altrevelocita-logo-nero
6005928077856719489

Finale. Galli, Sini, Angelini e la sezione arte concepita da Davide Ferri

di Altre Velocità

Questi contributi fanno parte dello “Speciale Ipercorpo 2024”

Per email

Dopo aver partecipato al laboratorio e alla perfomance interattiva dedicati a un pubblico infantile e a famiglie dal titolo Pop, abbiamo posto al suo ideatore, Nicola Galli, alcune domande per scoprire qualcosa in più sul lavoro che ha portato nel corso dell’ultima giornata del festival. Ecco lo scambio tramite posta elettronica che abbiamo avuto con lui.

Il laboratorio POP rielabora dopo dodici anni il tuo primo progetto, O | proiezione dell’architettura ossea. Come cambia, cosa viene ripensato per arrivare alla proposta laboratoriale? Perché e cosa succede nella scelta di “aprire” una propria creazione portandola a interagire e agire insieme ad altre persone?

Ci sono spettacoli che rimangono impressi nella memoria personale, in quella collettiva delle persone che lo hanno attraversato e in quella dei luoghi che ha abitato. Provo un’affezione nei confronti di questa creazione d’esordio e ripensarla oggi trasformata riaccende le intenzioni che mossero il processo creativo. A distanza di 12 anni, tutto è cambiato e ho desiderato intercettare questo ricordo aggiornandolo con gli interessi e i valori che muovono ora il mio lavoro: il desiderio di condivisione dell’esperienza corporea e l’urgenza di immaginare [insieme alle realtà che ospitano questo progetto] contesti sociali nei quali esplorare la relazione corporea, in un clima paritario nel quale tutte le persone condividono un’esperienza.

Il laboratorio viene proposto a bambini e famiglie. Ci sarebbero differenze se si rivolgesse solamente ad un gruppo di bambini, che non comprendesse una presenza genitoriale/adulta, o potrebbe potenzialmente essere rivolto a chiunque?

L’accoglienza delle famiglie – o più in generale degli adulti – all’interno del progetto dedicato all’infanzia invita le persone a pensarsi come individui che compongono una società, quindi un insieme eterogeneo. L’unicità che i singoli corpi – giovani e adulti – portano in campo nel progetto permette un confronto dal valore inestimabile e spariglia le carte del quotidiano. Gli adulti riscoprono così la dimensione ludica senza il bisogno di giocare, intrattenere, o assistere in funzione del più piccolo, mentre i bambini e le bambine esplorano il gioco nella totale parità e scoperta dei corpi, guardando gli adulti da un punto di vista inedito. Mettere in pausa le consuetudini e i ruoli del genitor* / figli* ci permette di nutrirci di una consapevolezza che arricchisce la nostra relazione con il mondo.

Durante la pausa che divide la prima e la seconda parte del laboratorio, disponi sul pavimento uno strato costituito da diversi rotoli o fasce di pluriball. Perché la scelta di utilizzare questo tipo di pellicola, un materiale da imballaggio e imbottito, utilizzato nella vita di tutti i giorni per il trasporto o per fare dei traslochi? Le sue qualità come si mettono in dialogo con l’esperienza ludica e gli esercizi che proponi? Che cosa ti piace di questo materiale? I partecipanti sono incoraggiati a scoprirne con il proprio corpo il peso, la sua consistenza, il rumore e i differenti rigonfiamenti.
Tu sei il primo a calpestare questa superficie e quando ti guardavamo stamattina c’era come un silenzio assordante nell’aria e quasi un’attesa o trepidazione o stato di suspence. E poi il tuo piede poggia a terra e in quel momento scoppia una bolla.

