Raccontare la storia di qualcuno, raccontarne la vita. Mettere in fila le fotografie e i fatti, le parole e le vicissitudini interiori. Provare a ricomporre, sul filo di un nome, un percorso che si avventuri in una cronologia e in un luogo altri dai nostri. A far scattare questa scintilla può essere forse una fatale ammirazione, l’idea che dentro quella vita da cui si rimane colpiti possa nascondersi molto più che un forte carisma. Nel compiere il passo che conduce dentro la vita di un altro, si può inciampare nel desiderio di immedesimazione, nella fiducia incondizionata che quella figura genera in noi. Oppure, semplicemente, si può stare accanto a una storia tenendo saldo il desiderio della ricerca, della scoperta e del dialogo che la possano restituire così come è stata intuita, vista, attraversata.
Sembra questo lo spirito che ha guidato Marco Martinelli nella scrittura e nella regia dello spettacolo Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi: il nuovo lavoro del Teatro delle Albe è incentrato sulla storia della pacifista birmana che da anni si oppone al regime militare della sua nazione a favore di un governo democratico. Figlia di un combattente che ha sacrificato la vita in nome dello stesso ideale, Aung San Suu Kyi torna in Birmania dopo alcuni anni all’estero e vi resterà, in parte forzatamente e in parte volontariamente, perseguendo la sua lotta politica.
Siamo da subito, delicatamente, dentro le stanze psichiche e domestiche di Aung San Suu Kyi, guidati dalle luci di Francesco Catacchio ed Enrico Isola che organizzano lo spazio scenico un quadro dopo l’altro, aiutandoci a cogliere in maniera epidermica e concreta i moti interiori della protagonista, incorniciati da due strisce rosso sangue: un pannello a sinistra, illuminato dall’alto, e una sottile ferita sulla destra, che si rivelerà poi essere la curva di un sipario rosso. E in questo ambiente in perenne trasformazione è soprattutto l’interpretazione di Ermanna Montanari a condurci dentro la vita esemplare di Suu, una vita che si poggia in filigrana sul corpo dell’attrice: la figura di Ermanna Montanari si affianca a quella di Aung San Suu Kyi, e proprio da un accostamento di immagini, il volto della Montanari e un ritratto fotografico di Suu, dalla somiglianza tra l’esilità del fisico dell’attrice ravennate e i corpi delle donne birmane, è nata l’idea di immergersi in questa figura. Raccogliendo fonti e fotografie e numeri su quanto accaduto dentro e attorno ad Aung San Suu Kyi, le Albe ridisegnano il suo racconto.
Ermanna Montanari fa propria la compostezza della leader pacifista. Impara a incrociare i filamenti delle orchidee tra i suoi capelli e regge sul suo volto quel sorriso emblematico, calmo e serrato, di chi crede nella propria lotta, non ignorandone le conseguenze. Sin dal suo ingresso accompagnato dagli altri attori – Roberto Magnani, Alice Protto e Massimiliano Rassu – la verticalità e una voce ferma sono i tratti che danno contorno a questa figura. Dagli interrogatori ai discorsi pubblici, dal dialogo coi generali fino ai tormentati incontri con i Nat, spiriti maligni, la figura è morbidamente eretta, comodamente impuntata sui tacchi e con lo sguardo sempre aperto. Ma se questo è il binario principale, ecco che certi deragliamenti suonano inevitabilmente più forte dentro di noi, tra tutti il cedimento di tale verticalità, improvviso e delicato.
Nel testo dello spettacolo a firma di Martinelli (pubblicato da Sossella editore, Bologna, 2014) la didascalia recita: «Si accascia a terra, come una vela senza vento». Ed ecco che Ermanna Montanari-Suu crolla. Il Generale è lì accanto, ottuso e impietoso nel suo annunciare la reclusione domestica alla giovane combattente pacifista. Sono i primi arresti domiciliari, il primo giorno dei ventun anni di prigionia nella grande casa sul lago. Ci sembra possibile che siano forse davvero iniziati così, con un attimo di mancamento, un affievolimento del corpo, il crollo di un grumo di energie altrimenti denso, concentrato, stabile.
