altrevelocita-logo-nero
(foto di Masiar Pasquali)
(foto di Masiar Pasquali)

“Ho paura torero” di Claudio Longhi, o della coralità politica come struggimento

di Lorenzo Donati

Dopo pochi minuti dall’inizio, qualcosa ci spinge a guardare fuori dai confini dello spettacolo proprio mentre questi stanno prendendo forma. Aporia della visione.

Ho paura torero, in scena al Piccolo di Milano nelle scorse settimane per un mese di tenitura, con i posti andati esauriti in pochi giorni, è stata la prima regia del direttore Claudio Longhi dalla sua nomina, un lavoro tratto dall’omonimo romanzo di Pedro Lemebel, saggista, scrittore, attivista, performer cileno scomparso nel 2015. Figura per lungo tempo ai bordi del canone letterario, Lemebel si è opposto al regime di Pinochet da una prospettiva acentrica perché omosessuale, proletaria e situazionista. È divenuto noto, infatti, anche per le azioni di contestazione con il gruppo Le giumente dell’Apocalisse, fondato con Francisco Casas a fine anni ‘80. Sarà che questo spirito aleggia da subito, scaldando la platea del Grassi, la storica sala del più antico teatro pubblico italiano. O sarà la scelta di animare il racconto in tutti gli spazi disponibili, varcando i confini del boccascena: coi volantini di un’azione di protesta rovesciati dall’alto, con gli attori e le attrici che si scambiano dialoghi dalle balaustre della galleria, con le pareti del teatro segnate da stencil e disegni murali come durante la cosiddetta “battaglia dei muri” per l’elezione di Salvador Allende, prima del suo brutale assassinio e dell’instaurarsi di una delle dittature militari più lunghe del Sudamerica (1973-1990).


Lo spettacolo, come il romanzo, sviluppa gli eventi di una manciata di settimane dell’anno 1986, quando il dittatore uscì illeso da un tentativo di attentato per opera del Fronte Patriottico Manuel Rodriguez. Il racconto scenico alterna due piani, spazialmente contraddistinti: al “piano terra” c’è la casa della Fata dell’Angolo (in spagnolo La loca del frente), la protagonista sex-worker che s’innamora di Carlos, traslocatore e studente presunto membro del Fronte Patriottico, mentre del “primo piano” diremo a breve. La Fata è un uomo sulla cinquantina, maricòn, traducibile con l’italiano frocio, nell’accezione di un’alterità rivendicata, un ex-femminiello che nel nostro emisfero abiterebbe i vicoli di Enzo Moscato e Annibale Ruccello. Nella sua soffitta, sempre fuori scena, la Fata ospita le riunioni di Carlos e del suo gruppo di amici, sessioni di studio universitario che comprendiamo essere i preparativi dell’attentato. Dicevamo anche della presenza di un “primo piano” della casa-scenografia: un balcone da cui si sporge la coppia presidenziale, Pinochet in persona e sua moglie Lucía Hiriart Rodríguez, impegnati in dissertazioni su un buen retiro in campagna al riparo dagli oppositori, su viaggi e accoglienze internazionali dove la donna possa aggiornare il guardaroba con le creazioni di alta moda. È dunque solo sulle assi del palcoscenico che prende vita la quotidianità casalinga, con lo spazio colmo di casse di legno che come moduli si spostano e riconfigurano stanze di cemento e lamiera. Scorrono di fronte a noi gli incontri con Carlos e pomeriggi passati dalla Fata insieme alle sue amiche e colleghe di lavoro, dei tappeti e delle stoffe ricoprono le superfici per generare sofà e tavolini, a un tratto le immagini proiettate ricostruiscono un interno borghese di una ricca signora a cui la fata dovrebbe recapitare una tovaglia ricamata (una delle sue occupazioni lavorative). I lampadari scendono e salgono marcando il confine fra la promiscuità delle relazioni, in basso, e la casa protetta dei dittatori in alto, col Generale inquadrato alle spalle da una grande finestra rettangolare su cui s’imprimono proiezioni di video d’epoca come il palazzo della Moneda bombardata l’11 settembre 1973, l’ultimo discorso di Allende, i paesaggi cileni dove Pinochet si riparava dal trambusto di Santiago, e così via, una raffinata via “documentaria” incardinata nella diegesi rappresentativa: una tenda o una finestra che si spalanca per ricordarci la realtà dei fatti. La messa in scena si configura anche come proposta “neoepica” di relazione fra teatro e letteratura: come già accadeva nel Pasticciaccio da Gadda di Luca Ronconi (1996, di cui Longhi fu assistente alla regia, e come si legge nel preziosissimo programma di sala, scaricabile sul sito del Piccolo), gli attori in scena recitano sia la terza persona del romanzo, “raccontando i propri personaggi”, sia parti di dialogo in prima persona. Narrazione e rappresentazione si danno dunque continuamente la parola, uno stratagemma che disloca l’ascolto dando aria al bel trattamento scenico operato sul testo da Alejandro Tantanian, regista e autore di Buenos Aires con una solida confidenza sui passaggi da letteratura a teatro, già collaboratore di Longhi nel precedente progetto Il peso del mondo nelle cose (2020).