Il pluriball è un materiale che soddisfa le persone di tutte le età: intercetta la dimensione tattile – fondamentale a partire dai primi mesi di vita e indispensabile per la scoperta del mondo esterno – e la dimensione catartica dell’atto di far scoppiare le bolle di plastica utilizzando il proprio corpo in movimento. Il silenzio, o per meglio dire la predisposizione all’ascolto, crea attesa, stupore e desiderio imitativo. Dopo una prima esplorazione solitaria sul tappeto sonoro, invito i bambini e le bambine – e gli adulti in conclusione – a seguirmi nella sperimentazione delle differenti possibilità motorie. Il risultato è un unisono corale che ogni volta mi sorprende. Ci ricorda che non servono sempre le parole per comprendersi, ma nuove lingue, gesti e sguardi arricchiti da quel silenzio vibrante che ci accompagna verso nuove modalità relazionali.

Carlo Sini e la vitalità della cultura e del teatro

Seduti fra le luci morbide e avvolgenti nell’immenso deposito dell’EXATR la voce calda di Carlo Sini risuona dallo schermo su cui è proiettato il docufilm a lui dedicato dalla compagnia Teatro Akropolis. Si tratta di un film-documentario dal titolo La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro, parte di un ciclo più grande in cui ogni pellicola si concentra su un intellettuale o un’artista significativo per il mondo delle arti e del teatro. Le riprese fatte negli interni della casa di Sini a Milano e in natura accompagnano i suoi discorsi riguardo a chi sia un filosofo e alla funzione delle rappresentazioni ottenute dal linguaggio e dal teatro. Il tono di Sini, seduto alla scrivania del suo studio incrociato da una parete di libri, pacato e compassato si ravviva gagliardo in più momenti, come quando ammonisce riguardo al ruolo del linguaggio nella filosofia. L’astrazione e la logica della scrittura sono fondamentali per la filosofia, ma non bisogna credere che la parola possa afferrare del tutto la profondità delle rivelazioni che si sono ottenute. La scrittura è solo un mezzo per non perdere le speculazioni, ma la conoscenza è al di là del giudizio logico. Una disciplina ancora più antica e in grado di evocare l’infinità, che la filosofia e la scienza sondano, è il teatro. Le tracce di musica classica suonate da Carlo Sini sul suo pianoforte accompagnano una discussione sulla drammaturgia, intesa come messa in scena del mondo e come un mezzo attraverso il quale gli interpreti si fanno portatori di verità ancestrali animati dall’urgenza erotica e disperata di colmare quella distanza inesorabile che divide ogni persona dal resto dell’umanità. Il docu-film apre uno scorcio sulla sua sconfinata saggezza di Sini e si citano le sue teorie più innovative, le sue opere e i grandi pensatori e artisti dell’Occidente come Heidegger, Pound e Platone. Che cos’è un “foglio-mondo”?  Cosa ci comunica non solo con la scrittura, ma anche con le sue tavole a colori Sini? Dove si nasconde il mistero della vita nelle rappresentazioni aristiche? Il discorso è transdisciplinare e unisce arte, scienza, politica, ed è tenuto vivo anche dalle ricerche dell’associazione Mechrì. Laboratorio di filosofia e cultura, con cui Sini collabora. In questo episodio de La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro i colori grigiastri e invernali della fotografia che ci regala la vista di Milano dall’alto dell’appartamento del filosofo, o i paesaggi di un bosco di alberi spogli ci insinuano nel disorientamento di quelle domande che la filosofia porta avanti. Ma le luci calde delle stanze domestiche di casa Sini e la la parola viva del filosofo sembrano illuminarci per un attimo nella nostra incertezza.

Vent’anni di Ipercorpo. Conversazione con Claudio Angelini

Forlì, 14 settembre 2024. Ipercorpo nasce a Roma diciotto anni fa, pur arrivando quest’anno alla sua ventesima edizione. È il 2006 quando il gruppo Santasangre inaugura uno spazio teatrale occupato, Kollatino Underground, nell’omonimo quartiere della capitale, in risposta all’assenza di spazi per giovani realtà e compagnie. Città di Ebla viene intercettata e invitata a partecipare insieme ad altre realtà tra cui Cosmesi, Ooffouro, Alessandro Carboni, gruppo nanou. Da qui l’idea di proseguire questa esperienza nel tentativo di comporre e ritagliare uno spazio d’azione, ospitando questo momento di incontro a Forlì, prima di riproporlo a Roma nella sua terza edizione a distanza di pochi mesi. Il progetto verrà poi ereditato e portato avanti dal 2007 da Città di Ebla, dagli spazi dei Magazzini Interstock all’EXATR che abitano dal 2011. Abbiamo incontrato Claudio Angelini, direttore generale del festival Ipercorpo, per rivolgergli alcune domande.

