A cura di Beatrice Carlacci, Alessia Leone, Davide Mayr
Questo contenuto fa parte di “Raccontare i festival”, progetto di didattica applicata all’analisi e al racconto delle pratiche culturali della contemporaneità del corso “Teatro e informazione” tenuto dalla Professoressa Roberta Gandolfi, all’interno della laurea magistrale in “Giornalismo, Cultura Editoriale Comunicazione Ambientale e Multimediale” dell’Università di Parma. Il percorso si è avvalso di una serie di lezioni di critici e studiosi sul reportage fra giornalismo e studi teatrali, fra i quali Lorenzo Donati, che ha altresì curato con Gandolfi il recente convegno Critica teatrale, esperienze culturali e università, cui studenti e studentesse hanno partecipato.
Gender Bender: piegare i concetti e i pregiudizi che ricorrono continuamente nel dibattito sulle identità di genere. Come si può intuire già dal nome, il festival, prodotto dal Cassero LGBTI+ Center, nasce dunque dall’esigenza di celebrare le diversità dell’essere umano, valorizzandone le singolarità. Nel contesto urbano bolognese Gender Bender trova lo spazio ideale per portare avanti la propria vocazione di attivismo culturale. Dal 1982, infatti, la comunità LGBTI+ di Bologna esprime con creatività e forza la propria identità anche grazie al Cassero, uno spazio culturale che oggi ha sede in via Don Minzoni, accanto al Museo d’Arte moderna, messo a disposizione dall’amministrazione comunale e che contribuisce alla cultura della città.
Nel 2023 Gender Bender è giunto alla sua ventunesima edizione, svoltasi dal 31 ottobre all’11 novembre. Intrecciando i mondi della danza, del teatro, del cinema e della letteratura. Il programma multidisciplinare propone una varietà di mostre, spettacoli, workshop di arti visive e performative che, spogliando il pubblico della sua veste passiva, lo immerge attivamente nel profondo dei lavori artistici.
Nel materiale comunicativo del festival, i direttori artistici Daniele del Pozzo e Mauro Meneghelli spiegano che per raggiungere questo obiettivo «Gender Bender traccia una possibile convergenza di specifici percorsi laboratoriali – Performing Gender Dancing In Your Shoes, Teatro Arcobaleno, DNAppunti Coreografici, Rifrazioni, solo per citarne alcuni – su cui costruire un festival come opera collettiva, eccentrica eppure coerente». Ognuno di questi sensibilizza su temi differenti quali, rispettivamente: il legame con la propria terra di appartenenza, le differenze di genere e di orientamento sessuale, il sostegno verso i giovani coreografi e la disabilità.
«Questa edizione lascia spazio a una nuova generazione di artisti e artiste – sottolineano in una nota i due direttori artistici – perché i loro corpi e le loro voci, in alcuni casi inediti e imprevisti, e dunque politici già con il loro apparire per la prima volta sulla scena, lascino un segno differente». Ogni performance pone infatti al suo centro il corpo, declinandolo nelle diverse forme in cui può apparire; diventa così fonte di dibattito sociale, nel tentativo di far emergere e abbattere i pregiudizi stratificati su di esso.
Come studenti di Giornalismo dell’Università di Parma, abbiamo seguito il festival Gender Bender, cogliendo la sfida di farne un reportage costruito sui fili rossi che lo attraversano.
Danza d’autore e danza di comunità
La danza è indubbiamente il genere performativo privilegiato da Gender Bender, ma quali corpi, quali danze esattamente? Abbiamo notato che questa edizione di Gender Bender ha presentato l’una accanto all’altra danze d’autore, originali duetti e assoli di giovani danzatori e coreografi, e danze di comunità che presentavano coralità di corpi in movimento, alcune delle quali, come vedremo, erano il frutto di un progetto europeo, Dancing in your shoes, di cui Gender Bender è stato capofila durante gli anni della pandemia. L’accostamento senza soluzione di continuità fra scritture sceniche dal netto segno estetico, nate da coreografi professionisti, e generose coreografie corali scaturite da workshop partecipati e interpretate da cittadini e cittadine non professioniste, ha qualche volta provocato in alcuni di noi un certo smarrimento, per esempio quando posti di fronte a performance non convenzionali e appartenenti a un campo più sperimentale; eppure, come non apprezzare comunque una linea artistica etica e politica, quella del Festival, capace di declinare su più livelli quella «democrazia dei corpi» cui i discorsi della danza oggi sembrano fruttuosamente inclinare?
