di Cechov. Il teatro partecipato incontra il classico? Da sempre lavoriamo con non professionisti, gli attori-mondo o experts of everyday life, persone che non si occupano di teatro, ma che vengono trascinate con più o meno violenza sulla scena. Ci siamo quindi chiesti se fosse possibile affrontare un classico attraverso il teatro partecipato. Due estati fa, poi a un laboratorio della Biennale di Venezia, leggendo proprio Il giardino dei ciliegi di Cechov, Martin Crimp lo definisce «un testo sulla memoria». «La memoria è un bene comune, chiunque ha la memoria di qualcosa» penso io. Da qui siamo partiti aggiungendo quello che ci sembrava essere il nucleo dell’opera: un luogo dell’anima intriso della presenta di qualcuno; un luogo che scompare per motivi economici. Noi Kepler inoltre condividiamo un grande amore per la drammaturgia di Cechov. Le sue opere raccontano di persone colpite all’improvviso da qualcosa apparentemente senza senso, ma che in realtà si trovava nascosto sotto il chiacchiericcio del quotidiano. Ciò che ci piace di Cechov è proprio la possibilità che una magia si manifesti tra le pieghe dell’ordinario. Il nostro tentativo è di magnificare le identità, ovvero prenderle dal quotidiano per restituirle al luogo a cui ci pare appartengano, quello della meraviglia. In fondo è un po’ l’operazione di Cechov: far vivere a tipi umani, per lo più squallidi e tristi, qualcosa di magico, come una corda di violino spezzata, un cambio d’amore o d’umore improvviso, un’esplosione di sentimenti. Quando avete capito che Giuliano e Annalisa Bianchi erano i vostri Gaev e Ljuba? Quasi subito. Come accade spesso nei nostri lavori, l’idea iniziale era di far procedere parallelamente alla narrazione de Il giardino dei ciliegi, una serie di “giardini dei ciliegi” bolognesi. Così, nel nostro percorso di lavoro, abbiamo incontrato e parlato con molte persone, come le famiglie occupanti il palazzo ex Telecom, poi violentemente sgomberato (in scena con Comizi d’amore-Galaxy) e con i collettivi di Atlantide, centro sociale lgbt in lotta con il Comune di Bologna per mantenere i propri spazi. Infine abbiamo incontrato Giuliano e Annalisa: le somiglianze con la storia, la quantità di energia e magia di loro due in quanto identità umane, il tipo di rapporto che andava creandosi, ci aveva già portato, in qualche modo, a scegliere loro, solo che ancora non lo sapevamo. Poi, davanti a un bicchiere di vino, Giovanni Zanotti, il nostro filosofo di fiducia, ci ha fatto notare che parliamo sempre e solo di Giuliano e Annalisa, e in effetti è proprio così. Ma d’altronde è inevitabile perché sono “ingrombrantissimi”: ci occupano una quantità smodata di immaginario. Da lì abbiamo deciso che sarebbero stati loro e basta i nostri Gaev e Ljuba. Come avete lavorato con Giuliano e Annalisa? Dopo un periodo di “corteggiamento”, siamo arrivati al primo studio nel novembre 2016.. Il tentativo era quello di introdurli gradualmente al teatro, avvicinandoli all’elemento della meraviglia nei confronti sia del pubblico sia del testo di Cechov. Il lavoro si è andato poi strutturandosi con la ripresa de Il giardino dei ciliegi per ERT. Nel frattempo noi Kepler abbiamo continuato a frequentare Giuliano e Annalisa, a coltivare la relazione umana che per noi è preminente rispetto alla relazione professionale. A poco a poco, in un secondo momento, abbiamo intensificato la relazione artistica, chiudendoci in una casa in campagna a fare “tavolino”, come comunemente fa una compagnia. Giuliano e Annalisa sono stati preziosi nello scovare i tesori e le ricchezze del testo, sia per la loro esperienza di vita in generale, sia per quella relativa allo sgombero. Siamo partiti da qui per iniziare un periodo di prove, in cui la discussione su cosa fosse più giusto e più bello fare ha preso molto tempo. Normalmente le nostre scene si reggono su un’immagine, un’idea, una cornice: una volta intesi su quale sia, si mette in scena; molto infatti nello spettacolo è improvvisato. Le cornici le abbiamo scelte insieme a Giuliano e Annalisa, che dapprima sono stati spettatori del processo artistico, e poi sempre più soggetti attivi e paritetici a noi. Nello spettacolo ci sono Giuliano e Annalisa, ma anche voi avete uno spazio considerevole. Chi sono allora (se ci sono) i veri protagonisti del racconto? A chi volete dare rilievo principalmente? Non saprei dirti se ci sono protagonisti. Giuliano e Annalisa lo sono di certo in senso tecnico di “coloro che portano l’azione”; infatti lo spettacolo ha inizio con il loro ingresso e quasi tutto il resto è una reazione, in qualche modo antagonistica, alla loro entrata in scena. Più che protagonisti, quindi, li definirei il “cuore del dramma”. Noi certo, ci siamo