Non è sempre detto che il teatro sia un fatto lucido, trasparente. Con gli attori in particolare, non siamo sempre in grado di afferrare i “come” e i “perché” di un’interpretazione o di una messa in scena. Capita invece di poterli “sentire”, afferrando la loro presenza continuamente durante un lavoro ma lasciando che la comprensione di quanto accade davanti ai nostri occhi sia un evento separato.
Esistono dunque attori che per raccontare il loro lavoro in scena hanno l’esigenza di tracciare una linea sul loro vissuto, rivendicando un’opportuna sincronia tra un’intimità personale e una teatrale, rifocillando lo spettatore di azioni e voci talmente sincere da risultare inspiegabili.
Chi è Rita Felicetti? È un’attrice che fa il clown, o meglio è un clown che agisce nel teatro, ma è anche un’autrice che interpreta le visioni di altri artisti, ed è pur sempre una disegnatrice che ha bisogno di stare in scena per sentire di appartenere alla vita.
Avendola incontrata in numerose occasioni, negli ultimi quattro anni, al centro di spettacoli molto diversi l’uno dall’altro, è sorto spontaneo il desiderio di approfondire questa figura estranea, difficilmente riconducibile a un modo netto di stare nel teatro, ma piuttosto un soggetto mobile, inquieto, in grado però di portare in ogni suo personaggio un’impronta determinante, che proviene da un atteggiamento istintivo, apparentemente irrazionale nei confronti dell’arte attoriale.
In Vita agra del dottor F., diretto da Gianni Farina di Menoventi e Angelo Romagnoli, Rita Felicetti fonde in un unico personaggio almeno tre distinte personalità: scivola con disinvolta emozione dalle vesti di un’anonima presentatrice di libri a quelle dell’invadente padrona di casa affittuaria di Luciano Bianciardi, autore dal cui celebre testo è tratto lo spettacolo, fino a farsi invasare da un Mefistofele dolce e spietato, che impregna di punto in bianco l’atmosfera dello spettacolo.
Da qui lo slancio per un’intervista che racconta molti fatti e momenti, che approfondisce un punto di vista prezioso sull’essere attrici oggi al di fuori di una compagnia stabile.
Per cominciare vorrei chiederti quando e dove è cominciato il tuo percorso nel teatro, e in particolare qual è stato il momento in cui hai capito che volevi stare in scena.
Ho iniziato molto presto: a sedici anni ero già in tournée con il Teatro di Sassi per lo spettacolo In fondo al fiore (1995), che vinse una menzione speciale al Premio Scenario. Erano gli anni 90, e le tournée duravano tanto; con quello spettacolo siamo stati a Santarcangelo, a Volterra e in altri festival.
Subito dopo sono stata presa nella compagnia per lo spettacolo Magnifico teatro luminario, una sorta di varietà ambientato nel dopoguerra, con artisti squattrinati che interpretavano vari ruoli. Io interpretavo un pezzo di Karl Valentin: ero quindi esattamente dentro la figura del clown, e indossavo per la prima volta un naso rosso senza avere la minima idea di che cosa comportasse realmente. Con questo spettacolo abbiamo girato per tre anni, e per seguire la tournée avevo rinunciato alle gite scolastiche, a certa parte di una comune adolescenza. Eppure a scuola andavo bene, perchè l’energia che avevo dentro, e che proveniva dalla scena, dal teatro, mi permettava di lavorare bene anche lì. È stato in quel momento che credo sia scattato qualcosa, che mi ha fatto dire che avevo trovato una dimensione adatta, motrice.
Dopo Magnifico teatro luminario ho interpretato – sempre con il Teatro dei Sassi – il mio primo spettacolo da protagonista, Pulcina, che vinse una menzione speciale al Premio Eti Stregagatto (ed. ’94/’95). È qui che ho cominciato a capire che cosa fosse la ricerca. Lì ho iniziato a scoprire davvero il teatro, a capire che fare teatro non è solo andare in scena ma soprattutto studiare.