Ermanna Montanari non ha bisogno di gesti larghi per compiere un’azione. È sufficiente seguire il suo sguardo da una parte all’altra del palco, o verso il pubblico, per contemplare il suo raggio d’interesse. Basta che le mani piccole si muovano lungo i fianchi o che si uniscano tra loro per manifestare lo stato del suo personaggio. Sono anche le spalle strette a giocare un ruolo importante nel corpo di questa imprendibile attrice, sciolte nella morbidezza di un’attesa o rigide dentro un costume su misura; è sufficiente una torsione del busto per far voltare lo sguardo a tutta la platea. Il corpo di Ermanna è quasi tutto nella voce, nella materia profonda che nasce dal diaframma, o negli acuti sbilanciamenti che hanno origine in qualche punto più alto, sopra la gola contratta insieme al volto. È un corpo, quello della Montanari, a cui serve davvero fare poco per esserci e mostrarci l’azione. Ed è per questo, forse, che quando le gambe le cedono e la vediamo crollare mani a terra sul pavimento del palco, qualcosa dentro di noi si spezza, lasciandoci sgomenti. Ermanna-Suu crolla solo un’altra volta, quando il marito dall’Inghilterra le comunica di essere alla fase terminale della propria malattia, e il governo le tende una trappola meschina, legata al fatto che se vorrà uscire dalla Birmania non potrà poi più farvi ritorno.
Il cedimento di un’icona è un’immagine rara, non verificabile. Di Aung San Suu Kyi esistono i ritratti dei sorrisi, il candore di una maschera di pelle bianca e di capelli intrecciati con fiori freschi. Ma la fragilità è un segno da immaginare, un istante da costruire ex novo. Non c’è espressione che valga per tutti, e non c’è parola che possa essere usata senza rischio di retorica o errore di intensità. Esiste solo la possibilità di una sintesi dentro un gesto, che possa significare un intero percorso emotivo senza troppi decori.
Questo carattere di essenzialità attraversa l’intero lavoro. Una sobrietà che non genera rumore attorno alle cose ma semplicemente le mostra, per antifrasi o contrasti, costruendo spazi di straniamento che ci concedono la libertà di un pensiero. È così che Brecht accompagna lo spettacolo, offrendo a Martinelli una sponda dialettica. È una visione distaccata ma coinvolta, dove le immagini che prendono vita sono agite internamente da un sincero slancio, pur conservando uno spazio nel quale lo spettatore possa far respirare quanto ha visto. Gli stacchi tra i capitoli di questo racconto e i quadri che li compongono sono attimi di ricambio, talvolta impalpabili per quanto sono calati dentro il ritmo della scena, ma pur sempre presenti e avvertiti. A un certo punto Brecht non resiste e irrompe sul palco, con due teschi stretti tra braccia e fianchi, saltellando sul song di Mackie Messer mentre sullo sfondo campeggia la proiezione di un suo ritratto giovanile. Ecco un’altra ammirazione che emerge, un altro spirito – anch’esso rivoluzionario – che si palesa nella sua magica corporeità. In Vita agli arresti…, come in altri spettacoli delle Albe, il coro gioca un ruolo importante. Sono le due voci maschili di Magnani e Rassu con la nota femminile di Alice Protto a interrompere di tanto in tanto il racconto interpretato, ora commentando ora narrando da fuori, innestando pezzi di tempo nelle scene o dialogando con Ermanna-Suu. Sono loro i tre Nat, le maschere inquiete che le si fanno accanto molestandola, mentre in casa studia o ragiona sul da farsi. Sono loro che ci mettono al corrente della vita privata di Suu, interrogando se stessi sulla possibilità di dire o meno quanto sanno: «E se fosse il coro a raccontare di…».