La parola d’ordine di un festival che mira a sensibilizzare sulle diversità è condivisione: condividere significa creare un contatto diretto con l’altro, coinvolgendolo in maniera attiva affinché recepisca il messaggio che si vuole veicolare. Nella danza di comunità la pratica della condivisione è un fatto concreto, e si estende indubbiamente ai singoli componenti del corpo artistico che, rispecchiandosi l’un l’altro e mettendo in comune le proprie emozioni, tentano di rifletterle al pubblico, per mezzo di un gesto solidale. Gender Bender, dunque, si converte in un attivatore di comunità e intersoggettività.
L’investimento del Festival nella danza di comunità è evidente già a partire dall’anteprima del festival, Hamonim, che ha preso vita in un campo da baseball di periferia e che ha portato a Bologna gli intriganti dispositivi dinamici e scenici che la coreografa amburghese Patricia Carolin Mai va sperimentando con varie comunità di cittadini e cittadine europee. Un collettivo di oltre 20 persone aveva infatti partecipato in settembre a un originale progetto di democrazia dei corpi, quasi una ricerca-azione, tesa all’esplorazione collettiva e incorporata delle dinamiche che si creano in una comunità in situazioni di emergenza, di pericolo, di trauma. Ci è stato raccontato che la coreografa allena i partecipanti a un repertorio gestuale comune (pochi e forti gesti intrisi di pathos, come quello di scuotere le mani in avanti, come per scacciare qualcosa, seguito da un ridondante rumore gutturale) e ad alcune ferree regole di attraversamento e posizionamento nella geometria del vasto e rettangolare spazio scenico, per poi permettere che, al ritmo di una partitura sonora, i performer disegnino coi loro movimenti il rapporto in perpetuo divenire fra individuo e coralità, variando il loro repertorio gestuale, scegliendo le traiettorie nello spazio, dando vita a infinite dinamiche. Uno spettacolo intrigante per gli occhi e anche per il pensiero, col suo modo di interrogare come e quando creiamo comunità.
Particolare attenzione bisogna prestare a Crowded Bodies, guidato da Daniele Ninarello, che si pone come manifesto di un progetto di condivisione. Si tratta dello spettacolo che segna il contributo italiano a Dancing in your shoes, in scena presso il DAMSLab, laboratorio di valorizzazione culturale urbana gestito dal Dipartimento delle Arti e dello Spettacolo dell’Università di Bologna. I partecipanti entrano in scena uno alla volta, indugiando al centro dello spazio scenico e osservando il pubblico. Dopo diversi disorientanti minuti il palco si riempie di diciotto corpi molto differenziati tra loro, che iniziano a muoversi individualmente, attuando una varietà di gesti; all’incalzare della melodia accelerano anche i loro movimenti, fino a mescolarsi. I nostri sguardi si spostano freneticamente tra un corpo e l’altro, tentando affannosamente di distinguerne le movenze. Se prima i perfomer (cittadini e cittadine che hanno partecipato al progetto) erano ordinati meticolosamente lungo lo spazio scenico, ora essi si spostano agitati, fondendosi l’un l’altro in un frenetico tentativo di riconoscersi nella collettività. Lo spettacolo termina con una sfilata di figure corporee che, condividendo le loro diversità, diffondono il senso di comunità con noi altri presenti.
Questo concetto di condivisione è ben chiaro anche alla coreografa britannica TC Howard che in Epic Everyday, ideato per il progetto europeo Performing Gender – Dancing in Your Shoes, coinvolge la comunità di Leeds, portando in scena donne bianche e nere, bambine e anziane, corpi alti e bassi, persone con disabilità… Ci hanno fatto regalo di duetti commoventi, altrettante possibili trame di intersoggettività: un danzatore professionista e una bambina, un uomo e una donna di terza età, una pedagoga e un ragazzo trans si passavano la scena, con i compagni intorno ad agire come coro solidale, costruendo l’idea di un mondo in cui età, cultura e identità possono e devono fondersi tra loro per giungere alla solidarietà e al positivo senso di appartenenza collettiva, come evidenzia il discorso di apertura dello spettacolo: «We are guided by the invisible bonds that connect us. Bonds born out of curiosity, play and freedom to be ‘other’. We are a brave and beautiful mixed community of ages, cultures and identities…».
