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(foto di Stefano Scheda)
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Guardare, nominare, dubitare. Processo artistico come esercizio di cittadinanza

di Marco D’Agostin

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una riflessione di Marco D’agostin, coreografo e performer (insignito fra le altre cose di un premio Ubu). Il testo nasce dall’esperienza di tutoraggio che Marco D’Agostin ha svolto nell’ambito del Progetto Artists in ResidenSì durante la residenza artistica di Claudio Larena a dicembre 2024 all’Atelier Sì di Bologna.

Negli stessi giorni in cui ho assistito al lavoro di ricerca per Spinte, il progetto di Claudio Larena, venivo sollecitato dalla rivista “La Falena” ad articolare un discorso attorno al rapporto tra artista, opera e processo. Per la prima volta mi obbligavo a sistematizzare osservazioni fino a quel momento sparse, e lo facevo mettendo in primo piano il processo artistico. Sono certo che le ore trascorse con Claudio abbiano influenzato l’andamento dei pensieri e che mi abbiano suggerito come organizzare le mie argomentazioni. Ci sono molte ragioni per le quali credo che la processualità debba richiedere la massima attenzione da parte di tutti gli agenti: artisti, organizzatori, curatori, classe politica, pubblico. Nei pomeriggi con Claudio ho avuto modo di rivivere la natura più ingenua e radicale di queste ragioni. L’esperienza di tutoraggio al progetto mi ha dato modo di ipotizzare che ci siano quattro azioni calde e centrali a ogni processo artistico.

Guardare i corpi

Si comincia sempre da qui (anche se, con Claudio, si è cominciato da un tavolino). Dal dedicare un tempo smisurato, assolutamente fuori scala, a guardare i corpi che si muovono in uno spazio. Ripenso alle pagine di Paul Auster in Diario d’inverno, quando racconta d’essersi casualmente trovato alle prove aperte per una coreografia di Nina W. e di esser rimasto inebetito dalla visione dei corpi che si muovevano in silenzio – ne parla come di una caduta «nella crepa tra mondo e mondo», da una parte la vita umana, dall’altra l’incapacità o lo sforzo assoluto di esprimerne la verità. Ma in questa fase ancora non è fatta richiesta esplicita di dar conto, di analizzare. Qui è dove un’azione è data (spingersi, in tutti i modi in cui è possibile farlo: spinte bambine, spinte anatomiche, spinte violente, spinte capricciose), e gli occhi son chiamati a dedicare un tempo largo all’osservazione, per farsi piovere addosso le immagini. Senza cercare, anzi invertendo il movimento: non uno sguardo che rintracci un senso, ma uno sguardo che si apra e si faccia permeabile all’ingresso di possibili sistemi di senso.

(foto di Stefano Scheda)

Forgiare i lessici

Ho provocato con metodo la pazienza di Claudio, nelle ore spese assieme, per obbligarlo a scegliere sempre con esattezza le parole che parlano dei corpi. Non perché esista un dizionario di riferimento o una presunta “correttezza” sul metodo con cui si aggettivano le anatomie e i loro movimenti. Al contrario, perché il movimento del linguaggio verso il corpo e del corpo verso il linguaggio mi è apparso in quei pomeriggi all’Atelier Sì (e, retroattivamente, in tutti i pomeriggi della mia vita) come il vero cuore del lavoro coreografico. Quel che mi interessa, qui, è mettere in luce un aspetto del linguaggio che sta prima della sua funzione comunicativa: va da sé che l’idea che sia necessario forgiare un lessico per parlare di una certa idea di corpo (o di una certa idea di spettacolo, o di una certa idea di mondo) sia la conditio sine qua non per permettere agli agenti di una sala prove di relazionarsi e procedere assieme. Ma c’è uno spazio appena antistante questa necessità che mi interessa: è l’atto linguistico e assieme romantico di individuare, assieme, una parola giusta per nominare qualcosa che non ha ancora contorni esatti. Una parola che vale solo per la comunità temporanea della sala prove, che non deve porsi i problemi della diffusione ma solo quelli della sua funzionalità. Una funzionalità che ha in sé però uno slancio, che deve prevedere e lasciare spazio all’evoluzione della parola stessa e al progresso potenziale della cosa che sta cercando di nominare. Questo processo, che è sempre a carico di tutti i partecipanti a una creazione artistica, è di solito coordinato dall’autore (Claudio, in questo caso), che è chiamato a organizzare le proposte e le scoperte lessicali nello stesso rapporto con cui, secondo la linguistica, i parlanti praticano la lingua mentre il dizionario monitora, organizza, fa sintesi.

