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(eclat volcan dal sito del festival)
(eclat volcan dal sito del festival)

Il cuore del teatro pulsa nelle strade. Uno sguardo sul Festival International du Théâtre de Rue d’Aurillac

di Nella Califano

Nelle giornate di agosto dedicate al celebre Festival International du Théâtre de Rue l’intera città di Aurillac (Francia) prende vita sotto un’altra forma. Non c’è un solo angolo di strada che non sia invaso dall’energia delle migliaia di persone (circa 100.000 spettatori in una città che conta poco più di 25.000 abitanti) che ogni anno prendono parte a questo evento di straordinaria potenza artistica. Si assiste a una sorta di gioioso carnevale che per quattro giorni, da mattina a sera, va avanti senza sosta e in cui il tempo è scandito dal ricchissimo programma della rassegna. Si capisce che la giornata sta volgendo al termine (anche se nessuno sembra aver voglia di andare a dormire!) quando enormi carri e fanfare attraversano la città, incrociandosi e fondendosi, per poi ripartire al ritmo sfrenato di fiati e percussioni.

È incredibile come una città millenaria di questo tipo, dotata di un importante patrimonio architettonico come castelli e abbazie medievali, riesca ad accogliere con tanta naturalezza una simile manifestazione, ma nello stesso tempo, proprio per le sue caratteristiche, diviene il luogo ideale da trasformare in un teatro a cielo aperto. Non a caso il festival è stato volutamente inserito all’interno di un territorio rurale. Piazze, parchi, giardini, ogni angolo della città diventa spazio perfetto per assistere a uno spettacolo; sullo sfondo le meravigliose montagne della regione del Cantal, con i suoi vulcani.

L’importanza del Festival International du Théâtre de Rue d’Aurillac è da rintracciarsi nelle motivazioni stesse della sua nascita, nel 1986 grazie a Michel Crespin: il desiderio di «far incrociare tendenze, estetiche, pratiche e discipline; aprirsi a una grande diversità nelle forme dello spettacolo così come nella provenienza degli artisti». Infatti è possibile imbattersi in ogni sorta di linguaggio artistico, dal teatro di figura, a quello musicale, dal monologo al teatro sperimentale, dalla danza al circo e altro ancora. Gli spettacoli degli artisti e delle artiste provenienti da tutto il mondo sono circa 700, tra quelli delle 20 compagnie “officielles” e quelli delle altre 600 “de passage”. Il festival è riconosciuto come una delle principali manifestazioni di spettacolo dal vivo in Francia ed è stato da sempre capace di riunire e accogliere pubblici molto diversi tra loro, di ogni età e classe sociale, complice la quasi completa gratuità dell’evento. E risulta chiarissimo che sia proprio questa eterogeneità a creare un’atmosfera generale di gioiosa condivisione e libertà.

La città, dunque, muta nel ritmo e nell’aspetto. Lo sguardo si posa di continuo su centinaia di manifesti pubblicitari che, affissi dappertutto per le strade, ci invitano ad assistere a uno spettacolo. Le rappresentazioni sono rivolte a tutte le fasce d’età, ce ne sono anche per i piccolissimi, da 0 a 3 anni. La sensazione è quella di chi si aggiri in una immensa biblioteca, tappezzata di libri dalle copertine splendide, incapace di scegliere un volume. Si procede quindi per istinto (a meno che non ci si imbatta in un nome conosciuto), mappa alla mano, per cercare la propria “pastille”, che indica con un numero la zona della città in cui lo spettacolo è previsto.