Un’altra esperienza molto importante per me fu il laboratorio Terre mobili, dove il Teatro dei Sassi si unì ad altri registi – Mauro Maggioni del Crest, Davide Jodice, Saverio La Ruina e altri – per costruire un’unica opera. Ognuno presentava nello spettacolo un proprio pezzo, uno spaccato del proprio lavoro, e il percorso si concluse con un debutto bellissimo al Teatro Valle a Roma. Avevo 19 anni. In quell’occasione conobbi Filippo Timi, che consideravo un attore così come a me sarebbe piaciuto diventare.
Il Teatro dei Sassi riuscì inoltre a costruire per tre anni una scuola residenziale di teatro a Matera, creando un luogo nel quale sono passati Giorgio Barberio Corsetti, Pippo Delbono, Cesare Ronconi, Marco Baliani, Alfonso Santagata… Per tre anni abbiamo avuto tutti questi maestri del teatro italiano che arrivavano al Teatro dei Sassi, al centro della città, in un luogo già di per sé meraviglioso. Non avevo bisogno di uscire dalla città: venivano loro.
Quando ho lasciato il Teatro dei Sassi avevo 22 anni. Per me è stato come un lutto, avevo trascorso con loro un pezzo molto grande della mia vita fino ad allora: ero cresciuta lì dentro, dai 14 anni fino a quel momento. La scelta ha coinciso con l’università, e con la voglia di conoscere il mondo che stava fuori Matera.
Ricordo che in quel periodo di studi mi sono veramente resa conto di che cosa avevo toccato durante la scuola residenziale: aprivo i libri e trovavo i nomi di quegli artisti che erano passati dal Teatro dei Sassi. Ma stando sempre a Matera, come potevo rendermi davvero conto che Giorgio Barberio Corsetti era Giorgio Barberio Corsetti?
Ed è stato a questo punto che hai iniziato a immergerti nella figura del clown. Come si studia? Ci sono percorsi specifici?
Non esiste una scuola. Io ho frequentato diversi maestri, tra cui Jean Mening e André Casacas. Anche a Matera avevo fatto anche un laboratorio sul clown, e dal mio punto di vista fu un completo disastro. Generalmente con gli altri registi riuscivo sempre a tenere un profilo, a entrare nel lavoro, ma in quell’occasione bucai completamente. L’insegnante mi diede un’unica indicazione “Facci ridere”, e io non ci riuscii. In quel momento provai un grande senso di fallimento.
Ripensandoci adesso, quell’immagine è un constrosenso, perché ora so che il clown lavora sul fallimento. Ma quello che provavo allora era il mio fallimento, e pertanto era inutilizzabile, non era materia da clown. Perchè con gli altri registi filava tutto liscio e in quel frangente era tutto sbagliato?
Il concetto di clown è una prospettiva, pone le cose in un modo diverso. È uno stare diverso. Per esercitare questo “stare” nuovo che stavo sperimentando ho iniziato ad andare in strada. Generalmente partivo facendo la statua o piccole pose, poi improvvisavo con i passanti. La strada è davvero un luogo spietato, dal punto di vista del confronto attoriale.
Secondo me tutti gli attori devono passare dal clown, sennò ti manca un pezzo. È una forma diretta di sincerità. Se io dovessi riassumere in una parola che cos’è il mio lavoro, direi proprio che è la sincerità. Posso fare la signora coi tacchi, il bambino stupido, ma sono sincera, voglio esserlo. E credo che questo derivi in maniera diretta dallo studio sul clown, perché se ti ritrovi in strada, tra la vecchina, il bambino, il ragazzo che ti disturba, devi essere sincero, sennò ti aggrediscono. Devo dire che quando mi chiedono se faccio l’attrice, faccio fatica a rispondere di sì, perché mi sembra di escludere tanti elementi. Dovrei spiegare un sacco di cose.