Una sala prove ha bisogno che siano fabbricate parole care e iper specifiche: cariche cioè di un affetto (che spesso deriva dall’esperienza emotiva che si è fatta assieme per l’introduzione di una certa parola), e assieme esatte, perché devono prendere per mano i corpi e condurli su itinerari analoghi. L’esercizio – sempre collettivo – della scelta e della risemantizzazione continua delle parole è anche una modalità dello stare in allerta, del vigilare sul rapporto tra il corpo come lo vediamo e un certo grado di verità che desideriamo esprimere. Ogni progetto necessita di un nuovo lessico. E non per libidine lirica – nessun fetish per i vocaboli –, ma perché il fare arte ci chiede di cesellare e interrogare continuamente il dire, in una lotta feroce contro l’approssimazione. Estraggo dal quaderno di appunti: «il galateo della pratica di Claudio sta nel tentativo di auto-dissimularsi (c’è uno strano rapporto tra la volitività della camminata e l’insicurezza psicologica con cui si organizzano le mani per spingere)»; «i loop meditativi dell’azione della spinta rischiano di evocare immagini che hanno a che fare solo con un asciutto pendolarismo».

Dubitare assieme

Per chi, come me, deve la propria formazione alle tecniche e alle discipline che hanno messo al centro il corpo – o per meglio dire: l’esercitazione di uno sguardo verso il corpo “da dentro”, cioè dal cuore dell’esperienza del proprio corpo –, c’è un dogma inscalfibile: la conoscenza deriva solo da una paziente e ostinata messa in discussione delle certezze anatomiche. Sia quando il nostro corpo si immette in un’azione per scoprire qualcosa di sé o per riattivare un processo (fisiologico, immaginativo, coreografico, molto più spesso le tre cose assieme), sia quando il nostro sguardo è chiamato a poggiarsi sui processi dei corpi altrui, bisogna re-interrogare sempre l’ordine degli eventi, le immagini collegate agli eventi e le informazioni intermittenti che impressionano il nostro sistema nervoso (e poi, come un’eco, la nostra immaginazione). Si procede sempre, individualmente e poi collettivamente, con la messa alla prova di ipotesi, a partire dalle più elementari: il ciclo di inspirazione ed espirazione, la gravità, l’uso del peso, l’articolazione dei pezzi. Questo avviene sia nella fase di studio, che in quella di allenamento, che in quella di creazione, che in quella di composizione: poco importa se si stia respirando supini al pavimento (così inizia il training che Claudio ha ideato per lavorare sul gesto della spinta) o se si stia scrivendo una complessa coreografia. Il dubbio come sistema di lavoro: vale a dire una convivenza radicale, ma non stressante, con gli interrogativi sul corpo e dal corpo.

(foto di Stefano Scheda)

Aprire le porte

Non ho molti dubbi sul fatto che l’esperienza più pienamente trasformativa che un oggetto artistico può innescare si dia nella sua processualità. È nell’intensità brulicante e vitale di una sala prove, lì dove tutte le azioni di cui ho scritto (il guardare, il nominare, il dubitare) ancora non sono formalizzate o circoscritte, lì dove c’è uno spazio di agency per tutti, anche per i collaboratori non accreditati, che avvengono le cose più importanti. Nei pomeriggi potenzialmente infiniti in cui gli esercizi si alternano alle riflessioni, gli interrogativi alle ipotesi, le pratiche agli smarrimenti, lì i discorsi possono permettersi di sprofondare, smarginare, connettere. Lì i corpi possono concedersi di valicare i territori del conosciuto, e gettarsi in mobilità di cui non si conoscono ancora i principi. Lì si dà la possibilità di vedere qualcosa che non si poteva immaginare, e al contrario anche immaginare qualcosa che si desidera per provare a materializzarlo. Non mi vengono in mente esercizi di cittadinanza più sofisticati. È per questa ragione che mi convinco, con sempre più determinazione, che dovremmo operare un’apertura totale e radicale della sala prove. No, le opere di teatro e danza non sono sufficienti. E non sono più persuaso dai molti dispositivi più o meno informali coi quali, negli ultimi anni, ci siamo obbligati a “condividere il processo di ricerca” con il pubblico – format con un certo grado di performatività che ci hanno esposti e irrigiditi. Credo sia giunto il momento di esporre allo sguardo del pubblico, non senza un certo grado di pornografia, tutto il processo di lavoro. Ripenso al progetto di Boris Charmatz del “Musée de la dance”: un concetto nomade e open source, alla cui base sta l’idea che un possibile museo della danza corrisponda a qualsiasi luogo in cui la danza venga praticata e osservata. E poi penso al fatto che le opere, anche le più partecipate (o partecipative), irreggimentano sempre i rapporti di potere, verticalizzano l’asse palco / platea e in verità, nonostante ci siamo spesso fatti coccolare dal formidabile concetto che l’opera sia aperta e che si risolva nella mente dello spettatore, non spostano mai davvero i vettori. Se nelle sale prove ci fossero poltrone per i cittadini, chiamati a testimoniare solo il nascere delle cose, solo il tentativo di accordarsi, solo il dubitare, solo il guardare qualcosa che non ha ancora una fine, qualcosa che sosta sempre sull’attimo del proprio sorgere, e che continua a estinguersi…

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