eccome, e portiamo il nostro personale punto di vista, la nostra percezione sull’universo incomparabilmente grande e difficilmente leggibile di Giuliano e Annalisa, che sono il Non-identico, l’Altro da sé, il diverso. Per lo spettatore che si trova a decodificare questa diversità pensiamo sia di aiuto un punto di vista familiare come il mio stupore nel vedere per la prima volta la casa abbandonata; o come la commozione di Paola nella scoperta della loro storia; o ancora come il trauma di Lodo rispetto a questi sentimenti. Lo spettacolo parla di un incontro e della posizione di ciascuno all’interno di questo incontro. Ognuno di noi porta il ricordo di quando ha conosciuto Giuliano e Annalisa e di quando sono iniziate le prove. Io e Paola raccontiamo momenti che risalgono al novembre 2016, Lodo è entrato invece da poco, perciò ci è sembrato assurdo omettere sia che fosse famoso, sia che stesse vivendo un momento di spaesamento dovuto proprio a questa fama. Avete mai pensato che la vostra posizione e il vostro rapporto con Giuliano e Annalisa potessero esporvi all’idealizzazione? Li abbiamo idealizzati eccome! Innanzitutto sono un’idea di spettacolo e un ideale. Bisogna intendersi però sul significato di “idea”: mi compaiono nei sogni, per esempio. Sono un’idea che si è incastonata in una parte molto profonda della nostra identità e della nostra presenza qui. Sono l’idea di un viaggio, di un percorso; d’altronde sono inafferrabili proprio come le idee. L’“idea” mi rilancia l’immagine di una lampadina che si accende, di un insight, di un’agnizione, di un fulmine che dà qualcosa di più allo sguardo. Annalisa è il custode, il cuore dell’idea, colei che tiene insieme; Giuliano è il motore, è un trickster, uno che di continuo rilancia la sua immagine di bambino, costruttore, ciappinaro. Giuliano e Annalisa sono così tanto mobili che possono diventare idea, ma non possono diventare immagini, sono un’idea che non si reifica. Le persone quando le frequenti non sono delle idee, lo diventano col tempo, quando magari non le frequenti più. Giuliano e Annalisa sono da una parte un’idea nel senso che investono tutta una parte proiettiva di immaginazione, ma nel contempo esistono, si muovono, li vediamo tutti i giorni. Come una foto di Harry Potter! Attraverso un’eco adorniana mostrate come la realtà investa persino fantasmagorie come quella di Giuliano e Annalisa. Ma qual è la realtà sociale, economica e politica a cui fate riferimento? Spostandoci di filosofo, la realtà a cui facciamo riferimento è forse il “principio di realtà”, il nemico giurato dei sogni, la causa esterna che li blocca. Ecco, lo sgombero è qualcosa del genere: a un certo punto c’è qualcosa che interrompe lo spettacolo lungo 30 anni che Giuliano e Annalisa hanno messo in scena, aderendo perfettamente ai personaggi da loro stessi creati. Lo spettacolo ha un aspetto di denuncia nei confronti dei firmatari o di FICO, certo, ma il discorso è molto più ampio: si parla del sistema illuminista in generale. All’inizio diciamo: «La terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura», ovvero quando le norme che inventiamo per stare tutti insieme e non morire schiacciati gli uni dagli altri in mezzo al panico, diventano talmente ipertrofiche da occupare ogni spazio disponibile, ecco che questo desiderio di togliere la paura e rendere padroni gli uomini si rivolta nel suo opposto: nella totale irrazionalità e nel non vedere ciò che accade agli esseri umani. Io non credo che Giuliano e Annalisa siano stati sgomberati solo per l’arrivo di FICO o per l’aria che tira politicamente in questo paese, ma credo anche che la loro presenza fosse resistente al lato filosofico dell’illuminismo. Loro non vivevano compiutamente nella realtà, ma avevano ricostruito un’entità e una realtà molto vicina al loro Es. Lo spettacolo riverbera di «cose che non so», come se l’incontro, l’intreccio dei vissuti, segnasse anche una distanza incolmabile, un inconoscibile, un inaccessibile fondamentale. In fondo forse non è soltanto la condizione dell’artista, bensì la cifra generazionale di questi 20-30 d’oggi. Come accedere a una tale alterità senza cadere in un filantropismo narcisistico? Da che parte state? Da che parte stiamo? Proprio questo «non lo so» è il nostro punto d’accesso riguardo a cose e sensazioni che non conosciamo, come entrare come ladri in casa propria. Lo preannunciamo per accompagnare lo spettatore in questo nostro percorso di scoperta, in questo scoprirci diversi ma profondamente attratti da Giuliano e Annalisa. Lo facciamo elencandogli le cose che non sappiamo o non abbiamo capito, le più belle e interessanti, perché possa essere spaesato quanto noi e insieme a noi risolvere il problema di stare