Quella di venerdì 12 aprile, per l’appunto, è stata un’esperienza intensa, degna di esser vissuta più che passivamente vista. Mi riferisco al lavoro di Simon Vincenzi, regista teatrale, coreografo e designer, creato in occasione dell’ottava edizione della Live Arts Week, festival annuale della performance ideata e prodotta dall’organizzazione culturale bolognese Xing. La sua opera, effimera per sua stessa natura, dal titolo From The Dead Air Orgy: The song of Silenus, si è contraddistinta come una combinazione di linguaggi artistici che incrocia l’installazione con la video-art, il teatro e con la performance; si è trattata nello specifico di una live installation con diretta streaming visibile sul web, culminata in una performance di circa mezz’ora dell’artista inglese Kath Duggan. L’idea base è la rivisitazione in chiave teatrale e contemporanea, e molto personale, della sesta Egloga delle bucoliche di Virgilio. In particolare la parte in cui Sileno, il dio mitologico rurale del vino e dell’ebbrezza precedente a Dioniso, e di lui maestro, è legato da due satiri e da una naiade dopo essere stato trovato dormiente e ubriaco in una grotta dell’Arcadia, e da loro convinto successivamente a cantare. Il canto di Sileno li trasporta in un viaggio mentale senza tempo, in un non-luogo mitico fatto di disastri e passioni, continuamente mutevoli, dove si rivelano verità nascoste e trascendenti, come l’inizio della creazione.
Il lavoro di Simon Vincenzi si trovava all’interno di Palazzo Pezzoli, o meglio, in alcune stanze del suo piano nobile, ormai decadenti e trascurate, utilizzate come magazzino per il negozio di materiali enologici adiacente. L’entrata era assolutamente anonima e mimetizzata lungo quella via, fatta, come tante bolognesi, di portici e locali. Solo un cartellino quasi insignificante di non più di 5, 10 centimetri avvertiva la presenza di From the dead Air Orgy al di là di quella porta, di legno massiccio in stile mediavaleggiante; solo quell’esile cartellino permetteva a noi spettatori consapevoli di introdurci lemme lemme come in una sorta di antro segreto e iniziatico nel vivo dell’opera; riuscendo a non dare nell’occhio e quindi celandosi alle centinaia di persone svagate, presenti sotto ai colonnati con il bicchiere di vino in mano, ignare dell’evento all’interno delle mura alle loro spalle.
Si accedeva quindi bussando al portone del civico numero 7 con un batacchio in ferro, che portava inconsapevolmente l’interessato a guardarsi attorno con aria circospetta, chi lo sa poi perché, forse per la soggezione che incuteva quell’ingresso ormai inconsueto, abituati a citofoni elettronici e porte in vetro; si sorrideva poi, quando tornava alla mente che non era un incontro settario quello che si andava a vedere, ma arte. Un addetto poi apriva introducendoci in un’anticamera, dove stava appesa sopra la testa una scritta in ferro battuto arrugginito: TUTTO PER LA CANTINA. E in effetti i grandi scaffali sul corridoio e sulle scale, che ci accompagnavano lungo il percorso verso la sede dell’installazione vera e propria, erano saturi di merce come bicchieri, bottiglie, misure, caraffe, vasi e vasetti, brocche, pompe, tappi, decanter e tutto il materiale che si possa immaginare inerente al vino e alla sua mescita. Significava forse qualcosa? Il mito di Sileno ubriaco era desumibile dal titolo; ora siamo accolti da oggetti si può dire “para-enoici”, che alludono al vino e lo chiamano.
