezza dei corpi in scena e rimanda all’idea di rinascita. Perché forse una rinascita è possibile, forse guardando attraverso i “buchi nella realtà” c’è ancora qualcosa da scoprire.
Valeria Venturelli
Paradiso perduto di César Brie, un gioco tra realtà e finzione
Uno spazio vuoto, un luogo, l’Oratorio San Filippo Neri, rimodellato e trasformato per l’occasione, tanta gente che affolla la sala e ne attutisce l’altezza, venti ragazzi che lentamente si impadroniscono dello spazio con i loro corpi e le loro parole, tanti colori. Tutto appare, sin dal primo istante, semplice e genuino. Ognuno di loro ha in mano un palloncino colorato che sarà sgonfiato di lì a poco, come se l’aria fuoriuscita da quella fessura rappresentasse un sospiro prima di iniziare, capace di far acquisire all’attore/soggetto coscienza di sé, pronunciando il proprio nome. Tutto segue uno spartito armonico, i corpi si intrecciano e compongono quadri sempre differenti. C’è un ritmo che ondeggia restando sempre costante. In fila indiana, a scacchiera, distese, immobili, in movimento le figure occupano lo spazio in modo armonioso ed equilibrato. Parole e corpi si compenetrano. In prima persona, i racconti degli attori compongono immagini di vita interiore. Le prime volte, gli imbarazzi, i drammi, le relazioni trovano spazio in quel rettangolo. E tu sei lì che osservi e in alcuni momenti sembra che, nonostante l’io sempre presente, stiano parlando di te, proprio di quella particolare emozione di quella situazione lì e, anche senza volerlo, ti senti coinvolta.
Il principio di indecidibilità del quale si è discusso, agisce benissimo in Paradiso perduto, portato in scena dagli allievi del terzo anno dell’accademia di teatro “Alessandra Galante Garrone” di Bologna, lo scorso 2 Aprile, con la regia di César Brie. Per tutto lo spettacolo ti chiedi se a parlare sia l’attore in quanto soggetto o un personaggio creato che ha imparato un copione. Qual è il limite tra la finzione e la realtà? Dove finisce la persona e inizia l’attore?
Questi dubbi caricano di un’energia ancora più potente lo spettacolo e vengono sciolti solo in seguito parlando con alcuni degli attori.
Per questa restituzione, gli allievi che hanno avuto l’occasione di lavorare con César Brie hanno realmente recitato una parte, lo spettacolo era già costruito. Il compito è stato quello di cucire quelle storie su loro stessi. Curioso appare il fatto che lo spettacolo, nato dai vissuti personali di alcuni ragazzi argentini, si adattasse benissimo al gruppo degli attori italiani,come a voler sottolineare una certa continuità tra le vite degli esseri umani nonostante oceani e chilometri li dividano. Ma il lavoro che Brie ha compiuto in sala prove è stato molto più profondo. Durante le settimane trascorse con il regista argentino, gli allievi hanno peculiarmente giocato con i loro vissuti personali. Nella sala prove ogni attore, partendo dal corpo, dal gesto ha lanciato in una griglia ideale ricordi, racconti, piccoli traumi che ognuno porta dentro di sé. Con queste storie private, intime è stata costruita la drammaturgia di quello che è divenuto uno spettacolo che, nella sua forma definitiva, è riuscito a trascendere le singolarità degli attori, a distaccarsi dall’elemento meramente biografico e personale ed elevarsi all’universale. L’attore, in tale procedimento, nonostante parli di sé nel momento della restituzione non è solo concentrato su se stesso, in un atto di liberazione e catarsi personale ma è in relazione con il pubblico. Il suo io si nutre di una dimensione teatrale, della finzione che viene creata. Quindi così come l’io si è dato apertamente allo stesso modo deve nascondersi e ciò che l’attore deve fare non è favorire l’immedesimazione dello spettatore ma il suo riconoscimento. Non penso che ci sia stato qualche spettatore che non abbia avuto, almeno per un istante, il volto rigato dalle lacrime. Le immagini avevano la capacità di trasportarti in una dimensione atemporale e aspaziale.
Perché tale gioco tra finzione e realtà funziona perfettamente in questa situazione? Come mai ascoltando racconti in prima persona non ti appare mai di star semplicemente udendo la confessione e lo sfogo di qualcuno?
La dimensione di favola è fondamentale. È necessario riuscire a transitare dal ricordo al teatro, il solo che è capace di creare la magia. L’io che rimbomba continuamente può in questo modo trasformarsi in un noi. Sarà stata la semplicità che non è mai sfociata nel banale, saranno state la freschezza e l’entusiasmo degli attori unita alla poesia di César che hanno saputo creare la magia. Se il rischio del reality trend è quello di cadere nel puro e semplice racconto di una situazione personale in forma orale, quando l’io del performer in questione riesce a parlare senza violare il suo spazio e quello dello spettatore allora siamo ancora nella bolla della favola che è capace di parlare alle orecchie, alla pancia e al cuore di chiunque.
Marcella Pagliarulo
]]>L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.