Per identificare la ventesima edizione di Ipercorpo, avete preso in prestito il titolo di un’opera di un’artista visiva, Alessandra Spranzi, Tornando a casa. L’opera compare anche sul manifesto del programma.

Una parola importante per me non è “radici” bensì “casa”. Tornare a casa è un titolo che mi commuove allo stesso modo del lavoro di quest’artista milanese. Lei ha usato un’immagine di un interno borghese, poi ha trovato un modo per bruciarla, e infine ha fotografato il principio d’incendio. È un atto straordinario perchè ci dice tanto anche della fotografia, di come funziona la fotografia e del tempo della fotografia. Io sono convinto che la grande fotografia non stia ferma. Può essere molto più mobile del cinema. L’opera di Alessandra, allora, non sta ferma e si ha la percezione che immediatamente dopo succederà qualcos’altro. Essa custodisce una grande dinamica. Purtroppo è un movimento di sparizione, qualcosa che si andrà a mangiare l’immagine tutta. Il titolo, Tornando a casa, si può riflettere nella morfologia o nel corpo della comunità tutta di Ipercorpo. Una comunità di persone a geometria variabile. Non siamo tutti professionisti, c’è gente che da una vita fa un altro mestiere, c’è gente pagata e ci sono volontari e poi ci sono dei finanziatori che investono dei soldi. È una comunità variabile, come tutte le comunità e che sta in piedi, miracolosamente, da vent’anni. In tutto questo tempo accadono molte cose e non ci si deve vergognare a dire che forse, anche per le vicissitudini che ci sono accadute, subentra una forma di stanchezza. Occorre ammetterlo perché fingere che non succeda significa reiterare dei gesti e portare avanti delle cose pigramente fino consumarle. Arrivare a questa sorta di compleanno che non ha niente di celebrativo significa chiedersi: bene, ma arrivati a questo punto? Vent’anni fa Città di Ebla come compagnia era molto attiva e produceva spettacoli. Esisteva ancora la critica, quella dei giornali, che oggi non c’è più, ed esisteva uno spazio sui quotidiani. Esisteva una critica che aveva anche un valore di selezione e orientava in qualche modo le scelte. Esistevano meno festival mentre oggi c’è una proliferazione assoluta di eventi. Ad oggi abbiamo un sistema di finanziamento che non si è ampliato, le risorse a disposizione sono le stesse, qualcuno può accedervi ed è evidente che anche in una regione virtuosa come l’Emilia-Romagna, l’aumento delle risorse non è proporzionale all’inflazione e ai costi per cui fondamentalmente sei molto più povero di dieci anni fa. Tuttavia io non sono convinto che siano i soldi a fare la differenza, è la fede a farlo. Werner Herzog diceva: «io mi sono sempre prodotto i film perché sono convinto che sia la fede, anche in senso laico, a spostare le montagne e non sono i soldi a farlo». Sono sono assolutamente convinto che sia così. Questo non significa che il lavoro non debba essere pagato, però poi ciascuno deve inventarsi le modalità per stare al mondo e per fare le cose che vuole fare. Quando, invece, questo lavoro comincia a diventare una scusa o un pretesto, io, allora, avverto grande stanchezza. Questo titolo, allora, presenta la ricerca di motivazioni nuove affinché un gruppo di amici, persone, famiglie custodisca un desiderio forte e sempre rinnovato per garantire sempre una dimora a questo festival. Ipercorpo è prima di tutto e anche un gruppo che, come tutte le cose dopo vent’anni senza dei presupposti economici altissimi, rilevanti e abbastanza adeguati, comincia a farsi delle domande e questi interrogativi vanno portati in profondità. Che cosa desideriamo per domani, cosa vogliamo fare, ha senso stare ancora insieme?

