David è morto a cinque voci, campo di nuove sperimentazioni per i registi Castellani e Raimondi rimasti fuori dalla scena, è tempo di un rientro. Ma solo a metà. Sulla scenografia scarna ed essenziale di Pedigree (quinte visibili, spiedo e una poltrona-moto che ricorda una giostra per bambini al lato sinistro del palco), con in sottofondo la calda voce di Elvis in Love Me Tender, da una dissolvenza dal buio (luci di Luca Scotton) compare Enrico Castellani, che, col linguaggio tipico della compagnia, misto fra il rap e l’elencazione, dà inizio ad una narrazione. Il mito platonico dell’essere ermafrodita diviso in due dalla divinità e destinato a ricercare la parte che lo completi (che sia o meno dello stesso sesso, perché in Platone non ci sono differenze) fa presto spazio al tema dell’omosessualità e alla correlata tematica della genitorialità, già affrontata dalla compagnia in Jesus e colorata qui di sfumature nuove. Di genitorialità omosessuale, biologica e di fatto parla il racconto del personaggio di cui non conosciamo il nome ma che ci rivela quello delle sue madri, Marta e Perla, quello del padre genetico Paul che immagina e non ha mai conosciuto, quello degli altri 5 «frutti del seme di Paul» dalle disparate nazionalità infine quello del compagno d’infanzia Dennis, incarnazione dei pregiudizi di un’intera società. E poi ci sono i polli: quelli che qualche anno fa girovagavano sulla scena di Underwork insieme ai giovani italiani che sguazzavano in vasche di divertimento e precariato, e adesso sono morti e disturbanti, mentre cuociono sullo spiedo, impregnando la sala con l’intensità del loro odore. Anche loro si chiamano Dennis e sono i protagonisti di un problema matematico nel quale viene richiesto di dividerne la quantità (sono in tutto quattro) per quella dei componenti di una famiglia tradizionale, con padre, madre e cinque figli. Problema che fornisce al compagno di scuola del protagonista il pretesto per chiedergli perché lui, un padre, non ce l’abbia. Al senso di giudizio che proviene dall’esterno, il personaggio in scena oppone un tribunale interiore che non assolve l’amichetto pur elencando tutte le possibili attenuanti che non è disposto a concedergli. Coloriture dialettali venete occasionalmente arricchiscono il racconto. I personaggi non visibili sono evocati dalle parole o dagli oggetti: come le madri, che sembra di vedere danzare sulla scena al posto dei due vestiti bianchi, calati dal soffitto con quei cordoni che sono ormai un dispositivo fisso del teatro dei Babilonia. Ancora con un cordone calerà in scena la protesi del pancione, indossata poi da Castellani che simulerà delle doglie. La biografia fa spazio al surreale e al delirante: dall’incubo degli alimenti «bio-logici!» che circondano il protagonista tormentandolo, alla dichiarazione del desiderio di scopare la sorella: quasi una versione aggiornata di quell’edipico madre voglio fotterti che gridava Morrison in The End, a fine anni ’60. All’immaginario rock ricorre anche la scelta dei classici del repertorio di Elvis che accompagnano lo spettacolo, fino al White Christmas della finale scena natalizia, con cammeo di Scotton nei panni del divo con giacca in pelle e occhiali. Ripenso allora al banchetto natalizio con larga famiglia tradizionale e agnello appeso in Jesus e mi sembra di vedere in Pedigree l’estensione di una rivendicazione di libertà profondamente insita nella poetica della compagnia. Prima c’erano l’agnello e la proclamazione di un credo intimo ed estraneo a dogmi di sorta, adesso si rivendica la necessità di sottrarsi a sistemi binari e dicotomie nei quali non rientrano cinque fratelli di seme che mangiano pollo a Natale, a casa delle mamme lesbiche di uno di loro. A rimanere intatto è il decoupage che mescola in sé, demistificandoli, tutti i tormentoni che attraversano il quotidiano: un linguaggio pop-politico che ritorna consolidato, per l’ampliamento di un tema che arde. Come i polli allo spiedo.
Martina Vullo
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.