È venerdì sera. Come quasi tutti i venerdì sera sto per andare a vedere uno spettacolo teatrale. Pochi secondi e sono già arrivata. No, non mi sono trasferita in via Indipendenza, gli affitti sono ancora molto costosi in centro a Bologna, e no, non è ancora stato “inventato” il teletrasporto, e anche se lo fosse non ci servirebbe, perché dobbiamo #restareacasa. E allora io a casa ci porto il teatro. O meglio, uno pseudo-teatro, la forma oggi possibile, quello in streaming. Potrei fare il gesto eroico di indossare la giacca nera per il mio consueto appuntamento romantico, ma non lo farò: inutile illudersi di ricreare quello che solo il teatro ti può dare.
Sono sola e sento di star in qualche modo profanando il tempio sacro della recitazione, infrangendo la regola per la quale uno spattacolo può essere messo in scena qualora il pubblico sia costituito dallo stesso numero di attori più uno. Questo ad indicare l’idea di comunità che è alla base del teatro. Il video, certo, raggiungerebbe un numero potenzialmente infinito di spettatori, ma al di là dello schermo ce n’è tendenzialmente solo uno. E questo uno ha il potere di rivedere una, due, innumerevoli volte lo spettacolo. Ma nella ripetizione meccanica c’è qualcosa di contrario al flusso vitale della scena: il teatro non è “sempre”, «il teatro è vivere il presente. È solo lì e non c’è modo di rivederlo, a differenza dello streaming di oggi. Ti ricorda che le cose finiscono e ciò che conta è che vivi quell’istante». Queste parole, pronunciate dal regista Massimiliano Civica durante uno degli ultimi incontri all’Arena del Sole, mi erano sembrate premonitrici: la morte del teatro, sovrastato, anzi inglobato, da forme di rappresentazione più immediata. Una profezia diventata troppo presto realtà: la mia realtà che si incontra con quella degli anni ’80, più precisamente dell’anno 1985, quando, in Germania, venne filmato per la prima volta Café Müller.
Café Müller è uno degli spettacoli più famosi della coreografa tedesca Pina Bausch, illustre esponente se non inventrice della corrente del Tanztheater (teatrodanza).
Sebbene la macchina da presa indirizzi il mio sguardo, riesco a ricostruire una visione complessiva della scenografia: decine di sedie sparse per tutto il palco, nel fondale una porta a vetri girevole, a destra e a sinistra altre due porte per l’entrata e l’uscita dei sei performers. Mentre lo guardo sono sola, come tanti italiani questa sera, ma mi rendo conto che nello spettacolo viene rappresentata una solitudine più grande di quella che stiamo vivendo: la solitudine dell’umanità, al di là di ogni spazio e tempo, la solitudine universale. È una donna in scena, Pina Bausch stessa, a portarsi addosso questo peso: cammina tenendo avanti le braccia, a occhi chiusi, cercando di muoversi in un mondo che la ostacola, che le toglie spazio per danzare liberamente, perché è un mondo che non sopporta il vuoto e deve riempirlo per forza con qualcosa, con qualsiasi cosa, anche con delle inutili sedie, come in questo caso.
Ecco, noi siamo così. Ora che siamo costretti in casa ce ne rendiamo conto: dobbiamo sempre “occupare” il nostro tempo, invece di viverlo. Lo occupiamo con delle dirette Instagram che nessuno seguirà, con delle letture online che pochi apprezzeranno davvero, con delle insulse catene social, o diventando improvvisamente esperti di arte culinaria. Perché qualcuno non propone “l’arte del non fare”? Forse perché ascoltare se stessi fa paura. Ma Café Müller ci ricorda che solo togliendo quelle sedie abbiamo spazio per muoverci liberi. Liberi come l’altra ballerina in scena, Malou, alla quale un uomo toglie ogni sedia che lei incontra davanti a sé, così che possa danzare con estrema spensieratezza e fiducia. Questo il fil rouge di uno spettacolo che non ha una storia, se non nella costruzione di più storie: ogni personaggio ha una propria routine, talvolta portata all’esasperazione, che si relaziona con la routine degli altri personaggi. Queste relazioni creano significato nel momento in cui diventano portatrici di messaggi universali. Come universale e profondamente attuale è un altro leit-motiv degno di nota, che ritorna a più riprese nel corso dello spettacolo: l’abbraccio tra Malou e il ballerino, che, per quante volte venga rotto da un terzo uomo, ogni volta si ricrea in maniera più forte.