Una delle anime del festival, forse la più importante, è Città di Ebla. Quale momento sta attraversando oggi questa realtà e qual è il suo rapporto con questa manifestazione?

Città di Ebla è la madre del festival. È nata come compagnia principalmente di produzione, poi è incappata a Roma in Ipercorpo e l’ha portato avanti. Oggi Ipercorpo è sicuramente l’attività principale che Città di Ebla svolge, non l’unica ma la principale. Città di Ebla è anche la realtà che ha più di tutto lottato per avere questo luogo e questo dato ci viene riconosciuto anche dall’altra realtà che condivide con noi questi locali, Spazi Indecisi. Nel tempo sono accadute tante cose. Ad esempio io ho smesso per il momento di curare delle regie, e Ipercorpo è diventata quasi una ricerca della compagnia. Una produzione che ci permette di interrogarci sulla parola festival, difendendo le parole “arti dal vivo”. In un certo senso, la sezione arte, curata da Davide Ferri, si inserisce in questo discorso. Nei locali dell’ex rimessa dilagano le opere di artiste e artisti che Davide decide di portare e trattare. E abbiamo capito, come festival, che l’arte contemporanea in un certo senso andava anche raccontata: gli spettatori non vanno lasciati soli davanti alle opere perché il rischio è quello di perdersi ed è oggettivamente difficile trovare poi il senso. Gli ultimi tre anni sono stati contrassegnati da enormi fatiche e questa è un’edizione che paradossalmente sta restituendo tantissime energie, anche in quello che succede di casuale a contatto con le condizioni metereologiche e gli spazi all’aperto ad esempio. Ho una precisa postura che valeva anche quando immaginavo dei lavori per il teatro: creare le condizioni perché avvenga qualcosa di ulteriore rispetto a quello che hai pensato e non affezionarsi a un quadro definitivo di tutto, ma creare delle condizioni di fertilità. Questo, allora, può diventare un contesto di enormi aperture e l’aspetto su cui voglio lavorare è l’incrocio delle sezioni, ma non significa adoperare parole come ibridazione, che mi ha stancato, o multidisciplinarietà, un termine dal sapore governativo. Mi piace pensare che qui il teatro, la madre di tutte le arti perché le comprende coinvolge tutte, apra le porte ad altrettante sensibilità. Auguro questa inclinazione, ancora maggiore, a Ipercorpo del futuro per trovare un’identità ancora più forte.

In merito alla scelta degli spettacoli in programma, sono prevalsi sguardi su tematiche politiche o su una particolare qualità innovativa rispetto agli artisti e ai lavori coinvolti? La compagnia Abbondanza/Bertoni, per esempio, porta uno spettacolo sull’emancipazione femminile.

