La terza edizione del festival Fu Me, che si è tenuta a Cesena dal 29 giugno al 3 luglio 2022, è stata dislocata tra la bella Villa Silvia Carducci come fulcro di gran parte degli eventi e dei ritrovi, Corte Dandini per gli incontri mattutini di “Colazione con gli artisti” e l’ex chiesa dello Spirito Santo per accogliere una mostra fotografica e due spettacoli, arrivando così anche al centro della città. Questa edizione del festival è dedicata alle riscritture del mito, dal momento che – ci ricorda il direttore artistico Michele Di Giacomo – “Future Memorie” (da cui l’acronimo Fu Me) trova la sua ragion d’essere nell’«indagare come le memorie del nostro passato possano essere uno strumento per la transizione verso il futuro». Da qui spettacoli graffianti: un Filottete nelle Rsa, Orfeo ed Euridice alle prese con l’accanimento terapeutico e l’eutanasia, Cassandra che si riprende la propria voce amplificata da un synth e tacchi in latex, Tiresia che rivive tutti i sé che è stata tra viscere e musica. Il tutto accompagnato da concerti e dj set, mostre e percorsi, un workshop e la presentazione di un libro.
Lungo la linea dell’arrivo
Sul treno che mi porta da Bologna a Cesena, dal finestrino vedo trascinarsi quella lunga linea che è la pianura padana, alla quale forse non ti abitui mai a meno di non nascerci. Non riesco a concepire il limite che una linea retta può rappresentare agli occhi di un abitante della pianura. Per chi arriva da sotto una montagna, l’orizzonte (che orizzonte poi non è) arriva subito: una matassa di terra ed erba lontana ma vicina abbastanza da coprire la visuale perfino del cielo, gli occhi riempie e sbarra.
In teoria si vede meglio se è tutto una linea retta, no? No. Non si vede tutto se tutto è sullo stesso piano. In un documentario di Davide Ferrario, Mondonuovo (2003), nel quale Gianni Celati esplora la bassa padana vagando intorno al Po, lo scrittore afferma qualcosa come: «qui il non vedere gli orizzonti ti porta a muoverti per cercarli», ribaltando tutta la mia parziale concezione di orizzonte limitante: il pensiero dell’orizzonte è fuggevole tanto in pianura quanto in montagna. Il pensiero dell’orizzonte è di per sé fuggevole, insoddisfatto, in effetti.
Gli orizzonti qui si cercano muovendosi. È dunque in cerca di orizzonti che si arriva al festival Fu Me; è tra le righe di un taccuino che le ragazze partecipanti al laboratorio di Altre Velocità e la sottoscritta riportano i propri. Orizzonte diventano le righe di un taccuino: linea che separa e al tempo unisce cielo e terra, spazio bianco e inchiostro.
Fu Me sta per Future Memorie: un nome ambizioso per un festival appena nato, mi dico il primo giorno. Eppure a distanza di qualche tempo dalla fine del festival qualche memoria si crea, si sedimenta sul piano del taccuino e in quello spazio sconfinato che sta dietro gli occhi di ognuno.
L’incontro con Michele Di Giacomo, direttore artistico del festival, è strano. Ci si trova davanti a una di quelle persone che pensa a millecinquecento cose al secondo, che oscilla tra il serio e il serioso quando è impegnato, e che all’improvviso accende gli occhi brillanti e ostinati di chi sta facendo quel che ama e ci crede. Occhi specchio del festival: un contenitore di eventi improntati sul sociale. Tuttavia il tema di questa edizione non è soltanto un raccoglitore o un filo rosso, ma è un vero e proprio atto teatrale che porta a rivedere il mito in chiave attuale, con tutte le questioni sociali e di senso che questa riformulazione si porta dietro.
Ri-scrivere miti
Lo sputo in bocca delle scritture, la voce riabilitante delle riscritture. La riscrittura è il dialogo collettivo del contemporaneo col mito, che concede una seconda vita a personaggi sfortunati, marginalizzati, ignorati: da fumo negli occhi a collirio, il mito si fa narrazione inclusiva, scorcio di reale. Orizzonte diventa allora la linea arcuata che, nella zona absidale di una chiesa, circonda solitamente affreschi, trittici o dipinti di figure sacre. Nell’ex chiesa dello Spirito Santo di Cesena, dacché sconsacrata, a sostituire tali figure appare una cascata con la quale sembrano sottilmente interagire gli spettacoli in scena. L’orizzonte diventano le sagome allucinate, i contorni di una tv inascoltata, l’unica traiettoria possibile di un pesce rosso in un’ampolla di vetro così come di un anziano in una Rsa.