Il potere di un abbraccio: oggi più che mai ne capiamo l’importanza, oggi più che mai ne sentiamo la mancanza.
Giorgia Renghi ]]>
Sono sola e sento di star in qualche modo profanando il tempio sacro della recitazione, infrangendo la regola per la quale uno spattacolo può essere messo in scena qualora il pubblico sia costituito dallo stesso numero di attori più uno. Questo ad indicare l’idea di comunità che è alla base del teatro. Il video, certo, raggiungerebbe un numero potenzialmente infinito di spettatori, ma al di là dello schermo ce n’è tendenzialmente solo uno. E questo uno ha il potere di rivedere una, due, innumerevoli volte lo spettacolo. Ma nella ripetizione meccanica c’è qualcosa di contrario al flusso vitale della scena: il teatro non è “sempre”, «il teatro è vivere il presente. È solo lì e non c’è modo di rivederlo, a differenza dello streaming di oggi. Ti ricorda che le cose finiscono e ciò che conta è che vivi quell’istante». Queste parole, pronunciate dal regista Massimiliano Civica durante uno degli ultimi incontri all’Arena del Sole, mi erano sembrate premonitrici: la morte del teatro, sovrastato, anzi inglobato, da forme di rappresentazione più immediata. Una profezia diventata troppo presto realtà: la mia realtà che si incontra con quella degli anni ’80, più precisamente dell’anno 1985, quando, in Germania, venne filmato per la prima volta Café Müller.
Café Müller è uno degli spettacoli più famosi della coreografa tedesca Pina Bausch, illustre esponente se non inventrice della corrente del Tanztheater (teatrodanza).
Sebbene la macchina da presa indirizzi il mio sguardo, riesco a ricostruire una visione complessiva della scenografia: decine di sedie sparse per tutto il palco, nel fondale una porta a vetri girevole, a destra e a sinistra altre due porte per l’entrata e l’uscita dei sei performers. Mentre lo guardo sono sola, come tanti italiani questa sera, ma mi rendo conto che nello spettacolo viene rappresentata una solitudine più grande di quella che stiamo vivendo: la solitudine dell’umanità, al di là di ogni spazio e tempo, la solitudine universale. È una donna in scena, Pina Bausch stessa, a portarsi addosso questo peso: cammina tenendo avanti le braccia, a occhi chiusi, cercando di muoversi in un mondo che la ostacola, che le toglie spazio per danzare liberamente, perché è un mondo che non sopporta il vuoto e deve riempirlo per forza con qualcosa, con qualsiasi cosa, anche con delle inutili sedie, come in questo caso.
Ecco, noi siamo così. Ora che siamo costretti in casa ce ne rendiamo conto: dobbiamo sempre “occupare” il nostro tempo, invece di viverlo. Lo occupiamo con delle dirette Instagram che nessuno seguirà, con delle letture online che pochi apprezzeranno davvero, con delle insulse catene social, o diventando improvvisamente esperti di arte culinaria. Perché qualcuno non propone “l’arte del non fare”? Forse perché ascoltare se stessi fa paura. Ma Café Müller ci ricorda che solo togliendo quelle sedie abbiamo spazio per muoverci liberi. Liberi come l’altra ballerina in scena, Malou, alla quale un uomo toglie ogni sedia che lei incontra davanti a sé, così che possa danzare con estrema spensieratezza e fiducia. Questo il fil rouge di uno spettacolo che non ha una storia, se non nella costruzione di più storie: ogni personaggio ha una propria routine, talvolta portata all’esasperazione, che si relaziona con la routine degli altri personaggi. Queste relazioni creano significato nel momento in cui diventano portatrici di messaggi universali. Come universale e profondamente attuale è un altro leit-motiv degno di nota, che ritorna a più riprese nel corso dello spettacolo: l’abbraccio tra Malou e il ballerino, che, per quante volte venga rotto da un terzo uomo, ogni volta si ricrea in maniera più forte.
Il potere di un abbraccio: oggi più che mai ne capiamo l’importanza, oggi più che mai ne sentiamo la mancanza.
Giorgia Renghi ]]>
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.