Spostandoci verso le coreografie d’autore viste al festival, fra le tante interessanti proposte ci piace ricordarne alcune. Cuma, ad esempio, di Michele Ifigenia Colturi, ha suscitato in noi emozioni contrastanti, un po’ turbolente, a tratti inquietanti; infatti, all’entrata del pubblico in platea, Federica D’Aversa si presenta spoglia degli abiti, con la pelle pallida e lo sguardo inamovibile pieno di tormento, cimentandosi in una danza contemporanea ricca di espressività e repentini scatti nei gesti. Una breve performance che restituisce agli spettatori un immaginario mitologico irrequieto e cupo poiché, come da leggenda, la sibilla cumana entrava in contatto con gli dèi inferi.
Gender Bender ci ha inoltre offerto l’opportunità di assistere alla performance di una giovane artista che si va conquistando uno spazio nel panorama europeo: si tratta della coreografa francese Anne-Marie Van, in arte Nach, con lo spettacolo-reportage Nulle part est un endroit. Nach ricorre a un’estetica documentale per raccontarci il suo incontro con la danza di strada conosciuta come «krumping», una forma di street dance nata nei sobborghi di Los Angeles come protesta da parte della comunità afroamericana che mischia il freestyle alla boxe e all’hip hop. La realtà esterna irrompe sulla scena grazie all’utilizzo di diversi strumenti narrativi: le parole, i passi di danza, ma soprattutto i filmati, girati in stile documentaristico e proiettati alle spalle della performer, con l’intento di illustrare i mondi della danza che Nach incontra e conosce dall’interno. Il reportage prosegue poi oltre il krumping, attraverso altre tipologie di danze popolari cui Nach ha voluto andare incontro, per celebrare senza retorica la vitalità dei corpi danzanti alle più diverse latitudini.
Ma soprattutto ci è molto piaciuto Irene di Alessandro Marzotto LEVY, progetto vincitore di DNAppunti coreografici 2022, che mette in scena una performance aperta a ogni immaginario interpretativo. In un ambiente intimo, dove le sedie impilate e poste sullo stesso piano del palcoscenico permettono un rapporto diretto tra pubblico e performer, le porte si aprono in una sala cosparsa di paglia, in cui il danzatore immerge i piedi nudi. Le luci si abbassano e danno inizio allo spettacolo. Il performer, ispirato da una musica lenta e rilassante, si proietta con la sua danza a corpo libero. A mano a mano i suoni divengono più frastornanti e incalzanti: nei suoi movimenti si percepiscono emozioni forti e contrastanti come la rabbia, la non accettazione e soprattutto la consapevolezza del dolore e delle proprie fragilità. La sua danza pone l’attenzione sulla relazione dell’uomo con il proprio sé e la propria interiorità, un io che non deve fare i conti soltanto con i propri momenti di serenità, ma deve rispondere anche a sentimenti di forte pathos e malinconia, derivati da una perdita. Essa, reale o spirituale che sia, porta a una condizione di malessere evidente nella performance; il danzatore riflette i suoi sentimenti negativi su tutto ciò che lo circonda, trasformando gli elementi scenici in una sua privata valvola di sfogo. In un secondo momento, l’artista si avvicina inaspettatamente a un dispositivo audio, nascosto fino a quel momento tra i fili di paglia, da cui risuona la voce di Irene, la persona che non si vuole lasciare andare, che ride e scherza in modo ingenuo e spontaneo: solo adesso si svela che la perdita di cui si parlava è una perdita concreta e reale che, in modo evidente, porta al protagonista forte sofferenza. In tal modo, la paglia e il contatto con la terra diventano forte espressione della mortalità umana e della sua fragilità. La paglia è rugosa, pungente, a volte fa male, a volte fa perdere l’orientamento, esattamente come il dolore che si prova quando si perde qualcuno.
Politiche dell’inclusività e dell’accessibilità
Il tema che più si intreccia con il progetto multidisciplinare presentato da Gender Bender è quello relativo all’accessibilità e all’inclusività, che si possono intendere come due varianti di un campo comune: da un lato, le politiche volte a rendere le esperienze culturali accessibili a tutte e tutti gli spettatori, in nome di una società non più abilista e capace di accoglienza; dall’altro, le politiche di empowerement delle voci artistiche marginali, di coloro che – a causa del loro genere, del colore della loro pelle, o della loro disabilità – vengono ostacolati all’espressione.
