Per la seconda parte dedicata al festival del Teatro stabile toscano, Contemporanea_24, una recensione allo spettacolo La luz de un lago, della compagnia barcellonese El Conde de Torrefiel, debuttato al Teatro Metastasio di Prato, il 4 ottobre 2024. Il primo frammento, dedicato a Gloria Dorliguzzo, puoi leggerlo qui.
El Conde de Torrefiel è una compagnia che si è formata a Barcellona, nel 2010, da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert. I loro progetti si articolano attraverso performance simboliche, che sono al tempo curatissime a livello di forma e messa in scena (spaziando nell’utilizzo di mezzi come il video, la pittura e un’attenta selezione si suoni e luci), ma che riflettono anche e soprattutto il senso e la responsabilità della narrazione teatrale e di chi riceve e assimila, interrogando gli immaginari.
“La luz de un lago ” di El Conde de Torrefiel
Tra le cose che colpiscono de La luz de un lago vi è senz’altro lo svelamento delle quinte, del processo di creazione e di messa in scena – più che della “produzione” – di uno spettacolo. Il pubblico è chiamato in causa sui tempi di lavoro che tre performer/tecnici (Mireia Donat Melús, Mauro Molina, Isaac Torres) impiegano per un cambio scena, per dipingere un pannello, per spostare, piegare, riavvolgere, allacciare, slegare, il materiale scenico; il tutto mentre si srotolano e collegano tra loro gli intrecci delle storie che vengono presentate e che non fanno che svelare la finzione della finzione della finzione della narrazione di un’opera infine unica.
La bellezza dello spettacolo sta nella doppia (iper)focalizzazione tanto sul (letterale) retroscena dello spettacolo, quanto sulla matrioska della narrazione di storie contenute in altre storie.
In scena non c’è niente di stabile che non siano il palco e le quinte. In movimento, però, si susseguono continui cambi scenografici con vari tipi di pannelli. I tempi (di lavoro), così, si dilatano nei continui allestimento e smontaggio di supporti di vario genere, accentuati da effetti, colori e suoni forti e impattanti.
Racconti di vita vengono narrati da una voce meccanica fuoricampo e trascritti sui pannelli susseguendosi sulle varie impalcature sceniche. Le storie sono almeno quattro e in ognuna di esse i protagonisti sono in qualche modo spettatori di quella precedente.
La prima storia narrata avviene negli anni ‘90: una ragazza e un ragazzo da poco in Inghilterra si conoscono in un concerto dei Massive Attack a Manchester e trascorrono insieme la serata in un rave club baciandosi in preda alla trance. La seconda vede due colleghi di lavoro incontrarsi in un cinema, lì dove ha segretamente luogo il loro segreto e passionale rapporto extra coniugale. Il film che guardano quella sera contiene la prosecuzione della prima storia, in cui vediamo i due ragazzi cresciuti e che stanno mettendo fine al loro matrimonio. La storia che segue è quella di una biologa marina transgender a Parigi che, non appena trova posto a sedere sulla métro, legge un libro sulla storia di due amanti ateniesi al cinema – poi, scopriamo qui, uccisi perché omosessuali. Lei ricorda l’affetto della nonna, ormai deceduta, l’unica dalla quale aveva ricevuto amore incondizionato. La storia nelle storie termina alla prima dell’Opera Fenice a Venezia in cui la rappresentazione ha il nome Marianne e il mare, in cui una biologa marina viene inghiottita dalle onde del Pacifico. In quel teatro, nel 2036, Cosimo fa la maschera mentre studia Belle Arti. Qui un gruppo di giovani ambientalisti, per quella sera ha preparato un happening memorabile: durante l’opera inonda il pubblico di merda. Il collettivo BBB descrive l’arte come un cervo imbalsamato: bello e attraente fuori ma morto dentro. La loro arte, la UAU art è, dicono, una merda, una bella merda.
Questi frammenti di vita hanno tutti uno sfondo socio-politico poiché portano all’attenzione del pubblico contesti e soggetti minoritari, sottoculturali o di movimento – il che carica ulteriormente le narrazioni di senso e di un risonante il personale è politico. Tutto avviene in luoghi in cui si può fruire di cultura. L’ambientazione delle storie, infatti, è simile: ha a che fare con l’esperienza che il pubblico ha con l’arte. Nel primo racconto ci troviamo ad un concerto e in un rave club, nel secondo in un cinema, nel terzo durante la privata lettura di un libro su un tram, nel quarto in un teatro.
Dovessimo trovarne un quinto, ci troveremmo sempre in un teatro, in particolare al Metastasio di Prato, guardando quello che la voce fuori campo descrive come un film. Dovessimo trovarne un quinto, questa recensione, scritta da una persona che un giorno va in un teatro fuori regione in cui non è mai stata prima e dove, per la prima volta nella sua esperienza da spettatrice, le poltrone della platea sono intervallate da tavolini rotondi, il che sottolinea in lei il disagio dell’essere lì da sola, poiché di solito a teatro è abituata ad andarci in compagnia. Alla fine di quello spettacolo viene proiettata una scritta “CESSATE IL FUOCO IN MEDIO ORIENTE. FREE PALESTINE”: il disagio di essere da sola passa in secondo piano rispetto al disagio di essere lì nonostante quel che succede fuori.
E quante altre storie potrebbero aprirsi per ogni persona che guarderà questo o un altro spettacolo, quante per ogni persona che leggerà queste parole che parlano di questo e di chissà quanti altri spettacoli come questo o diversi da questo? Qualcuno scriveva: il mondo nasce per ognun che nasce al mondo.
La luz de un lago parla della e alla nostra esperienza come spettatori, esterni alle dinamiche produttive e riproduttive del teatro, ma che guardano o vedono ciò che l’artista crea, seleziona, sceglie di affidare loro, il tutto seduti in un teatro. Teatro che ricorda – a chi vi passa solo come fruitore del genere – essere comunque anche un luogo di lavoro, oltre che di consumo, luogo intrinsecamente politico ed economico, oltre che culturale. Le storie possono sempre essere mediate da qualcun altro o da qualcos’altro, anche le nostre. Siamo tutte spettatrici e siamo tutti spettatori che proiettano la loro storia nelle storie altrui.
Largo all’avanguardia / Pubblico di merda / Tu gli dai la stessa storia / Tanto lui non c’ha memoria
Largo all’avanguardia, Skiantos (1978)