Jan Fabre ha tenuto recentemente un laboratorio a Venezia, nel contesto del percorso di formazione internazionale ideato dal direttore catalano Alex Rigola. Abbiamo incontrato Fabre ai tavolini di un bar non distante dai giardini, camminando nei vicoli alla ricerca imperativa di un gelato. Prima un gelato, poi l’intervista, intima Fabre. Il ritmo della conversazione dopo qualche minuto si scioglie, il maestro fiammingo sembra quasi non pensare, sono rare le pause di pensiero per trovare le parole, molte invece le sigarette accompagnate da una bottiglietta d’acqua gassata. L’intervista fa parte di un più ampio reportage sul laboratorio pubblicato su La Biennale Channel, all’interno del progetto di osservazione October Test a cura di Andrea Porcheddu, che ringraziamo. A Venezia sono stati cinque giorni intensi, sei ore al giorno che parevano dodici. Partiamo da questi.
Cosa cerca Jan Fabre in un laboratorio? Cosa sta cercando Jan Fabre a Venezia?
In trent’anni di lavoro questo è il quinto workshop che conduco. Non ho mai voluto entrare nel vortice dei laboratori, non voglio tenere un laboratorio in ogni città che visito con la compagnia. In Europa insegnano tutti, c’è un grande network di “workshoppers”. Non ne faccio parte. Normalmente insegno soltanto all’interno del mio gruppo e gli stessi esercizi che ho proposto qui a Venezia provengono quasi tutti dalla pratica quotidiana con Troubleyn. Quello che è accaduto a Venezia è un assaggio, qualche piccola porta che spero di avere aperto, un avvicinamento alle linee guida che mi orientano nella relazione con i miei performer. A loro propongo lezioni di danza classica, di recitazione, di yoga, di Kendo (per i riflessi, per la gestione degli spazi larghi). Indaghiamo anche le tecniche della performance come “genere”, che è qualcosa di diverso dal teatro e dalla danza. Studiamo l’iconografia del corpo attraverso le arti visive, analizzando la pittura.
Parto dai fondamenti delle tecniche classiche anche perché molti dei miei attori vengono dalle accademie, ma poi mi concentro sull’azione in tempo reale. In trent’anni ho elaborato parecchi esercizi, dentro ai quali sono depositate le linee guida della mia idea di “recitazione biologica”. In questa settimana non sto ricercando per me stesso, piuttosto sto tentando di far capire ai partecipanti che esiste un altro modo per avvicinarsi al lavoro del performer, diverso da come sono abituati, diverso dalla psicologia. Li alleno a “sentire”, a sperimentare una fisicità che si fonda su un processo biologico.
A Venezia sto però anche sondando un tema, “gangster e stiliti”. Sto scrivendo da tre anni un testo chiamato Il gangster sacro, una nuova produzione che faremo l’anno prossimo. Sarà una trilogia sul gangsterismo. Sto facendo dunque piccoli esperimenti, certamente non comparabili in quanto ad approfondimento rispetto al percorso della compagnia.
Come sceglie gli attori che lavorano nella compagnia Troubleyn?
In molti casi è come avere una famiglia. Si tratta di persone che lavorano con me da venticinque, quindici, dieci anni. Ci sono anche esempi diversi, come l’ultima produzione Prometeus, per la quale ho fatto audizioni a Bruxelles, Parigi, Tokyo, Potsdam. Solitamente faccio audizioni in sei o sette città diverse, in ognuna delle quali incontro circa due o trecento persone. Ne scelgo cinque in ogni città, che lavoreranno per un mese nella compagnia. Alla fine ne seleziono tre per la produzione.
Veniamo a una domanda di senso, un po’ come è accaduto per tutti gli artisti che hanno tenuto i laboratori alla Biennale. A ognuno di loro abbiamo chiesto qualche definizione, nel suo caso potremmo sondare il concetto di “corpo”…
Domanda grandissima, potrei scriverci un libro! In tutto il mio lavoro il corpo è il soggetto e l’oggetto della ricerca. Alla fine degli anni ’70 ho iniziato a disegnare usando il mio stesso sangue, cosa che ancora mi capita. Ho utilizzato molti fluidi corporali, come le lacrime, lo sperma, le urine; mi sono poi concentrato sulla pelle e sullo scheletro. È un processo organico, che ho condotto passo passo, gradualmente. In questo momento sono interessato alla neurologia, al cervello umano. Per rispondere, ci sono tanti livelli che dovrei toccare: il significato sociale del corpo, quello politico o filosofico. Dipende dal progetto, dalla scrittura. Ci sono dunque tante risposte possibili.