Cosa accade, dunque, in queste poche settimane in cui si ambienta la vicenda? È l’andirivieni di Carlos a generare le azioni, i suoi ingressi sconquassano la vita della Fata, che inizia a sospettare ci sia qualcosa di illecito nelle attività dei giovani, ma al contempo si avvicina sentimentalmente all’uomo, lo ghermisce con il suo eloquio romanticamente sopra le righe, lo accompagna a un pic-nic (capiamo essere il luogo prescelto per l’attentato) e si offre di aiutarlo, evitando però di dichiararsi senza infingimenti, schernendosi con l’ironia ma sospirando per le risposte reticenti dell’amato. Nel frattempo la realtà della dittatura preme per entrare e noi veniamo proiettati nelle strade di Santiago: una silhouette di tubi e un sedile creano l’immagine metonimica di un bus, Carlos ha infatti chiesto alla Fata di effettuare una consegna e lei si avventura, rischiando di venire arrestata. Da un lato del palco sale una scala con una sorta di pulpito: è Radio Cooperativa, emittente cilena che diffondeva informazioni vitali per la resistenza e che qui, di tanto in tanto, ci riporta ai fatti storici con una funzione di montaggio interno verso gli incubi di un Pinochet sempre più tormentato, disteso su una chaise longue. Ma oltre a tutto questo, in scena monta una sensazione di struggimento, quello di un amore che sembra non potersi completare e quello di una persuasione politica che non troverà compimento. Da una scena all’altra si spandono canzoni d’amore e melanconia: sale la voce rotta di Chavela Vargas («mi hai abituato a pensare a tutte queste cose, mi ha insegnato che sono meravigliosa»), rapisce la dolcezza triste di Violeta Parra, coi suoi intramontabili versi («grazie alla vita, che mi ha dato tanto»), rinfranca l’altera Mercedes Sosa e il suo inno alla poetessa suicida Alfonsina Storni («E una voce antica di vento e di sale ti conquista l’anima»); torna più volte anche il Tengo miedo torero del titolo, nella versione di Lola Flores, sussurro d’amore che i due si scambiano. In una scena centrale Carlos giace stanco e ubriaco, abbandonato su una poltrona con le gambe larghe sui braccioli. La Fata racconta di un avvicinamento e di fluidi scambiati: si consuma così questo amore, possibile solo nell’incoscienza del sonno o forse solo nella mente innamorata della protagonista.

(foto di Masiar Pasquali)


C’è qualcosa che va oltre lo spettacolo stesso, dicevamo all’inizio, e che si diffonde fino dai primi istanti. Certamente è merito dell’ampio progetto culturale che, come di consueto nel lavoro di Longhi, ha trasmesso la conoscenza del testo e dei suoi orizzonti artistici in ampi strati della società, in dialogo con quel “teatro d’arte per tutti” che è all’origine del Piccolo e che si sta mirabilmente dispiegando attraverso conferenze, incontri, progetti pedagogici nelle scuole e nelle università, letture pubbliche, pubblicazioni ecc. Contribuisce a questa sensazione anche la scelta di Lemebel, autore appartenente a un contesto storico i cui contorni tendono a svaporare. Si legga il folgorante incipit de Il coordinatore culturale (in Parlami d’amore, Marcos y Marcos, 2016):

«Se non lo racconto qui, c’è il rischio che il ricordo si perda, la memoria si contorce e si chiude come un’ostrica a certi remember. Perché erano giorni funesti quelli che a stento illuminavano i primi anni Ottanta, quando eravamo davvero pochissimi a esprimere il malcontento in azioni culturali che risvegliassero la coscienza sonnambula dei cileni storditi da troppi bicchieri».

