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Intrattenersi a morte. “Il fuoco era la cura” di Sotterraneo

di Giulia Penta

Je crois que les livres ont échoué puisqu’ils n’ont

jamais empêché la guerre.

Amélie Nothomb,

Entretien avec Christian Libens, 1966

Non servono nuovi Bücherverbrennungen per compiere atti censori nei confronti della cultura. Se da un lato, come afferma Walter Siti, «concepiamo la censura come un impedire di sapere, l’alluvione di informazioni proveniente da un’infinità caotica di fonti ne è certamente un antidoto», dall’altro «ci può essere una censura che invece di impedire toglie semplicemente il desiderio di sapere. Una censura per abbondanza invece che per privazione». Oggi è sufficiente la distrazione endemica che aumenta quanto più ci sentiamo smarriti nel caos, bisognosi di una promessa di ordine, per generare silenziose forme di censura capaci di mettere in crisi il pensiero complesso. Questa idea insieme all’evidenza che anche nelle democrazie più solide si annidi il seme della deriva totalitaria, sono alla base de Il fuoco era la cura, la nuova attesa creazione di Sotterraneo che ha debuttato dal 9 al 14 aprile al Teatro Fabbricone di Prato e da poco concluso le recite al Teatro Studio Melato del Piccolo Teatro di Milano.

Dopo aver rappresentato in Overload (Premio Ubu 2018) l’angoscia da infodemie e la tendenza a costruire una conoscenza frammentaria, causate dell’eccesso di informazioni a cui siamo sottoposti e la cui fruizione rende sempre più debole la nostra capacità di conoscere, e ne L’Angelo della Storia (Premio Ubu 2022) la vertigine dell’Angelus Novus di Walter Benjamin di fronte all’assenza di confini nelle storie attraversate dall’umanità, Sotterraneo prosegue la sua acuta ricerca teorica sulla rappresentazione del tempo presente dove è più facile immaginare la fine del mondo che un mondo diverso scegliendo sempre come punto di vista privilegiato quello marginale di chi è sopravvissuto (o quasi) alla catastrofe. Se in Overload il modello letterario è quello di Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace, utilizzato solo come sottotraccia, eco di quel tentativo impossibile di rappresentazione della realtà di un’America assuefatta dove il legame tra intrattenimento e dipendenze era in parte già iniziato, ne Il fuoco era la cura Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa scelgono di mettere in scena l’universo distopico del cult Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953) e dei suoi protagonisti (Guy Montag, Beatty, Mildred, Clarissa, Faber). Facendo leva su questo potente immaginario collettivo, lo spettatore è sfidato ad andare oltre la trama di uno dei romanzi più famosi della cultura occidentale. La fortunata allegoria elaborata da Bradbury per denunciare i regimi totalitari e la censura nei confronti della libertà di espressione cede il passo a ciò che Siti individua nel totalitarismo non “condannato dalla Storia”, ma che «anzi si trova in una fase di piena affermazione, quello delle multinazionali delle notizie e dei modelli di vita».

Due schermi continuamente accesi dominano infatti il palcoscenico: una rappresentazione del pensiero duale e metafora del nostro quotidiano bidimensionale orizzonte di vita. A più riprese vi leggiamo ambigue riflessioni e domande che ci traghettano altrove. Il pubblico è sospinto a disambientarsi, a lasciarsi condurre fuori da ciò che accade sulla scena nonostante il palcoscenico sia il terreno preparatorio, non l’approdo, mai la risoluzione. Gli elementi drammaturgici ipertestuali costringono chi guarda a cambiare punto di vista, a dare vita a inaspettate associazioni di pensiero. È vero o è finzione? Essere certi di star assistendo a una rappresentazione ci fa sentire più al sicuro?

Nessuno sgancerà mai l’atomica.

L’olocausto nucleare potrebbe accadere in qualsiasi momento.

L’Italia ha l’atomica?

Sì.

No.

La NATO ce l’ha.

Israele ha l’atomica?

Il problema è che la Russia ce l’ha.

Perché dovrebbero averla gli Stati Uniti e la Russia no?

Lo spettacolo inizia con un’ironica operazione di fact-checking. Fahrenheit 451 è davvero la temperatura di combustione della carta? Non esattamente, ma suonava sufficientemente bene al suo autore. Perché rovinare una bella storia con la verità?