In tutti questi casi, ci tengo però a difendere il “potere della vulnerabilità” del corpo umano. Mi vengono in mente le pubblicità per prodotti femminili. Quando si parla del ciclo mestruale ci viene sempre mostrata un’immagine di assorbenti macchiati con un fluido blu, perché il rosso è tabù. Le mestruazioni sono un punto di vulnerabilità, per questo vengono celate. Viviamo in una società in cui il potere delle vulnerabilità del corpo non è accettato. Tutta la pubblicità che vediamo, che siano modelle o personaggi dello sport, ci rimanda l’idea di un corpo che non emana nessun odore. Non facciamo più odori. Parto da questi semplici assunti, che poi si depositano nei miei lavori teatrali, o nelle scritture. Per esempio in Je suis sang si indaga il corpo in senso politico, sociale, filosofico. L’Histoire des larmes è una ricerca sulle lacrime, sul significato dell’acqua all’interno del corpo. Il testo di Je suis sang l’ho scritto fra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, ma è una ricerca che parte almeno dal finire degli anni ’70, quando ho iniziato a indagare il sangue.
Ci racconta meglio questo “inizio”?
Quando ero un giovane artista, e per la prima volta sono stato a Bruges a vedere i pittori fiamminghi, sono rimasto folgorato dal potere che emanavano i corpi rappresentati: stigmate, flagellazioni, corpi aperti, ferite. Sono tornato a casa e ho fatto la mia prima performance col sangue, era il 1977. Come artista avevo trovato – e trovo tuttora – un senso profondo nella tradizione, ma il punto di partenza doveva essere il mio stesso corpo. Usare il sangue non è mai stata dunque la ricerca di uno shock. Questo percorso è arrivato al teatro nel 1980, e da allora sto tentando di trasmetterlo ai miei attori e danzatori.
Come ci sta raccontando, il suo teatro è costellato di simboli: il sangue, le lacrime, i guerrieri. Si può parlare di “archetipi”? Il gangster, sul quale sta lavorando qui a Venezia, può essere uno di questi?
Certamente, anche il gangster è un archetipo. Molti miei lavori sono ispirati al Medioevo, e ruotano attorno al concetto di “sinner-puppet”. Il pupazzo che rappresenta un’idea di peccato. I miei performers, in scena, incarnano spesso l’idea di pupazzi, di bambole del peccato.
Tornando al laboratorio, il primo giorno faceva delle richieste molto specifiche ai partecipanti, richieste modellate su un linguaggio creato nei decenni. Per esempio: «Siate veri, non recitate sopra le righe!». Come può un attore toccare questa verità senza una giustificazione psicologica?
È esattamente quello che sto tentando di fare attraverso gli esercizi. Vorrei che raggiungessero la verità del corpo, perché il corpo non mente. Il modo in cui ci si sente, dopo sei ore intense di lavoro, non si può mascherare. Volendo usare delle definizioni desunte dalla mia pratica, quello che mi sta a cuore è “l’atto del fare”, il tempo reale dell’azione. In questo “atto” è necessario comprendere cosa sta dicendo il corpo, imparare a sentirlo, apprendere ad ascoltare lo stato biologico del proprio corpo e da lì creare un ponte fra azione e recitazione. Si tratta di un processo evidente nell’esercizio che qui abbiamo proposto dell’eroe e della principessa, o nello step finale delle cinque emozioni. Anche se in cinque giorni ci si può solo avvicinare a questi concetti, ho notato un salto di qualità notevole rispetto ai primi momenti di lavoro.
In questi giorni le ho sentito affermare che gli animali sono i migliori “filosofi”, per chi sta in scena e per chi fa teatro. Cosa intende?
