Edipo re di Sofocle, frutto dell’attento sguardo registico di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti. Minuziosi e quasi maniacali, i due attori, da tempo abituati a rapportarsi alla materia classica, si avvicinano alla tragedia grazie a un intenso lavoro filologico condotto insieme a Federico Condello, professore di Filologia greca presso l’Università di Bologna e autore della traduzione del testo. La scena è affidata interamente ai due attori, perché due sono i poli attorno ai quali gravita l’azione drammatica: Edipo (Gianluca Guidotti) e l’Altro, cioè Creonte, Tiresia, Giocasta, il Coro, servi, nunzi, tutti interpretati da Enrica Sangiovanni. La loro fedeltà al modello si traduce con la scarnificazione, la riduzione all’essenziale di ogni componente scenico. Ad accogliere il pubblico nel silenzio della chiesa sono le luci basse e una scenografia ridotta al minimo, composta da una sedia, un grande ombrello rosso orientale e tre passerelle di legno su cui camminano i due attori, passerelle che si incrociano e confluiscono nella sagoma di una porta – o di una ghigliottina – a significare l’entrata nel palazzo. È la resa plastica di quel trivio che segna la “passione” di Edipo, in cui egli uccide – non sapendo – il padre Laio, motivo per cui poi sposerà – non sapendo – la madre Giocasta. Ma il trivio è anche rappresentazione del λ, prima lettera della stirpe di Labdaco, di forma asimmetrica e perfetta per indicare la zoppia, il difetto di tutta una stirpe. I due attori costruiscono lo stato ansioso e asmatico di un Edipo che vuole conoscere, sapere, vedere la verità, tutte parole che accentua la voce di Guidotti. È un personaggio vulnerabile, umano, che incassa i colpi di un’abominevole verità colmando il suo vuoto di conoscenza: minuto dopo minuto, Guidotti è intrappolato in una smania di sapere insana, squilibrata, che lo disorienta nei gesti, lo turba nella voce. E Sangiovanni, figura perennemente cangiante, porta all’inizio sulle spalle l’agitazione di una città colpita dal miasma; l’arroganza di Tiresia che ostenta il suo paradigmatico possesso di verità; l’ansia dei servi e dei nunzi nel non voler rivelare il fatto ma, costretti e tremanti, cedono di fronte alle richieste del re; il dolore di Giocasta che uscirà di scena appendendo il suo mantello alla sagoma di quella porta. Rosso sangue, dondolerà per tutto il resto del dramma, ricordandoci la sua morte. I due si muovono alternando staticità e dinamismo: tutti i movimenti sono calibrati e ridotti all’essenziale, vago ricordo di teatro orientale; le voci sono così taglienti da poter congelare o squarciare l’aria; l’atmosfera è oracolare, onirica, in continua tensione. Chiude la scena la desolazione e lo strazio di un Edipo ormai cieco, rivolgendo le sue ultime parole a noi, immersi nel buio, in silenzio, tutti così piccoli e umani.
Martina Bubba
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.