Di solito non seguiamo un filo conduttore o una tematica, una volta iniziato il festival io vedo il disegno come voi per la prima volta, che diventa completo solo nell’incrocio di ciò che accade tra arte, musica, spettacolo. Il filo va tracciato dallo spettatore, perché penso che le opere debbano servire anche a questo, al di là del racconto dell’artista: una volta ideata e realizzata, l’opera vive e chi ne partecipa può leggerla e ricordarla come crede, conservandone ciò che preferisce e che ha trovato interessante. Lo spettacolo della compagnia Abbondanza/Bertoni, Femina, può essere certamente letto come uno sguardo sull’emancipazione femminile, pur presentando un’estetica che rimanda a un background non strettamente contemporaneo – penso al lavoro di Vanessa Beecroft, artista che da circa trent’anni indaga nelle sue performance l’immagine e la presenza femminile. Il punto non è trovare per forza una coerenza tra i vari elementi, i motivi legati alla scelta di spettacoli e artisti possono essere svariati: gradi di affezione, funzionalità di un lavoro rispetto allo spazio, come Piscina Mirabilis di Michele Di Stefano/mk negli spazi dell’EX ATR, esperienza resa ancora più forte dal rumore della pioggia dall’esterno. Quindi non cerchiamo una coerenza stringente, ecco: ci sono degli slanci, delle affezioni, delle cose che si incontrano durante l’anno, che poi vengono composte. Solo alla fine vediamo qui quello che succede, e questo si configura come limite e come vantaggio allo stesso tempo. Ma cerchiamo così di rimanere fuori da quella logica di disegno troppo precisa, che non lascia spazio all’imprevisto inteso come una sorta di interazione esterna. Questo per esempio valeva anche per i lavori di Città di Ebla: per me era interessante creare occasioni per cui in scena si potessero scoprire delle cose, senza avere il disegno idealmente e precedentemente finito, sempre meno interessante di quello che potevano fare musicisti e performer dentro quella scatola che io stavo tentando di costruire. Per questo motivo mi concentravo sulle condizioni che potessero rendere la scena ricettiva rispetto a un disegno che veniva a crearsi in un preciso momento aprendosi ad elementi esterni rispetto alla sua ideazione. Il lavoro di Masque, Voodoo, si inserisce nel programma nella misura in cui l’incontro con questa compagnia è rimasto come una porta nell’iperspazio, che da ragazzino mi ha permesso di vedere a Forlì un teatro che io non avevo mai visto. La sezione teatrale di questa edizione rimane circoscritta all’interno dell’EXATR, che consente di adeguare la necessità di spazio o di prossimità implicate nei lavori ospitati ai luoghi e alle aree dell’ampio atrio centrale o della piccola sala che accoglie gli ultimi due appuntamenti in programma. Ma rimane un punto politico molto forte: siamo in un’epoca in cui il sistema di mercato ha raggiunto una maturità mai vista prima, oggi pervasiva, in grado di appropriarsi di tutto. Cosa si tratta di fare politicamente? Ci sono spazi dove questo può non accadere? Io lavoro per creare degli ambienti estranei a queste logiche di vendita, perché sono logiche pervasive che generano un sistema di scambio regolato dalla performatività e dai numeri, intaccando anche l’ambito teatrale. Il mercato è anche un grande regolatore, deve funzionare, per cui siamo chiamati a funzionare, nelle relazioni, nel lavoro, nei modi. La logica qui non vuole essere lo scambio, ma il regalo, lo spreco, cioè tutto quello che il mercato non riconosce, per provare a sganciarsi da un universo che io vedo come il peggiore incubo possibile, perché appunto non permette l’incendio, non permette l’epifania.

Berti, Spinelli, Spranzi, Pozzi, Silvestroni, Tappari

Per raccontare la sezione arte, concepita da Davide Ferri per questa ventesima edizione del festival con una dislocazione di opere figurative e scultoree e installazioni presenti in tutta l’area degli spazi di EXATR, abbiamo voluto dedicare alcune righe al lavoro di ciascun artista, seguendo un ordine del tutto casuale.

Cosa ci fa una foresta tra le stanze dell’EXATR di Forlì? È tutta opera di Simone Berti. I suoi tronchi, esattamente come gli alberi in natura, esplorano lo spazio circostante: affondano le radici in profondità nel terreno e si sviluppano verso l’alto, inglobando nella corteccia oggetti a loro intorno. Dipinti su rotoli di carta lunghi dieci metri, Simone Berti srotola solo un frammento delle proprie opere, quella che è possibile ospitare all’interno dello spazio espositivo. La parte che rimane invisibile è altrettanto importante: anch’essa continua a vivere, proprio come accade in un albero.