Portare Lemebel al Piccolo è una decisione che ha di per sé una grossa rilevanza. Stiamo parlando di un autore che ha raccontato gli emarginati, gli esclusi, i poveri, i disperati, gli scacciati vivendo con loro gomito a gomito, la sua è quasi una storia orale trasferita nelle forme narrative brevi, a metà fra reportage e racconto come negli scritti del porteño Osvaldo Soriano, altro sudamericano che ha forgiato uno stile caustico, necessario per corrodere l’aria opprimente della destra fascista ma distante da una sagacia altezzosa. Una voce autenticamente popolare, mai dimentica delle sue origini, come quella di un nostro Fabrizio De Andrè, per tentare un paragone.

Quella sensazione iniziale si manifesta in scena in particolare anche grazie al lavoro di gruppo degli attori e delle attrici. Colpiscono la mutevolezza fra vari personaggi di Michele Dell’Utri, severo segretario del dittatore ma anche speaker della radio, fra i tanti, la timorata sfrontatezza del Pinochet di Mario Pirrello, la stolida ferocia di Arianna Scommegna, straordinaria, ai confini del comico, così come convincono la passione energica del Carlos di Francesco Centorame e l’affiatamento generale dell’ensemble, composto inoltre da Daniele Cavone Felicioni, Diana Manea, Giulia Trivero.


Naturalmente non abbiamo ancora menzionato il lavoro di un autentico fuoriclasse, Lino Guanciale, che nei panni della Fata si fa carico della tonalità emotiva e narrativa di molte zone dello spettacolo, passando da un asciutto narrare a un trasportato calarsi nel personaggio, lavorando su una vocalità mirabilmente assottigliata, mai grottesca. Ma ancora non basta. Quello che ci porta continuamente “fuori e dentro” lo spettacolo credo sia una coincidenza cercata, progettata, poi lasciata trasferirsi nelle parole, nei gesti, nei passaggi scenici, nelle musiche. Una delle qualità della prosa di Lemebel è il condurci vicino ai suoi personaggi e alle biografie narrate, lo immaginiamo emozionarsi, piangere, amare, ridere insieme a loro. Così i motivi biografici, sul confine fra verità e finzione, coincidono con gli snodi storici. Come nel finale del romanzo e dello spettacolo, dove su una spiaggia, prefigurando l’esilio, si decidono le sorti di una storia d’amore e si indovina il destino di un paese e della sua gente. Ecco dunque cosa ci porta dentro e fuori lo spettacolo, infondendoci il desiderio di conoscere e di agire: quel sentimento di struggimento amoroso, quel calore nel petto per le voci rotte dall’abbandono pare li abbiano provati – e li provino sera per sera – anche Guanciale, Longhi e tutta la compagnia, artefici di un progetto che respira di una coralità politica nel far coincidere lo scavo nella storia, il discorso sul presente e l’ineffabile tensione amorosa verso i personaggi (come in precedenti lavori, fra i quali ricordiamo La resistibile ascesa di Arturo Ui del 2011 o La classe operaia va in Paradiso, 2018). Oltre all’innegabile profondità e intelligenza di ricerca fra storia, arte e politica, Ho paura torero patisce con i personaggi, se ne innamora, e così facciamo anche noi.

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

Condividi questo articolo

Una risposta

  1. Il più bell’articolo letto fino adesso su Ho paura torero, e ne ho letti tanti, tutti quelli usciti, che mi ha fatto vedere lo spettacolo nonostante io non sia potuta andare a vederlo:grazie

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.