E se da una parte abbiamo Aung San Suu Kyi, figura sola che prova a pensarsi in un “noi” più grande, dall’altra vediamo questo coro letteralmente disfarsi, a seconda delle necessità, appropriandosi di altre singolarità. È così che Roberto Magnani si oscura gli occhi sotto il cappello della divisa militare e si rivolge a Suu con dura disciplina, oppure le si avvicina con composto imbarazzo nei panni di un rappresentante Onu: con una maschera di volto teso e capelli laccati, l’attore incarna la superficialità di un’istituzione dalla retorica vuota, che gira attorno alle cose senza centrare mai il punto; è così che Massimiliano Rassu si rivela soldato danzante, molleggiando sulle gambe mentre diffonde nuove prospettive alla Birmania già ribattezzata Myanmar; ed è così che Alice Protto si insinua nella seduzione di un’intervistatrice di Vanity Fair tenendo nelle mani un articolo già scritto, incapace di ascoltare le parole di chi ha di fronte ma bandando al più goloso sensazionalismo. In questo smembrarsi e ricomporsi infinito si stagliano i Mustache Brothers, duo satirico che si fa beffe del regime: sono Magnani e Rassu, interpreti vibranti che con la loro voce portano in scena il proprio racconto della storia di Suu. Sono loro che chiudono il ciclo degli svenimenti, il terzo e ultimo: mentre il fratello della coppia di comici interpretato da Magnani cita il “Venerdì nero”, giorno dell’attentato alla vita di Aung San Suu Kyi, dando l’incipit a una narrazione che si beffa di ciò che non è permesso raccontare, il fratello interpretato da Rassu cade a sedere sul palco, in un tonfo silenzioso.
Questi accenti generano sbalzi, fratture. Questi inciampi feriscono. È il realismo che il teatro non può scansare, pur nel mezzo di tanto coraggio. Per quanto Aung San Suu Kyi sia eterea e sorridente, per quanto la sua capigliatura non si spettini di fronte al sangue o ai proibizionismi, c’è qualcosa, dentro, che riceve ogni colpo raccogliendone il segno. Ci sono microfoni che passano di mano in mano agli attori. Sono microfoni senza filo, dalla presa spessa e dalla consistenza pesante. Nella maggior parte dei casi, ognuno regge il microfono tenendolo leggermente scostato dal viso, per mostrare al pubblico l’intero ovale del volto. Come a dire che le parole sono importanti, ma il volto che le pronuncia anche.
Si diceva di un’interpretazione in filigrana, di una finzione scenica che si lascia attraversare dalla verità del racconto ma con spirito dialettico. Non prevale mai un carattere documentaristico né la trasfigurazione soffoca questo pezzo di Storia e cronaca: siamo al contempo lucidi e trasognati, incantati e pensierosi. Nell’arco delle due ore e più di spettacolo lo spettatore è trascinato dentro l’opera, è parte dei discorsi dei personaggi che vivono sul palco, in ascolto degli avvenimenti della storia di Suu. Perché questi attori si mostrano interamente quali sono, e si fanno guardare con tutti gli strati di persona e personaggio che portano addosso. La loro presenza è fatta di ascolti e partecipazione, presa di posizione e stupore, e il loro atteggiamento li pone vicino tanto alla vita di Suu quanto al nostro sguardo presente.
È così che riscopriamo il lavoro del Teatro delle Albe, immersi dentro un’opera che usa le parole come canali sottili di persuasione e i volti degli attori come amplificatori puntuali e leggeri di animi in lotta. Sono le loro voci e i loro sguardi a farci comprendere il tempo e il luogo della Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, una vita solo apparentemente stanziale, in grado invece di muoversi in ogni spazio e cornice possibile, compreso il luogo di questo teatro, che vi aggiunge una nuova dimensione priva di retorica, che mostra e accoglie senza chiedere nulla in cambio.
di Serena Terranova
foto di Enrico Fedrigoli
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.