(foto di Masiar Pasquali)

Cinque sedie sistemate in maniera ordinata sul proscenio accolgono i cinque attori-performer (Flavia Comi, Davide Fasano, Fabio Mascagni, Radu Murarasu, Cristiana Tramparulo) che con una voce registrata fuori campo si presentano al pubblico uno alla volta. Sono loro i nuovi Book-People di questo nostro presente distopico: Cristiana ha con sé Infinite Jest di D.F. Wallace, Radu sfoglia le oltre 1000 pagine che compongono i Quaderni di E. M. Cioran, Davide tiene aperta la prima pagina della saga di Harry Potter ementre Flavia legge Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie, Fabio stringe Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Ognuno di loro sta cercando di memorizzare il proprio prescelto, senza successo. Tranne Fahrenheit 451, quello sì, lo hanno imparato bene. La sovrapposizione di più piani narrativi esplorata da Sotterraneo in molti dei suoi lavori, si struttura qui secondo tre livelli principali: il presente performativo, il romanzo di Bradbury e un mockumentary metanarrativo ambientato nel 2051 dove gli attori interagiscono con il pubblico come in uno dei tanti bord de scène organizzati dai teatri al fine di avvicinare lo spettatore al contenuto dell’opera. Un momento prezioso per porre domande agli artisti sfruttando l’unicità della compresenza che il mezzo teatrale offre ancora nel XXI secolo (per quanto tempo ancora?). Eppure, a differenza di altri spettacoli del collettivo toscano, nella drammaturgia de Il fuoco era la cura firmata da Daniele Villa non c’è spazio per l’interazione, lasciando così il pubblico in un muto ascolto delle trasformazioni (involuzioni) che la società ha subìto tra il 2028 e il 2034. In questo futuro prossimo, il teatro come forma d’arte è morto per carenza di budget – raccontano gli attori che nel 2024 si apprestavano a mettere in piedi lo spettacolo a cui stiamo assistendo – come si evince dalla grandiosa scenografia che, mancante, viene descritta nei minimi dettagli per aiutare il pubblico a compiere uno sforzo di immaginazione. I tre piani narrativi collassano al centro della scena per ritrovarsi in uno stesso spazio-tempo: il futuro è già qui, tra le mura dell’ex stabilimento tessile più grande di Prato, dove nessuno degli attori è riuscito ad andare oltre la prima pagina dei nuovi mondi contenuti in quei testi perché negli anni Venti si fa fatica a rimanere concentrati sui libri, eravamo tutti analfabeti funzionali.

Al momento presente, nel 2051, il Ministero della Cultura è stato dismesso. L’instabilità dei governi democratici è assurda e ai cittadini è stata richiesta una patente di voto che solo il 9% riuscirebbe ad ottenere al momento della simulazione. Il 91% non supera il test. E mentre assistiamo solo ad alcune delle dieci domande del mock test, il dubbio assale anche noi che leggiamo sconcerto sui volti degli attori: Ma il bicameralismo italiano è un bicameralismo perfetto o imperfetto? Chi elegge i rappresentanti del Parlamento europeo? O era il Consiglio europeo? Deep fake, shitstorm, deficit dell’attenzione, infodemie, crisi demografica, aumento delle temperature globali, nube tossica mediatica, guerre nucleari, guerre di narrazioni, fatwa virtuali che diventano reali: nel 2051 J.K. Rowling viene assassinata. Alcuni dicono che sia stato su mandato della destra ultracattolica per via delle interpretazioni sataniste dell’intera saga di Harry Potter, altri danno la colpa all’estrema sinistra LGBTQIA+ che accusava la scrittrice di essere una “TERF”, una femminista transfobica. E nel frattempoTender dei Blur ci insinua, ma davvero love’s the greatest thing that we have?

(foto di Masiar Pasquali)

La realtà non esiste, esistono solo le sue interpretazioni.

I performer si stringono a cerchio attorno a un faro motorizzato, corpi danzanti intorno al fuoco di Prometeo rappresentano La Danza di Henri Matisse che ora compare sulla scena a fare da specchio. È attorno a un fuoco che sono nate le storie ed è qui che sono morte decine di migliaia di volte nel corso della storia umana. Dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini. L’aforisma del poeta tedesco Heinrich Heine diventa realtà quando nell’agosto 1992 l’artiglieria serba distrugge la Vijecnica, l’antica biblioteca di Sarajevo. Nel 2003 anche a Baghdad viene distrutta da un incendio doloso la biblioteca e gli archivi nazionali che custodivano i segreti del regime di Saddam Hussein. Nel 2015 l’Isis dà alle fiamme la biblioteca e il museo di Mosul, storie e idoli di un passato da cancellare. Nell’estate 2023 in Svezia vengono bruciate alcune copie del Corano. E al contrario di quella nei confronti di J.K. Rowling del 2051, la fatwa globale contro i versi di Salman Rushdie non è stata affatto virtuale, né l’unica, ma solo la più clamorosa a livello mediatico. J.K. Rowling ha espresso solidarietà per davvero a Salman Rushdie. Nessuno dei due è stato assassinato. Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese dei versi satanici di Rushdie, sì: trovato morto nel suo ufficio all’Università di Tsukuba nel luglio 1991. L’idea del fuoco purificatore esiste ancora e libricidi veri vengono commessi in diverse parti del mondo. Ridurre la conoscenza, perseguitare l’alterità, sopprimere le differenze, cancellare la memoria. Eppure perché difendere strenuamente la letteratura, l’arte in generale? Da dove deriva – si chiede Nicola Lagioia nel podcast Fare un fuoco (puntata 05.04.2024) – questa supposta capacità dell’arte letteraria di rendere la realtà migliore? La montagna incantata di Thomas Mann non è riuscita a impedire l’insorgere del nazismo. La poesia e l’arte non sono tecnologie in grado di realizzare il mondo nuovo, ma vanno alimentate e protette in quanto creano uno spazio mentale dove poter immaginare futuri alternativi.

