Osservare il mondo a partire dal suo rumore di fondo: le città come insiemi di voci che si sovrastano, i passaggi di generazioni a risolversi in scie sonore, il teatro che si fa dunque cassa di risonanza per un sussurro tribale, un urlo biografico e insieme politico. Ci sembra di aver visto la scena altre mille volte: quanta serialità americana ci ha abituato a “inni metropolitani” di questo tipo? I fili della trama che per un attimo si allentano, mentre la telecamera indugia sui volti, sulle strade e sulla sera che lenta scende fra i grattacieli, e la musica incalza sempre più suggestiva… Anche con Panorama dei Motus siamo nella metropoli per eccellenza, a New York, che “vediamo” però solo attraverso parole e gesti degli attori de La Mama. Loro sono continuamente sdoppiati, smembrati: l’immagine proiettata in diretta su uno e più schermi, il racconto auto(?)biografico di ciascuno ripreso da diversi attori, fino a non capire chi è chi e chi interpreta cosa. Sembrano parlarci della propria vita, ma forse stanno solo ipotizzando differenti idee di vita e di diversità. Ci dicono che cosa è l’America per loro, o meglio, che cosa sono loro per l’America, quindi certo si accenna anche a Trump e alle nuove, minacciose, “vibrazioni” portate dalla sua elezione. Intanto, l’identità dei “personaggi” – ma verrebbe da dire la realtà stessa (poiché, in Panorama, non pare darsi realtà al di fuori delle identità) – inizia a liquefarsi sino a diventare una mera allusione metaforica, mentre l’orgasmo autoprocuratosi da un’attrice assume piena concretezza visiva nello scoppio di un sacchetto di patatine.
Noi siamo smarriti, non sappiamo cosa osservare e dove tendere, immersi in una trasparenza che fa rimbalzare lo sguardo. Ci aspetteremmo degli affondi, qualcosa che scavi dentro l’inconscio o la coscienza dei personaggi. Eppure, diceva Gombrowicz, la coscienza non ha nulla da svelarci: «La molla dell’agire non sta nella coscienza dell’individuo – si legge nei Diari – ma nel rapporto che si crea tra la coscienza e gli altri uomini». Più che una consapevolezza, è un manifesto. È l’invito a un teatro che metta in crisi la sua propria frontalità, spingendo lo sguardo di lato e curvando il palco sino a farlo sfuggire dal suo asse, a farlo diventare ellittico. Qualcosa che assomiglia a un tentativo di abbraccio, a un sorriso eccedente, sfocato e fuori di misura. Ma proprio per questo, collettivo.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.