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Hikikomori, tra patologia sociale e atto politico. Intervista a Vincenzo Picone

di Altre Velocità

Dal 26 al 28 aprile all’Arena del Sole sarà in scena Hikikomori, un testo di Holger Shober riproposto in Italia per la regia e drammaturgia di Vincenzo Picone. Il titolo dell’opera ricalca il nome di una patologia sociale diffusa principalmente in Giappone che sembra iniziare ad affliggere anche adolescenti e giovani adulti europei. Chi ne è affetto si caratterizza per le difficoltà nelle relazioni sociali, una forma di depressione che produce il ritirarsi dalla società rinchiudendosi nella propria camera da letto. Senza addentrarci nello spettacolo ci è parso interessante incontrare il regista per approfondire con lui il tema centrale dell’opera, questa patologia sociale la cui traduzione letterale è “stare in disparte” e che presupporrebbe una forma più o meno cosciente di “disobbedienza civile”. Com’è essere un giovane regista oggi in Italia? Innanzitutto il fatto di essere giovane è relativo, lo sono in Italia, ma in altri paesi europei a questa età si hanno già possibilità lavorative importanti, in Francia e Germania per esempio ci sono registi anche molto più giovani di me. In Italia è difficile nella misura in cui è sempre una questione di relazione, è un mettersi in gioco ogni volta. Io ho la fortuna di fare teatro a 360 gradi, cioè occuparmi anche di pedagogia teatrale, di laboratori, di formazione del pubblico, questo mi permette di abbracciare l’aspetto teatrale da più punti di vista. [caption id="attachment_1328" align="alignnone" width="850"] Vincenzo Picone[/caption] Perché ha scelto il testo di Holger Shober? Due anni fa sono venuto a conoscenza del fenomeno Hikikomori, direttamente legato ai giovani e credo sia fondamentale oggi riservare interesse alle problematiche giovanili. Contemporaneamente ho conosciuto il testo di questo autore austriaco che ancora non era tradotto in Italia. È un fenomeno che mi dava la possibilità di vedere una sorta di ferita della società in cui viviamo poiché gli Hikikomori non sono dei malati, la terminologia esatta è patologia sociale, cioè un comportamento che avviene a reazione di una situazione sociale. Ciò mi è sembrato particolarmente interessante soprattutto in relazione a un romanzo molto importante della letteratura europea come La Metamorfosi di Kafka da cui ho anche tratto spunto per lo spettacolo. Portare in scena uno spettacolo come questo può anche considerarsi un tentativo di divulgazione? Larga parte dell’opinione pubblica, specialmente in Giappone, ancora la considera una semplice malattia… Mi interessa l’atto politico più o meno consapevole da parte dei ragazzi che decidono di sottrarsi al gioco della società, l’atto di privare la società del proprio corpo andando a disinnescare dei meccanismi commerciali. In Giappone abbiamo un milione e mezzo di Hikikomori che non consumano i beni tipicamente fabbricati per i ragazzi della loro età. Un milione e mezzo di ragazzi che sottraendosi alla società del consumo la mettono in discussione. Facendo riferimento a ciò che ha appena detto e a una sua vecchia intervista rilasciata in occasione dell’uscita de Il Balcone della Vanità, viene naturale pensare a un riferimento a Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie e a Disobbedienza Civile di Thoreau. C’è una relazione con il testo di La Boétie che va a sottolineare una sorta di inclinazione antropologica da parte dell’uomo ad assoggettarsi evitando di prendersi le proprie responsabilità. Al contrario l’Hikikomori una responsabilità di uscita dalla società se la prende e nello spettacolo questo è molto evidente. Si tratta di un fenomeno che vive di dicotomie, come si vedrà in scena. Da una parte il protagonista H. pare consapevole della sua scelta, della forza fisica e della possibilità che avrebbe di fare qualcosa per la società; in altri momenti è molto debole perché ha paura, una paura che probabilmente va cercata nella memoria. Una delle sue domande ossessive è dove sia iniziato quello che sta vivendo e la sua risposta è che sarebbe da ricercare nell’infanzia …Edipo docet. Cosa ci puoi dire di Rosebud, la protagonista femminile, diretto riferimento a Quarto Potere di Orson Welles? H. ha due finestre sul mondo, una la conosce molto bene ed è la madre, legata a lui con una sorta di cordone ombelicale mai reciso. L’altra è una ragazza conosciuta casualmente in chat che si chiama Rosebud, un nome che evoca appunto il film di Welles. È interessante che Rosebud sia, a volte, alter ego di H. perché con questo nome sembra suggerirci che la via per uscire dalla patologia risieda nella memoria. In Europa il fenomeno Hikikomori vive di un parallelismo con i NEET (not engaged in education, employment or training). Nello spettacolo ci sono riferitemi a questo parallelismo e quali sono le differenze fondamentali tra queste due patologie? Nello spettacolo non ci sono riferimenti espliciti se non l’utilizzo del computer. A questo proposito è importante dire che gli strumenti tecnologici non sono la causa di queste patologie ma uno strumento che i ragazzi utilizzano per connettersi con i loro coetanei, sono la loro finestra sul mondo. Una differenza interessante è che negli Hikikomori, la cui scelta è più drastica, l’utilizzo del computer è più dosato, fanno anche altro, ascoltano musica classica e leggono molto per esempio. A differenza di questi, che hanno nella loro camera il luogo della loro reclusione, per i NEET va bene anche un divano o il tavolo della cucina, la reclusione a cui si sottopongono è più virtuale.  

A cura di Pietro Perelli

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