Da un certo punto di vista il tuo percorso è anomalo, perché tu hai iniziato nel pieno professionismo, dentro un percorso già conosciuto, riconosciuto e avviato…
È vero! Io sono iscritta all’Enpals dal 1995!
Poi ti sei ritirata in uno spazio meno visibile, fatto di laboratori, studio… un nuovo apprendistato, insomma. Adesso sei come riemersa, il tuo percorso è riaffiorato nel professionismo, nei circuiti della ricerca con Emma Dante e i Menoventi. Come sono stati questi anni di nuovo percorso?
Verso la fine dell’università ho creato con altre persone la compagnia dello Stabile della Luna. Riuscimmo a passare la prima selezione del Premio Scenario nel 2005, ma poi il progetto rimase marginale. Quella stessa estate mi chiamò Emanuela Lo Sicco, che mi chiese se volevo fare un laboratorio con Emma Dante.
Emma Dante! Erano anni che cercavo un’occasione per lavorare con lei, da quando a Matera vidi m’palermu. Dissi naturalmente di sì, e andai a Palermo. Dopo due giorni di prove Emma Dante mi ha chiesto se volevo lavorare con lei e i suoi attori per la Carmen che doveva dirigere da lì a poco. Debuttammo alla Scala. E io ero andata lì semplicemente per fare un laboratorio con lei.
Subito dopo la Carmen, feci un laboratorio a Venezia: era gratuito, era una compagnia che non avevo mai sentito nominare, non stavo facendo niente, e sono andata. Lì ho conosciuto i Menoventi, con cui poi ho realizzato Perdere la faccia, Tabarin Citadin e Vita agra del dottor F., al quale hanno lavorato insieme ad Angelo Romagnoli.
C’è anche un’esperienza con Kyon Teatro, dove si evidnzia un’altro passaggio: da interprete ad autrice dello spettacolo. Che cosa ha significato questo per te?
Per quanto riguarda Kyon, non posso dire di avere espressamente scelto, di aver fondato una compagnia, perchè è nato tutto da un’intuizione di Chiara Verzola. Ci eravamo conosciute al laboratorio di Menoventi, e poco dopo aveva avuto la proposta di fare uno spettacolo su Daniel Charms da una sua collega di teatro, con tanto di data. La sua collega però non poteva più esserci, allora Chiara chiese a me di buttarmi in questa impresa, in questa occasione di spettacolo senza spettacolo. Io dissi di sì, e da lì è cominciata l’avventura di Malchevada. Dalla prima all’ultima replica ha cambiato forma e titolo più volte.
È stato un lungo percorso, nel qual si sono riversati molti elementi. Con Chiara Verzola, anche se siamo molto diverse, all’inizio abbiamo tentato la strada dell’uniformità, fino a quando abbiamo accettato le nostre differenze e ci siamo ritrovate nei nostri corpi.
Abbiamo studiato molto Charms, un autore meraviglioso ma difficilissimo da mettere in scena. Per approfondirlo chiamai anche Paolo Nori, che aveva tradotto Charms e lavorato su alcuni suoi temi. In Malchevada c’è stata la trasfusione da una scena che avevo lavorato con i Menoventi, quando a Santarcangelo abbiamo messo in piedi il Tabarin Citadin. Una scena nella quale io mi faccio distruggere, lasciando che la mia compagna di scena mi sputi addosso mentre cerco di recitare. Tutti i miei amici soffrono, quando assistono a questo momento. Inoltre, ho scritto per intero una scena, rubata a un episodio reale, in cui due persone che conosco non facevano altro che raccontarsi chi era morto e quando.