Spicca rispetto a queste politiche la figura di Aristide Rontini, performer, coreografo e danzatore, coinvolto in molti progetti europei volti a sostenere artisti con disabilità, e garantirne l’accessibilità. Grazie alla collaborazione di Rontini con Al.Di.Qua. Artists (Alternative Disability Quality Artists), in Lampyris Noctiluca è stato possibile usufruire di una interessante audiodescrizione poetica realizzata per le persone cieche, secondo una politica tesa a inventare dispositivi che permettano la fruizione delle performance anche a chi ha disabilità sensoriali. Vista l’ampia disponibilità di radio, ci è stato proposto di beneficiare di questo servizio e abbiamo colto l’opportunità al volo. Il racconto che abbiamo ascoltato – trasmesso in tempo reale – è stato realizzato dall’artista cieco Giuseppe Comuniello e dalla drammaturga Camilla Guarino. Dal nostro punto di vista lo spettacolo ne è uscito arricchito, forte di questa audiodescrizione che non viene definita «poetica» a caso: Comuniello e Guarino riescono ad accompagnare lo spettatore senza risultare invasivi, descrivendo dettagliatamente i movimenti e lo spazio scenico, ma senza rinunciare a un linguaggio artistico e suggestivo.
In scena solo un rettangolo luminoso sulla destra del palcoscenico, contornato da luci cupe. Sulle prime note appare un’ombra seminuda dal fondo, che compie movimenti lenti e controllati, le luci ad intermittenza evidenziano le sue forme, dando spazio al suo “difetto corporeo” trasformato in pregio artistico: l’assenza di un arto. Cos’è più politico se non un corpo che mostra il suo punto debole, rendendolo un punto di forza? La «mano invisibile» di Rontini – utilizzando la terminologia dell’audiodescrizione poetica – si distingue nella scena, ma contemporaneamente si conforma con essa. In un secondo momento anche gli elementi secondari si trasformano in primari; dapprima i pantaloni, emblema del genere maschile, seguiti poi da un drappo rosso che l’artista fa inizialmente scivolare sul suo corpo, per poi attraversarlo e nasconderlo, fino ad indossarlo trasformandolo in gonna. Questo momento scenico rende ancora più evidente il messaggio che Rontini vuole trasmettere: il passaggio da una singolarità all’altra si costruisce con organicità nel corso della performance, l’una cosa scivola nell’altra, figura danzata della fluidità di genere.
Lo spettacolo ottiene una forte accezione erotica attraverso la nudità dell’artista, un erotismo spontaneo e spirituale: si tratta di un nudo non solo fisico, ma al tempo stesso interiore. Gli impulsi luminosi sulla scena aprono una forte riflessione sul tempo, presente e passato, qui catturato e reso a intermittenza, proprio come le lucciole che, come afferma Aristide Rontini «sono visibili a nottetempo, vogliono nascondere e far riemergere, mostrare e trattenere». Quello dell’artista è un forte gioco di immagini e di interpretazione ispirato a Pier Paolo Pasolini e alla sua opera Scritti Corsari, contenente l’articolo delle lucciole. Tuttavia, mentre Pasolini attuò una denuncia del conformismo inerente all’innovazione sociale del suo tempo, quella di Aristide Rontini è relativa ai pregiudizi a cui la società attuale sottopone quotidianamente il genere e le corporalità non conformi.
A questa denuncia poetica si aggancia il film Acsexybility, documentario del regista brasiliano Daniel Gonçalves. L’opera costituisce un tentativo di smontare convinzioni e stereotipi sulla vita affettiva delle persone con disabilità. Nella società di oggi, infatti, spesso chi si trova in questa condizione è visto come un individuo asessuale e incapace di desiderio. La realtà che emerge da questa visione è invece diametralmente opposta, scopriamo un mondo dove masturbazione e sesso sono all’ordine del giorno. Sentire parlare i protagonisti di questa indagine ce li mostra sotto una luce diversa, li sentiamo più vicini e, mentre ci rendiamo conto che si tratta di impulsi del tutto naturali, ci strappa anche un sorriso per la nostra ingenuità (della quale, in particolare, si fa molto simpaticamente beffe un ragazzo con la sindrome di down). Viene fatto capire quanto sia distorta la narrazione della dimensione sessuale delle persone con disabilità nella società contemporanea e in tale ambito Gender Bender insiste per fornire alla comunità di performer con disabilità una piattaforma di espressione.