Un preambolo giusto, e ambiguo anche. Una volta entrato, dopo una ventina di scalini mi sono trovato (ero solo in quel momento) in una Arcadia completamente inimmaginabile: ricavata in due grosse stanze contigue e collegate da un vestibolo, avvolte dal buio (ante e finestre chiuse, poche luci sparpagliate) e dall’incuria (polvere e ragnatele qua e là, pareti incrostate da intonaci cadenti, i pochi stucchi aviti logori), essa era allusa da un po’ di paglia distribuita negli angoli; nella seconda stanza, vuota e ancor più in penombra, alcune sedie vuote erano posizionate di fronte a una parete con un grosso cornicione in stile barocco, che circostanziava un telo nero. Era forse quella la caverna di Sileno? E forse le sedie pronte a far accomodare lo spettatore-satiro in paziente attesa dell’ineffabile canto?
Ma il centro dell’opera era nella prima stanza, quella appena dopo gli scalini. Due uomini e una donna seduti attorno a un grosso tavolo lavoravano senza interruzione e – pareva – ripetendo a ciclo le stesse cose su dei notebook; maneggiavano microfoni, mixer, videocamere, e il tutto era visibile live su un canale streaming; emettevano a turno dei suoni gutturali, dei versi davanti a una webcam che – pareva – davano più importanza al movimento delle labbra che al suono stesso. Nemmeno si poteva capire di prima acchito che quei tre personaggi erano parte di un’installazione artistica, tanto erano rapiti dal loro lavoro, e vestiti semplicemente con una t-shirt e un cappellino con visiera. Ma proprio per tale contrasto, per un contesto al limite dell’onirico e dell’assurdo, ricordo che mi è preso per qualche minuto un senso di disagio, di smarrimento. La prima sensazione che ho avuto infatti è stata come di essere vittima di un tranello, in una trappola per un gioco tra sadici; poi ci si orienta, si capisce, e ci si diverte pure. L’ambiente – Vincenzi come detto, lo si tenga a mente, è coreografo e regista teatrale, e quindi di queste cose se ne intende – è stato fatto appositamente perché suscitasse nel visitatore un senso di inquietudine. Nell’atmosfera misteriosa e fredda creata dal regista c’era come un qualcosa di vagamente occulto; un qualcosa di latente, come in sospeso nell’attesa di una rivelazione.
A mezzanotte, infatti, dopo che un gruppo vario di persone si è radunato, Sileno ha cantato. Per mezz’ora la performer Kath Duggan ha interpretato in modo incisivo, più che un canto, un lamento, un triste guaito con un sapore amaro, malinconico. Dei suoni a volte fievoli a volte stridenti, ma incessantemente angoscianti, accompagnati dalla musica del compositore e sound designer Will Saunders, sono stati emessi da una creatura vestita completamente di nero e dalla testa velata con un foulard porpora, dal quale si scorgeva solo la cavità orale: i denti che si aprivano e chiudevano, la lingua che si contorceva. È parsa un’invocazione mistica, un richiamo esoterico verso un mondo altro. Ci si guardava ogni tanto, tra spettatori, durante quell’agonia. Un pubblico vario, di tutte le età; c’erano curiosi, turisti stranieri, giornalisti e operatori artistici. Ma tutti con lo sguardo rivolto verso quella figura conturbante, fissa con la testa in su e le braccia reclinate all’indietro, come fossero legate. Poi il canto è finito, e la bocca di Sileno è tornata immobile.
Ripercorso il corridoio a ritroso, e usciti dal portone, si è tornati tutti, credo, alla vita ordinaria, che su via Santo Stefano nel frattempo proseguiva indisturbata. Ma in testa ha continuato a echeggiare quel lamento, che ormai incontrollato e autonomo si ripeteva in sottofondo come un riverbero.
Damiano Perini
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.
Una risposta
ho letto con molta attenzione l’articolo. è molto suggestivo, sento di essere entrata mentalmente all’interno di questo palazzo. sono riuscita a immaginarmi la performance (o almeno, l’ho immaginata a mio modo – ma in fondo è proprio questa la bellezza della recensione) e mi sono dispiaciuta per aver perso l’evento. L’anno prossimo non mancherò.