Ivana Spinelli, professoressa, scultrice e artista, presenta a Ipercorpo 2024 tre sculture che sono rimaste nel suo studio per molti anni, prima di emergere. Ora, esposte in un nuovo ambiente, devono confrontarsi con gli strati di storia inscritti nelle pareti e nei pavimenti dell’EXATR di Forlì. La sfida è dialogare con lo spazio circostante, assorbirne la memoria e trasformarsi in qualcosa di nuovo. Questo processo infonde alle sculture un senso di instabilità, amplificato dall’equilibrio apparentemente precario con cui si appoggiano alle pareti e dalla loro composizione con oggetti eterogenei. La fisicità di ciascun elemento si intreccia con la fluidità dell’acqua che li attraversa e ne sgorga, rendendoli, in ogni loro parte, corpi vivi.

Alessandra Spranzi porta al festival un duplice contributo, prestando una sua immagine come copertina dell’evento, tratta dalla serie Tornando a casa, ed esponendo un doppio lavoro all’interno della sezione arte. Per quanto riguarda il suo lavoro fotografico, non bisogna cadere nell’errore di considerare le sue opere come semplici fotografie, poiché il gesto che la porta a creare quelle immagini va oltre il semplice “punta e scatta”: si tratta in realtà di “fotografie di fotografie” nella misura in cui la fotografia stessa viene utilizzata come oggetto trovato casualmente poi “ri-fotografato”. Questo modo di concepire la fotografia rimane sospeso in bilico tra gioco e magia: nell’opera fotografica un uomo sembra sospeso a tenere in equilibrio il muro della stanza. Il caso è anche l’artefice del contributo video: due ragazze sorprese a giocare a palla in un cortile, riprese con una videocamera, in bilico tra ordinarietà e apparizione magica.

Come ha definito il curatore Davide Ferri, Lucio Pozzi è stato il “regalo” di questa edizione di Ipercorpo: artista e performer, Pozzi ha occupato uno spazio dell’atrio centrale dell’EXATR di Forlì da mercoledì a sabato, durante i quali ha creato una grande opera lungo un’intera parete. La sua intenzione e sfida era quella di abitare lo spazio e realizzare un’opera che non solo traesse ispirazione dall’ambiente circostante, ma che fosse anche influenzata dalla presenza di chi si fermava a osservarlo. Ogni stimolo raccolto, anche dai passanti più distratti, ha lasciato indirettamente il suo segno sull’opera.

Mimetizzarsi: essere in armonia con l’ambiente senza scomparire. Questa sembra essere la rotta seguita da Tommaso Silvestroni nell’ideazione e realizzazione della sua opera. Difficile definire se si tratta di tombini o di fontane, l’artista stesso non sembra volersi sbilanciare troppo verso una definizione. Si tratta di oggetti disfunzionali. Funzionalmente, un tombino ha il compito di far defluire via l’acqua lungo uno scarico, ma qui questo non accade: esso la rigetta fuori facendola zampillare da un foro. Il tombino ha perso quindi la sua funzione di scarico per acquisirne una nuova, quella estetica. L’autore per il momento pensa alle proprie opere solo all’interno di uno spazio espositivo; in futuro, non esclude di poter vedere la propria arte al servizio della collettività.

L’idea di realizzare ventilatori sonori è nata quasi per caso. Anna Tappari racconta di aver avuto l’intuizione un pomeriggio d’estate: «Ho sempre trovato molto affascinante quel gioco che si fa cantando davanti alle pale dei ventilatori. Il suono ne esce distorto, diverso». L’artista ha così unito dei ventilatori con degli speaker che riproducevano suoni da lei registrati: un organetto Bontempi, gracidii di rane, folate di vento. I ventilatori assumono così caratteristiche umane: voltano la testa, producono suoni. Fondere un oggetto fisico con una componente immateriale, come il suono in questo caso, è sempre stata una costante del suo lavoro.

L'autore

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

Quarta giornata: bambole e voodoo

Questi contributi fanno parte dello “Speciale Ipercorpo 2024” Femina, spettatori allo specchio Venerdì 13 settembre,

#2 Giù la maschera

Questi contributi fanno parte dello “Speciale Ipercorpo 2024” Era il suo compleanno ma non lo

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.