Fire Water Burn dei Bloodhound Gang riempie il nostro spazio mentale (The roof, the roof, the roof is on fire / We don’t need no water, let the motherfucker burn) mentre ci chiediamo se a patto di vederci riconosciuti libertà e benessere economico, saremmo capaci di rinunciare alla democrazia e di lasciare che siano sempre gli altri a bruciare. Davvero non ci ha mai attraversato il pensiero che le risposte urgenti alla crisi climatica potrebbero arrivare solo da un processo decisionale più autoritario?

Mentre i nostri attori-performer ormai completamente irriconoscibili – eroicamente uguali – nei loro completi da White Clowns (la simbolica rappresentazione di tutto ciò che funge da ipnotica distrazione nella società di Fahrenheit) danzano sulle note di Play with Fire di Sam Tinnesz per mostrarci che la metamorfosi da artista-attore a puro entertainer si è compiuta, penso che non molti mesi fa a Hong Kong giganteschi palloni gonfiabili a forma di cuore – i chubby hearts della designer britannica Anya Hindmarch – hanno contrassegnato i principali luoghi di interesse della città, un simpatico e innocuo diversivo per distrarre la comunità dalla corsa all’approvazione della nuova legge sulla sicurezza nazionale. Quasi a riprova del fatto che la contemporanea organizzazione della cultura è sempre capitalistica, mai neutra. Nella distopia di Bradbury le azioni di resistenza sono rappresentate dai Book-People (gli Uomini-Libro che mandano a memoria i libri per sottrarli all’epurazione) stretti intorno a un fuoco che riscalda e basta, e noi di quale resistenza avremo bisogno?

(foto di Masiar Pasquali)

Attraverso l’ironia e una complessa grammatica teatrale, Il fuoco era la cura di Sotterraneo si rivela come un’intensa attivazione del reale attraverso un’interruzione della realtà che ci permette di intravederne i simboli. In un momento storico in cui anche l’arte collettiva per eccellenza si ritrova spesso banalizzata dalla produzione indiscriminata richiesta dal sistema culturale odierno, sorge spontaneo chiedersi che tipo di spettatori siamo, esigendo di risponderci con onestà alla stessa maniera con cui durante lo spettacolo ci domandiamo che tipo di cittadini siamo: anche noi falliremmo se prima delle elezioni ci sottoponessimo al test per la patente di voto? A lasciarci con l’amaro in bocca è la sensazione di avere ampiamente superato la distopia rappresentata da Fahrenheit 451:lo spettacolo è una seria caricatura del consumo culturale post post-moderno, dove i poteri non hanno più bisogno di censurare l’arte perché l’arte stessa non è più al vertice del sistema simbolico della cultura, ma un elemento di questo sistema – come osserva il filosofo Yves Michaud nel suo saggio sul trionfo dell’estetica (L’arte allo stato gassoso, Mimesis, 2019). La distrazione e il caos in cui siamo immersi ci spinge alla ricerca di una immedesimazione identitaria, più che alla ricerca di una illuminazione. Forse la scelta da parte di Sotterraneo di privare lo spettatore dell’interazione con l’oggetto d’arte è un rischio assunto consapevolmente con l’obiettivo di sottrarlo all’esperienza estetica della relazione dove, tutt’uno con il dispositivo artistico, faticherebbe ad abitare il processo conoscitivo, preso dalla contemplazione tipica del flâneur, del turista che è l’uomo contemporaneo: l’“essere a episodi”, compartimentato, inquieto, ansioso, che si inganna scambiando la verità con l’immediato soddisfacimento del piacere. Le democrazie stanno fallendo e il mondo non è mai stato così intriso di arte. Una confusione questa, tra arte e comunicazione che ci porta a chiederci che cosa stiamo difendendo quando assistiamo ad atti di censura? Sono le nostre idee, la nostra libertà di espressione, le nostre differenze o i nostri autoritratti? Sotterraneo ancora una volta si dimostra all’altezza dei tempi confusi che stiamo attraversando e con preoccupazione ci consegna un esercizio di futuro più che uno spettacolo teatrale, insieme con una riflessione sull’obsolescenza della cultura interconnessa alla drammatica torsione metamorfica dei nostri comportamenti umani.

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