In Filottete dimenticato, andato in scena il 29 e 30 giugno (regia di Gianpiero Alighiero Borgia, in scena Daniele Nuccetelli), il “dialogo” col contesto, con la cascata e con la solitudine, pare avvenire attraverso un’ampolla in cui naviga un pesce rosso che – molto alla Boris maniera – denuncia e rappresenta nel piccolo la condizione del suo proprietario. Il Filottete del nostro tempo è un anziano affetto da DLB (demenza a corpi di Lewy) che si sente recluso e abbandonato in una Rsa.
Poi quella linea, quel piano, quell’orizzonte diventa un tappeto orientale, il sali e scendi di un diaframma accelerato dall’erotismo. A dissacrare ulteriormente l’edificio è Performative Speech: Studio sul Fauno, performance presentata in anteprima nazionale il 2 e 3 luglio, a cura di Roberto Zappalà e Nello Calabrò. Il coreografo e il fauno (Filippo Domini) a più riprese interagiscono con l’intorno: prima quando, stendendo il tappeto e muovendosi sinuosamente, assumono la posizione celebrativa delle due statue che contornano la cascata dipinta; poi quando il fauno, ai primi approcci col tappeto, lo sfiora con l’alluce ritraendo subito il piede come fosse acqua fresca appena sgorgata dalla fonte, come a richiamare l’immaginario che lo lega alle ninfe che fa ballare a suon di flauto.
Il centro nevralgico del festival è però Villa Silvia, nel cui spiazzo posteriore si sviluppa il resto del festival. Storicamente la villa è stata ritrovo culturale per molti intellettuali ospiti della contessa Silvia Baroni Pasolini Zanelli, tra cui Giosuè Carducci; oggi vi è allestito il Museo Nazionale di strumenti musicali meccanici, oltre a una distesa di verde. L’orizzonte diventa una vita, un filo mitologico creato, tenuto e infine tagliato dalle moire; diventa la scelta di chi non può parlare, taciuta da chi non vuol capire. Il 30 giugno, secondo giorno di festival, inizia quando, appena dopo il mattutino incontro nella piazzetta di Corte Dandini per “Colazione con gli artisti”, seduti nel bar di fianco al Teatro Bonci, si sente nell’aria “Ovunque Proteggi” di Vinicio Capossela; una carezza che sembra preannunciare lo spettacolo di quella sera, Orfeo ed Euridice. Lo spettacolo (regia di César Brie e produzione di Eco di Fondo con interpreti Giacomo Ferraù e Giulia Viana) è una riscrittura del mito greco che vede la tragica storia dei due amanti accostata a temi quali accanimento terapeutico ed eutanasia. Dove finisce l’amore per sé e inizia quello per l’altro? Quale il confine tra la speranza e l’amore? Orfeo tenta di tirare le fila di una vita ormai spezzata, quella dell’amata Euridice, di un corpo che sta disperdendo il contatto diretto con la mente, ma non con la dignità. Subito dopo lo spettacolo, una sentita e interessante conversazione con Avy Candeli dell’Associazione Luca Coscioni, Caterina Garone e Andrea Ridolfi sul fine vita e sull’importanza del testamento biologico, fa approdare lo spettacolo sul terreno sociale creato a Villa Silvia.
Su quello spetto terreno sociale della villa cesenate, non può che comparire Cassandra, tra le figura femminili più brutalizzate della mitologia greca. Kassandra è la riscrittura di Sergio Blanco, spettacolo presentato a Villa Silvia il 1° luglio, regia di Maria Vittoria Bellingeri, con (e musiche di) Roberta Lidia De Stefano. L’orizzonte diventa una vita al margine, il cavo di un microfono, un synth in diagonale sul cruscotto di una macchina e (inaspettatamente, nel mezzo dei calorosi applausi di fine spettacolo) un lenzuolo contro l’abolizione del diritto all’aborto negli Stati Uniti, che recita “Il corpo è mio, è il mio unico dio”.