I migliori filosofi e i migliori dottori. Prendiamo l’esempio del cane. Cosa fa un cane quando sta male di stomaco? Mangia il proprio pelo, ne fa una palla e la inghiotte, per poi così vomitare. Gli animali sono i migliori dottori, sono gli unici che si possono curare da soli. Sono estremamente intelligenti, consapevoli del proprio corpo. Gli esseri umani hanno perso quasi del tutto la consapevolezza del loro “stato naturale”. Anche un computer è qualcosa di antiquato, se lo compariamo all’ecografia dello spazio che sono in grado di produrre i delfini. I delfini vedono tutto in tre dimensioni, hanno delle mappe con cui possono misurare le lunghe distanze degli oceani, se ti vedono ti registrano e possono capire se hai uno scheletro robusto o esile. Tu non lo puoi fare. Possiamo imparare molto dagli animali.
Dopo questa premessa, venendo al laboratorio ho proposto effettivamente molti esercizi sugli animali. Chiedo ai partecipanti di muoversi nello spazio come una tigre, un gatto, un animale che muore. Non chiedo però di “diventare un gatto”. È impossibile, non possiamo divenire gatti. Si può però provare a diventare qualcosa d’altro. Nel teatro borghese viene chiesto di diventare qualcun altro. Per me è necessario diventare qualcosa d’altro.
Lei non ama la parola “attore”…
Attore è una parola del diciannovesimo secolo. Io parlo del performer del ventunesimo secolo. Questo perfomer è qualcuno allenato all’uso della parola, al movimento, alla fisicità, qualcuno che possiede una conoscenza sulle arti visuali, come dicevo prima.
Tutto sommato, posso dire che Artaud è ancora molto importante. Artaud diceva che in scena l’attore deve essere un killer, cosa che io ripeto spesso alle persone con cui lavoro. Devono raggiungere la rabbia di un killer, di un assassino, senza però uccidere nessuno. Quello che insegno nella mia compagnia è una battaglia fra la formalizzazione e l’istinto. Una battaglia fra i codici della recitazione e della danza e la forza naturale dell’azione immediata, ispirata al comportamento animale. Cerco di incoraggiare questa rabbia, questo eccesso istintuale, e allo stesso tempo esigo una competenza profonda sulle forme, sulle tecniche.
Sta descrivendo il suo metodo…
No. Non sto parlando di metodo ma di linee guida. Con l’aiuto della mia compagnia e di alcuni scienziati teatrali sto iniziando a scrivere un libro che contiene le mie linee guida per il performer contemporaneo. Dopo Grotowski e Peter Brook… Nel leggere Grotowski ci si rende conto immediatamente che si tratta di un’altra epoca. Al contrario Artaud è ancora attuale, perché le sue sono linee guida filosofiche. Un metodo, invece, invecchia nel giro di venti o trent’anni.
Nel laboratorio di Venezia ha dato molta importanza alla discussione. Spesso chiedeva ai partecipanti un ragionamento sul lavoro dei colleghi. Saper guardare è dunque una parte essenziale del lavoro del performer?
Io ho ricevuto un’educazione artistica in un senso molto classico. Quando avevo dieci anni i miei genitori mi hanno portato allo zoo. Dovevo disegnare gli animali e il loro comportamento, per poi rapportarlo a quello degli uomini. Ancora prima di entrare all’Accademia, ho imparato dai miei genitori che guardare equivale a pensare, guardare equivale ad analizzare. Dopo sono entrato all’Accademia Reale di Anversa, dove ho studiato con dei professori di impostazione tradizionale. Mi hanno fatto lavorare per quattro anni sul disegno di nature morte e sul nudo. Ogni volta che si credeva di aver finito un disegno i professori ti facevano spostare cinque centimetri più avanti, o più indietro, imponendoti di ricominciare da capo. Per questo sostengo che guardare equivale a pensare, ad analizzare.
Ai giovani attori dico sempre di provare a vedersi negli occhi dei compagni. Usate come specchi gli occhi dei vostri compagni! Nei loro occhi vedrete come siete fatti e ricaverete molte indicazioni per agire e reagire in modi diversi. Ai performer della mia compagnia dico sempre: dovete guardare negli occhi dello spettatore come fossero specchi.
Lei può essere considerato un artista visivo al quale non basta l’arte visiva. Ha bisogno del performer, del corpo. Cosa la spinge a questo continuo andare e venire?