Significativa in questo senso è Autoritratto in 3 atti, lecture-performance dell’artista sordo Diana Anselmo, tra i fondatori di Al.Di.Qua Artists. Affiancato da un’interprete LIS, Anselmo appare portavoce di tutti coloro che convivono con una disabilità, volendo e riuscendo a stabilire fin da subito una connessione con gli spettatori che non vivono nella sua stessa condizione. Attraverso una sorta di esperimento che mischia parola e video, la prospettiva viene ribaltata e il pubblico è costretto a mettersi nei panni di chi racconta. Ci viene fatto notare come di disabilità, nel dibattito pubblico, parlino e decidano principalmente persone che non ne vivono una sulla propria pelle. Con calma e gentilezza ci vengono spiegate le difficoltà quotidiane di chi possiede una disabilità non immediatamente visibile e di quanto conciliante per loro potrebbe essere non dare per scontate certe capacità. Diventa anche formativo, perché, subito dopo il primo applauso, il rumore generato dalle mani degli spettatori cala a sorpresa, sovrastato invece dal silenzioso ma visivamente altrettanto potente applauso nella lingua dei segni, che ci insegna una nuova pratica di inclusione. Un talk illuminante, che a nostro avviso avrebbe meritato un palco più visibile, magari all’aperto in piazza, per metterlo in grado di raggiungere e sensibilizzare molte più persone.
Il tema dell’accessibilità non si limita a essere trattato durante le performance, ma converge anche nei vari laboratori che il festival promuove. Abbiamo preso parte al laboratorio con TC Howard, che ha offerto ai partecipanti un’esperienza corporale unica nel suo genere. Si tratta di un workshop, progettato dalla Bakani Pick-Up Company, volto ad aiutare uomini e donne di ogni genere a entrare in contatto con il proprio corpo, cercando di interpretarlo in differenti forme. Uno dei primi esercizi svolti consisteva nel costruire delle coppie, di cui uno dei due componenti fungeva da «conducente». La nostra insegnante ci ha spiegato cosa fare: «Il conducente deve, appunto, condurre l’azione, mentre l’altro farà l’opposto». Per esempio, se l’uno si stende a terra, l’altro dovrà restare in piedi, in modo da trovarsi sempre nella posizione opposta dell’altro, tutto senza staccare mai lo sguardo dal proprio compagno. Lo sguardo mirato negli occhi di uno sconosciuto porta necessariamente alla creazione di un legame, anche se questo terminerà con il concludersi del laboratorio: si racchiude qui la particolarità e la bellezza di quest’esperienza. Una persona timida, introversa, si vede costretta ad aprire sé stessa all’altro, spogliandosi delle proprie debolezze e scoprendo dei nuovi punti di forza. Tra i partecipanti erano presenti anche componenti della compagnia teatrale che ha portato in scena Epic Everyday, persone comuni che, come precedentemente affermato, portano con loro delle disabilità: come fondere il movimento corporale e l’accessibilità ad esso? Come possono individui con impedimenti motori riuscire a replicare i movimenti di una persona che invece non ne possiede? La risposta ce la dà la stessa Howard che, durante il laboratorio, ha voluto mettere noi partecipanti nella posizione di chi, ogni giorno, incontra ostacoli nel movimento. Ritornando all’esercizio sovra citato, l’insegnante ci ha portato a riflettere: «Come può condurre l’azione attraverso il movimento, chi non può muoversi? Con lo sguardo». Prendendo una sedia e portandola al centro dello spazio, Howard ci ha mostrato come anche una persona con difficoltà d’accesso può confrontarsi con la quotidianità, iniziando una danza corporale con il solo movimento degli occhi.
La voce politica della danza
La danza può considerarsi atto politico quando sostiene un’idea di rivendicazione. Nel caso di Gender Bender, noi come studenti e spettatori abbiamo osservato come la danza miri a farsi politica dando voce alle minoranze etniche, culturali, di genere e in termini di disabilità. Come in Lampyris Noctiluca e Epic Everyday, la voce politica si trova già racchiusa nell’azione stessa di presentare sullo spazio scenico corporeità non in linea con i canoni estetici imposti dalla società attuale: un grido flebile, ma non silenzioso, che costituisce la cifra di Gender Bender.