La Cassandra del mito atterra nella contemporaneità su due stivali bianchi in latex come una transgender sex worker con una macchina che la farà da casa e da bara. Kassandra riabilita la sua storia attraverso voce, canto e corpo, pur rimanendo nelle stesse condizioni sociali di esclusa al margine, pur conoscendo la sua fine. Perfino la lingua che sceglie è in grado di abbracciare un pubblico ampissimo: l’esperanto. Kassandra si fa capire, si racconta: crederle sta a noi. La Cassandra del nostro tempo restituisce l’immeritato sputo che Atena le aveva consegnato a coloro che nel corso della storia l’hanno banalizzata, colpevolizzata e poi ignorata.
Infine, il 3 luglio il festival viene chiuso dal pluripremiato e sconvolgente Tiresias da “Hold Tour Own/Resta te stessa” di Kae Tempest, regia di Giorgina Pi con la disarmante interpretazione di Gabriele Portoghese. L’orizzonte diventa un viaggio ormonale, un disco in vinile, nove decimi di goduria femminile, le cuciture di una maglia beige reversibile con scritte in greco, due serpi che si aggrovigliano, le squamose corde di una chitarra. Tiresia è un essere fluido, donna, uomo, veggente. Ripercorrere la sua vita è un continuo ribollire di sangue, sesso e sentimento. Nel raccontarsi, oggi, Tiresia è una persona come un’altra, sensibile, colma di ardori giovanili, di voglie e di dolore. Quando Era e Zeus esigono la sua presenza per risolvere una delle loro liti, al suo dar ragione al dio degli dei, Era scatena su Tiresia la sua furia: gli occhi rotolano via. Zeus, mortificato, gli dona un altro tipo di vista, di visione, che è anche la sua condanna. Ormai vecchio e solo Tiresia non può che rincuorarsi con le sue memorie: sei rimasto te stesso ogni te stesso che sei stato.
Il pubblico a venire
A Fu Me Festival, in questa sua terza edizione, risulta evidente quanto un ottimo lavoro di programmazione – dedicando, cioè, le dovute attenzioni alle diramazioni possibili del concetto di riscrittura – riesca a catapultare l’arte, la cultura, nell’arena sociale. Fu Me nasce e ha motivo d’essere in quanto “agitatore” culturale nella sfera locale cesenate. In particolare il festival pone grossa attenzione sui giovani cesenati: da qui le scelte di locazione degli eventi da Villa Silvia, fuori dal centro ma pieno di spazio potenzialmente aggregativo, a Corte Dandini e all’ex chiesa dello Spirito Santo, nel cuore della città; le scelte musicali da Alessandro Fiori alle nuove proposte cantautorali romagnole come FADI, ai dj set; fino alla scelta degli spettacoli in programma, accattivanti sia dal punto di vista dei temi sia dal punto di vista del grado di godimento per i più giovani. Tuttavia, in questa edizioni, pare esserci stato anche uno “scarto” fra pubblico ideale e pubblico reale: l’affluenza di persone giovani, cioè, sembrerebbe essere stata meno di quella prevista. Ci sono dunque alcune domande da porsi: questo scarto ha a che fare col contesto locale oppure, più in generale, con un certo modo di considerare non solo il lavoro culturale e la cultura in sé, ma anche l’apporto che quest’ultima può dare alle nuove generazioni?
A prescindere dalle motivazioni, comunque, il festival romagnolo ha tanto potenziale e non si può che augurargli di crescere abbassando la media anagrafica del pubblico. Non si può dunque che confidare non solo nell’affiorare della potenza del progetto, ma anche nella lungimiranza di tutte le realtà che possono spronare il festival e incoraggiare i ragazzi a buttarsi in esperienze culturali e aggregative, guidandole in un percorso che abbia la meritata ambizione di lasciare future memorie. L’orizzonte può diventare, in ultimo, la sagoma fluida di un corpo che non ha paura di sperimentare e di muoversi per trovarsi anche diverso, senza prescindere dall’interazione col contesto e col prossimo. Dopotutto qui nella bassa è così: gli orizzonti si cercano muovendosi.