da una parte, quella di qualcuno che percepisce, sta in un nodo spazio-temporale e da lì guarda una strada. “Stare”, però, significa essere coerenti nell’azione e nel pensiero e ciò non è proprio degli esseri umani. Noi quindi non sappiamo da che parte stiamo, ma sappiamo da che parte cerchiamo! Il tentativo è di dotarci di un equipaggiamento il più possibile sicuro per esplorare il mondo, a partire dall’analisi economico-sociale di Marx e quella sull’individuo di Freud. Tra questi due poli noi tentiamo goffamente e nelle nostre possibilità – annaspando sì, ma dichiarandolo – di leggere il mondo. Pensiamo che si possano ancora trovare delle griglie di interpretazione e che non si possa rinunciare a una tale possibilità. D’altronde, se sei stato fermo, hai guardato, non hai fatto finta di sapere il nome della poiana, non ti sei spacciato per uno che sa cosa vuol dire perdere la casa, pensiamo che la strada si possa manifestare in qualche modo. Dal punto di vista del racconto, della messa in scena e da artisti invitiamo a fare come ha detto Marx: coltivare il dubbio. Certo, c’è un gusto narcisistico nel raccontare e soprattutto nel raccontare gli altri. Ora che l’ho detto e abbiamo messo da parte questo considerevole problema, andiamo avanti. È più sano ammetterlo, altrimenti, come ogni rimosso, prima o poi esce fuori inaspettatamente. Noi lo diciamo subito, e poi affermiamo che siamo contenti di raccontare questa storia, per noi bellissima; che siamo diversi dalle persone di cui parliamo, che ci sono un milione di rischi ad accostare identità come le nostre alle loro. Ma ci piace raccontare e a loro piace raccontarsi. E allora, raccontiamo! Ogni classico chiama a un’operazione di eredità e ogni eredità si espone al tradimento. Avete qualche rimpianto nei confronti dell’opera originale e del suo autore? E rispetto alla fantasmagoria vera di Giuliano e Annalisa? Rammarichi moltissimi. Sono rimaste fuori cose bellissime, alcune delle quali non inserire è stato un crimine, come tutto il pantheon di persone che girano intorno ai Bianchi, per esempio. Così come duole lasciare fuori i dettagli della drammaturgia di Cechov e personaggi come Trofimov. C’è però la necessità di relazionarsi con la curva dell’attenzione possibile, concentrarsi su una cosa e portarla a termine. Quindi sì, verso tutto ciò che non è entrato in scena, vedo una forma di tradimento. Tuttavia, se questi elementi sono stati omessi per tutelare il punto che a noi pare comunichi in modo molto diretto, siamo stati abbastanza onesti. E se è vero che «Un classico è un testo che non ha mai finito di dire quello che ancora ha da dire» noi abbiamo ascoltato solo una parte di ciò che ci diceva. Condivido il timore comune di fronte ai classici, però, come i grandi amori, bisogna agire senza paura, altrimenti poi non si fa bene l’amore. Se nella soggezione fai entrare un rapporto di complicità, vicinanza, eros, desiderio, allora anche la paura se ne va. Io ho capito una cosa, una serie di eventi esterni a essa correlati e su questo mi sono mosso. Quindi no, non penso di aver fatto torto a Cechov. Kepler-452 ha un giardino dei ciliegi? E tu Nicola? È una domanda che ci hanno fatto qualche giorno fa a scuola. Paola ha raccontato di un salice che stava vicino alla sua casa di quando era bambina, tagliato il quale lei ha capito che era finita una parte d’infanzia. Enrico ha parlato del suo ruolo di Lopachin in alcune attività della sua famiglia. Per me, invece, il giardino dei ciliegi è questo spettacolo, è il momento dell’incontro con Giuliano e Annalisa. Il giardino dei ciliegi è il momento eterno, il figlio che affoga in un minuto, ma poi affoga per sempre. Per me è la frequentazione di questo luogo. Il giardino come luogo in cui perdersi, come luogo sinuoso di specchio dell’inconscio, per me è questo posto qui, lo spettacolo. Ha già una forma precisa, ma in questa perdita di possibilità da quello che è, per me c’è la fine del mondo. In questo momento sono sommerso in questa vicenda, me lo sogno di notte ha preso una piega un po’ maniacale, lo ammetto. Tutto ciò, ci tengo a dirlo, non in quanto spettacolo, ma in quanto esperienza di vita. Ciò che più mi coinvolge è capire come siamo arrivati al fatto che all’Arena del Sole Giuliano Bianchi ha un metro in mano dopo aver posato un piccione in platea e avermi mostrato una viola che regalerà a Paola in seguito, con la Leti (Letizia Calori, scenografa) che scrive seduta a terra; mi emoziona sentire Giuliano che dice dei numeri come Masha alla fine del Gabbiano. Trepilov si sparerà, io no, quindi la cosa si fa più interessante!
Ilaria Cecchinato, Ornella Giua, Sofia Longhini, Gianluca Poggi
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.