Di fronte a un pubblico giovane, ci si chiede come sia possibile proporre un teatro che non si risolva nel divertimento, pur contemplandolo, che non si limiti al gioco, pur mettendolo al centro. In quelle due ore mattutine in cui sono convocate classi di scuole secondarie come porre domande che non garantiscono risposte consolanti, capaci di produrre uno spaesamento vero, di restare nei pensieri di ragazzini e ragazzine? Chiara Renzi e Daniele Bonaiuti, con Across the universe, spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole, fanno reagire fra loro gli elementi di base del teatro: due attori, uno spazio vuoto, musiche, luci ed essenziali elementi scenografici. Dall’alto cade all’improvviso con grande tonfo un cuscinone marrone: è un meteorite, che più avanti passerà in miniatura sul fondo, come volando, trascinato da corde e carrucole. Una sequela di “scenette” giustapposte danno sostanza a un arco narrativo che parla del mondo che ci circonda, del cosmo e delle camerette di ognuno di noi, dell’amore e dell’amicizia, della quotidianità e delle distanze reali e immaginarie. Un occhio di bue illumina una porzione di spazio, al centro c’è una donna, una voce off cinematografica chiede: «Hai sessanta secondi, stai per morire, cosa fai?».
Siamo a Parma, al Teatro al Parco gestito dal Teatro delle Briciole, realtà che da trent’anni dialoga con i pubblici giovani e giovanissimi producendo linguaggi della scena con il coraggio di porsi le domande dell’infanzia, dunque le domande di tutti (dal CollettivO CineticO a Mirto Baliani, da Beatrice Baruffini al Teatro Sotterraneo, gruppo con il quale Renzi e Bonaiuti hanno collaborato come attori per La repubblica dei bambini). Cosa faremmo, se avessimo un minuto di vita? Tale domanda resta inevasa, ma imprime la sua tensione sugli sviluppi narrativi che verranno. È una domanda “adulta”, siamo noi a imporla a chi è più piccolo, chiudendo in un unico scopo le avventure della crescita. Due attori dialogano fra loro e inventano situazioni drammatiche intercalate da musiche e momenti di buio, creando personaggi la cui consistenza teatrale “si vede” grazie a un meccanismo di cambi di scena serrati, evitando così scivolose psicologie. Una ragazza si rivolge agli spettatori, sta per iniziare una spiegazione scolastica sulla conformazione dell’universo. Si alza un uomo, le dichiara improvvisamente il suo amore, canta a squarciagola «Il più grande spettacolo dopo il big bang siamo noi» di Jovanotti, ma lei non accetta, non lo ama. Primo spaesamento. Buio. Entra un astronauta, dice che è solo grazie al teatro che noi possiamo immaginare che di fronte a noi ci sia un vero astronauta. Lui sta per partire, i dubbi lo assalgono, ha paura, forse non parte. Secondo spaesamento. Poco dopo entrano due col casco da viaggiatori nello spazio, l’attrice svolge un metro retrattile, l’uomo esce da una quinta, descrive quello che vede, dice di stare salendo, il metro viene puntato verso l’alto e ci proiettiamo nel cosmo, la voce off di lui osserva la terra dal cielo dialogando con la donna rimasta di fronte a noi, col suo metro, alla misura delle nostre altezze. In audio Bowie chiama il Maggiore Tom, la distanza siderale diventa qualcosa che si vorrebbe colmare, un legame fra una coppia separata.
Altro cambio scena, questa volta compare sul palco un tappetino verde d’erba, un fazzoletto, un metro quadro di terra, un giardino da condominio per fare ginnastica e yoga. I due discutono attorno ai “perché”: che senso ha rifare il letto tutti i giorni, se poi tutti i giorni andiamo a dormire? Dal cosmo torniamo al quotidiano, alla città, con un’infanzia che non ha paura di porsi domande grandi, di chiedersi il perché di tutto, a partire dalle coperte della cameretta per giungere al senso della vita. Questa ci pare una della peculiarità che spicca in Across the universe, il coraggio di porre interrogativi che non hanno risposta, insinuando grandi dubbi, questioni capitali, forgiando immagini non semplici da incasellare, come quando entra uno scimmione, salgono le percussioni di Wagner come in 2001: Odissea nello spazio e l’animale porta con sé il pugno blu con l’indice alzato, l’arcinoto “like”: visione che fa stridere una sensazione da alba dell’umanità con l’iperattualità mediale che occupa l’immaginario di tutti. Incontriamo diversi altri personaggi, vecchietti che discettano sul cosmo, starlette televisive, maratoneti che vorrebbero misurare i confini dell’universo, prima del finale che torna all’inizio, in un cerchio che si chiude e ricomincia. Questa volta è l’uomo a trovarsi solo al centro di un fascio di luce, c’è sempre un solo minuto prima della morte, la risposte al “che cosa fai” in questo minuto sono confuse, vaghe, balbettanti. La bella notizia è che restiamo spaesati in un presente teatrale che parla dell’universo, dove insieme a un centinaio di ragazzini stiamo osservando solo due attori.
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.