A un teatro esplicitamente politico, e cioè relativo alla storia del nostro continente, alle lotte e alle tensioni che lo attraversano, trasfigurate però poeticamente, appartiene Hope Hunt and the Ascension into Lazarus, fra gli spettacoli del Festival quello che forse ci ha più colpito, e col quale ci apprestiamo a chiudere questo reportage. La performance curata dalla danzatrice francese Sati Veyrunes, sotto la coordinazione di Oona Doherty, coreografa irlandese originaria di Belfast, ha avuto luogo in un Centro Sociale impegnato in senso contro-culturale, il TPO, alla cui entrata appare la frase «Sei in un luogo antifascista, antisessista e antirazziale». L’esibizione inizia in modo atipico rispetto all’incipit degli spettacoli precedenti, tant’è che gli spettatori vengono invitati ad uscire dal Centro Sociale, per recarsi sotto la brezza di una fredda serata autunnale. I primi minuti passano nel silenzio e nell’attesa di un pubblico incuriosito, finché l’attenzione non viene rubata da una musica apparentemente lontana e fuori contesto, proveniente da una macchina a pochi metri di distanza che, d’improvviso, si mette in moto e raggiunge gli spettatori, facendosi spazio tra la folla. Il rumore di uno sportello che sbatte, e poi un uomo con un cappello e una tuta apre il bagagliaio, permettendo a una ragazza di uscire e di rotolare sull’asfalto. Sulle note di Northern Ireland Yes, una canzone nata dall’adesione dell’Irlanda del Nord al Good Friday Agreement referendum (1998) – con l’obiettivo di porre fine alla violenza e alla discriminazione causata dal lungo conflitto irlandese – Sati Veyrunes dà luogo a una danza eccentrica, lasciandosi trasportare dalla melodia. Le sue braccia aperte ondeggiano, prima di ricadere di nuovo a terra e di infiltrarsi tra la folla, creando un contatto diretto con il pubblico, il quale entra a far parte involontariamente della performance. Le emozioni che traspaiono da questa prima parte dello spettacolo sono in antitesi tra loro: gli scatti repentini, il movimento lento e ondulatorio delle braccia, il modo in cui l’artista cade ripetutamente a terra inerme, ci trasmettono gioia, paura, irrequietezza e, ancora, dolore. Lo spettacolo prosegue all’interno e gli spettatori, incentivati dal grido «Go inside» dell’artista, prendono posto. Lo spazio interno è composto da una scenografia povera, vi è un solo cumulo di oggetti posti alla rinfusa, tra i quali ricordiamo esserci delle sedie, delle pietre, una scarpa, delle lattine e tanta polvere.
La coreografia riprende tra il ricordo di una festa, con la perfomer che muove le braccia a ritmo di musica, e momenti violenti fatti di gesti brutali. Interpretando le molteplici maschere del genere maschile, l’artista si muove in modo quasi schizofrenico nello spazio scenico, danzando non più su di una melodia ma sulla sua stessa voce: i suoni gutturali tipici di una voce maschile, urla veementi e respiri affannosi diventano naturalmente note musicali delineanti una danza che tenta di raffigurare la misoginia e la violenza diffuse nella società irlandese fino al 1998. Siamo rimasti sbalorditi dal modo attraverso cui Sati Veyrunes riesce a trasformare le parole che grida con regolarità; per esempio, «Scheisse» si converte in «shellsuit» che, a sua volta, diventa «Chelsea!», coro tipico di una tifoseria calcistica. In modo repentino le luci si spengono, per poi riaccendersi illuminando l’artista non più vestita di una tuta blu scuro, ma di una veste bianca simbolo della sua vulnerabilità. Il riferimento a Lazarus, impiegato storicamente per alludere a una rinascita vitale, diventa in quest’ultima parte dell’esibizione estremamente chiaro: la violenza dapprima rappresentata da gesta nevrotiche, viene sostituita ora da una danza più lenta e spirituale che si espande sulle note di una melodia in cui la parola «alleluia» viene ripetuta di continuo. Gli ultimi minuti trascorrono nell’osservare come, in quei mille volti fino ad ora ricolmi di violenza, la necessità di amare e di essere amati prende il sopravvento.
Se Gender Bender significa piegare e plasmare il genere, trasgredire al comportamento previsto dallo stereotipo, è evidente come il festival sia riuscito perfettamente nel suo compito di esercitare una forte egemonia culturale, che si traduce nel suo intento di inclusione, empatia, accoglienza e valorizzazione delle diversità, dando spazio ad ogni forma di espressione dell’io.
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.