Come ho detto ho ricevuto una formazione classica nelle belle arti. Oltre all’Accademia ho fatto uno studio sull’«Étalage», la messa in mostra di oggetti nelle vetrine. All’epoca avevo saputo che Andy Warhol aveva fatto uno studio simile, stimavo molto Warhol così anch’io mi ci dedicai! Un giorno tolsi i manichini e portai dentro il mio stesso corpo. Questo è stato il primo passo verso la performance. Il secondo gradino è stata la scoperta dei pittori classici, e di come trattassero il corpo umano. Il terzo: credo nell’anarchia dell’amore. Quando ero giovane mi innamorai di un’attrice e di una danzatrice. L’amore è sempre un bell’alibi! Ho cominciato a scrivere per loro, le vedevo a teatro e pensavo che le avrei potute dirigere io stesso molto meglio.
Fatta questa premessa, la risposta alla domanda sta nell’idea di “consilience”. Con le sculture e le installazioni ho appreso molto per la mia idea di scena; attraverso il costante lavoro sulla scena ho appreso molto per il mio percorso di artista visivo. Non è multimedialità, ma consilience. Si tratta di un termine introdotto da Edward O. Wilson, un biologo ed entomologo. Consilience traduce il concetto di unione di due materie che provengono da diverse discipline; è il collegamento fra i fatti e la teoria basata sui fatti, al fine di creare una base comune di conoscenza. Faccio un esempio. Io studio l’entomologia, in particolare il comportamento biologico degli insetti. Quando osservo il comportamento biologico dei performer posso rilevare dei punti in comune, e li posso mettere in relazione per trovare nuove interpretazioni, sia per gli insetti sia per i performer. Credo che sia quello che ho fatto negli ultimi trent’anni. Lavorare con il corpo umano si è tradotto in un apprendimento costante per il mio lavoro di artista visivo, e viceversa. Per il mio percorso nel teatro è importantissima l’osservazione della pittura, di Bosch, di Rubens. La luce di Rubens, la carne di Rubens, la rappresentazione del corpo di Rubens! Jan Van Eyck! Quando guardo un quadro di questo genio sono affascinato. Anatomicamente rappresentava il corpo in maniera totalmente sbagliata, cambiava l’anatomia per farla rientrare nel quadro… decostruire e ricostruire l’anatomia per farla stare in un frame… non è una messa in scena?
In Italia guardiamo con stupore al sistema teatrale e della danza nordeuropeo, specialmente a quello belga. Viene da chiedere come siate riusciti ad ottenere una così alta considerazione “sociale” dell’arte, che si traduce in un sistema che sostiene e accompagna…
Posso partire parlando della mia generazione. Penso a Jan Lauwers, Anne Teresa De Keersmaeker, Wim Vandekeybus. Per prima cosa va detto che queste esperienze nascevano dopo decenni di vuoto. Quando noi abbiamo iniziato non c’erano soldi, non c’erano strutture. Avevamo di fronte solo il grande modello classico, e noi tutti lo avversavamo, facevamo la nostra battaglia ognuno con la propria estetica. Però il modello classico c’era. In Belgio, oggi, vedo una generazione di mezzo – che peraltro gestisce i centri nazionali – con ambizioni contemporanee e moderne ma che non sarebbe in grado di far vivere la tradizione, di confrontarcisi. Questo è un grosso problema per quelli che verranno dopo (e infatti la generazione attuale avrà molte difficoltà, già si percepisce), perché se non c’è tradizione non può esserci avanguardia. L’avanguardia non è un modello.
Altro fattore da notare è che si sta parlando di personalità individuali. La storia del teatro belga o delle arti visive in Belgio mostra una serie di individualità forti, mai un “movimento”. Pensiamo a Magritte, che era un piccolo borghese. Per lui, per parlare di movimento dovremmo coniare l’idea di un “movimento di un solo uomo”. Credo che questo concetto possa descrivere l’arte in Belgio nella sua generalità. Quando penso all’Italia e alla sua storia dell’arte vedo invece dei movimenti, ad esempio la Transavanguardia o l’Arte povera. La vostra nazione è grande e, da un certo punto di vista, è unita. Non bisogna scordare che il Belgio ha una parte fiamminga, una vallona, un piccolo pezzo di Germania. Siamo sempre stati dominati, siamo sempre stati abituati a considerarci “sotto” qualcuno. Credo che l’arte in Belgio sia sempre stata influenzata da questa sensazione. C’è sempre stato e credo ci sia tuttora un sottile sentimento di sovversione e di ironia, per sopravvivere…
Fotografia di Malou Swinnen
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.