In Vita agra del dottor F. il tuo personaggio contiene più figure: una inventata, la presentatrice di un immaginario incontro pubblico dedicato all’opera di Bianciardi; una estratta dal romanzo, la padrona di casa presso il quale l’autore e la compagna sono in affitto; infine Mefistofele, sottratto al Faust di Valéry. Anche in questa stratificazione è riconoscibile una tua impronta. Come è avvenuto il lavoro per questo spettacolo?
L’indicazione che mi ha dato Gianni è stata quella di impersonificare tutto ciò che stava attorno a Bianciardi: Milano, il ritmo, il traffico, il grigiore. All’inizio sono io, cioè… la presentatrice che fa l’intervista sono io, tant’è che quella parte del testo l’ho scritta io stessa. Ho i tacchi, ho un vestito che non è il mio, ma sono io. Uso poco la dizione, mi trema la voce. Poi appena vado dietro le quinte divento la padrona di casa. E quindi divento una donna, so che ho una certa età, che ho un portamento, una voce così… e me la godo proprio! Anche questo personaggio è nato da un’improvvisazione con Gianni, dove io giocavo a fare la “signora”. Gianni ha una certa sensibilità per il lavoro con gli attori. Non impone niente, ed è in grado di far nascere le cose.
Infine entriamo nel Faust. Entro in scena mentre Claudia Pinzauti, che interpreta la compagna di Bianciardi, batte a macchina, e lì per la prima volta uso le parole del Faust di Valéry. E lì mi trasformo. Lo sento proprio. C’è qualcosa che sale, e avverto una trasformazione fisica, delle espressioni e delle mie sensazioni. Sento che posso essere forte, sexy, cattiva, ambigua… Ci arrivo piano, però. Lo faccio arrivare, senza prepararmi. So che prima o poi arriva ed è lì che avviene, a metà spettacolo.
A livello di regia io sarei un unico personaggio, per cui sono Mefistofele fin dall’inizio. Questo non l’ho mai messo da parte: so che Rita che fa la presentazione del libro dentro di sé è già Mefistofele, però per poter lavorare ho bisogno di separare dei passaggi durante lo spettacolo, di crearmi uno spartito. Sono cosciente di chi sono, però mi gestisco il Mefistofele che sono. Me lo sono costruita io, non a tavolino. So, dentro di me, che Mefistofele è pronto, e mi sostiene. E arriverà.
Anche se hai attraversato molti mondi, e lavori su tanti registri, dall’interpretazione del clown a parti più classiche o figure attoriali più ibride, emerge nel tuo ultimo percorso una figura unica e complessa, che regge tutte queste diversità con grande coerenza.
Come proveresti a definire la tua impronta attoriale, quell’anima che porti con te in ogni personaggio che incontri?
Provo a partire da un esempio, da quando a Venezia ho fatto il laboratorio con Menoventi, e dove effettivamente è nato il mio personaggio per Perdere la faccia. In quell’occasione ho lavorato su un’improvvisazione, mettendomi in relazione all’esercizio che chiedeva di lavorare sul passaggio tra il quotidiano e il teatro. Sono entrata in scena così com’ero, denunciando il mio umore e interpretandolo in maniera diretta. Non saprei dire “come”, semplicemente ho scelto quella strada.
Ho portato dentro il mio stato d’animo di quel giorno, e sono entrata in scena così, incazzata: mi sono seduta al centro del palco mentre c’era la scena in corso e a chi guardava ho detto “Vi piace?” indicando gli attori dietro. E lì ha funzionato. Lì ero vera.
Oltre alla sincerità, di cui ho raccontato anche prima, credo che questo episodio abbia a che fare con un altro dei miei nodi: il non voler appartenere a nessuno. L’essere umano tende a stare nei gruppi, a riconoscersi con qualcuno che gli è simile. Io non voglio appartenere alle attrici classiche, ai cabarettisti, ai clown… Vorrei essere io. E questa tensione mi porta a sentire una solitudine che evidentemente mi trascino nel mio lavoro in teatro.
di Serena Terranova
fotografia di Luca D’Onofrio
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.