(immagine dal sito di Mattatoio Sospeso)

Pastille 33

Sulla facciata del Teatro Comunale di Aurillac Matteo Mannucci, della compagnia italiana Mattatoio Sospeso, oscilla pericolosamente su una panca di legno legata sui lati da due corde. Lo spettacolo è OUT! e lo guardiamo seduti per terra, con il naso all’insù. Il lavoro, dalla spiccata comicità, assume dei tratti particolarmente esilaranti per il modo in cui la storia è costruita, omaggiando e scimmiottando lo stereotipo dell’amore litigarello all’italiana, che unisce la comicità al dramma, e parodiando e ridicolizzando gioiosamente anche l’idea della coppia tradizionale, dal momento che l’impetuosa sposa del protagonista, scaraventato fuori di casa, è un omaccione barbuto (Guillaume Suarez Pazos) vestito con un delicato abitino a fiori. La lotta disperata tra Mannucci, che tenta di riconquistare la sua sposa lanciandole mazzi di fiori e cercando di montare sul balcone di casa e Pazos che, alternando alla rabbia sorrisi maligni, gli risponde scagliando dallo stesso balcone insalate, vestiti, valigie, bottiglie è scandita da godibilissimi motivetti degli anni ‘30, che amplificano il divertimento per la discordanza tra le immagini furiose e le dolci melodie che parlano d’amore.

Sembra davvero di trovarsi di fronte a due attori del cinema muto e infatti il lavoro si ispira brillantemente alle imprese acrobatiche di Charlie Chapline e Buster Keaton, lasciando gli spettatori con il fiato sospeso tra un volo e l’altro, tra un’arrampicata e una caduta studiata ad arte. Come in ogni spettacolo di strada che si rispetti, grande spazio è dato agli spettatori e alle spettatrici, che diventano parte integrante della performance. Lo spettatore non è mai “al sicuro”, letteralmente, senza metafore: bisogna, per esempio, schermarsi dagli oggetti scagliati alla rinfusa dalla finestra o aspettarsi di incrociare da un momento all’altro lo sguardo dell’attore, che immancabilmente ci chiamerà in causa. L’incauta spettatrice della prima fila diventa la donna di cui il protagonista sembra innamorarsi: riceve fiori, viene coinvolta in una danza appassionata e incassa imbarazzata le occhiatacce della sposa. Altri due o tre spettatori, invece, sono chiamati a un lavoro piuttosto importante: tirare con forza alcune delle corde sospese per permettere al protagonista di montare sul balcone di casa, che viene raggiunto con fatica tra un cedimento e l’altro.

È il gioco del teatro di strada, un equilibrio delicatissimo tra attore e spettatore che, per seguire fino alla fine la performance, durante la quale è facile distrarsi, a causa dei rumori della strada o di una posizione scomoda, ha bisogno di essere completamente affascinato dall’accadimento scenico. OUT! è uno di quei lavori che tiene lo spettatore con il naso per aria fino alla fine… e il cuore in gola! Matteo Mannucci è abilissimo a giocare con le corde che lo tengono sospeso a mezz’aria e sulle quali riesce a volteggiare ed eseguire capriole mozzafiato. Disteso sulla panca di legno, a testa in giù o letteralmente appeso a un filo, riceve bastonate a più non posso e viene colpito continuamente da ogni sorta di oggetto. Proviamo pena per questo ometto (se lo confrontiamo alla sua giunonica sposa!) che alla fine dello spettacolo è ridotto a uno straccio, scapigliato e con gli abiti (quelli che restano) penzoloni. Forse è in questo momento, con il suo volto stralunato, ma ancora tenace, che il protagonista ricorda maggiormente i già citati Chaplin e Keaton, la cui forza sta proprio nella capacità di suscitare al contempo tenerezza e ilarità. Ma i suoi sforzi verranno premiati e alla fine la sua sposa se lo porterà a casa, in spalla, come una preda appena cacciata. Ah, l’amore!

Pastille 1

Siamo al Parc Peyrolles, dove è riunito il collettivo queer e femminista tolosiano Bottes de Queers. In questo spazio, in ognuna delle giornate dedicate al festival, si susseguono spettacoli e concerti, dalle 11 del mattino all’una di notte. Le tematiche trattate sono molteplici, dall’ambiente, all’identità, agli affetti, alla solitudine e numerosi sono anche i linguaggi utilizzati, che vanno dalla musica, alla danza, al canto, al teatro di marionette e al cabaret. Tra gli spettacoli in programma ce n’è uno, breve, circa 40 minuti, che viene replicato ogni giorno ed è rivolto a spettatori e spettatrici dagli 8 anni. Ideatore e attore è Antonin Paris, che ci parla delle difficoltà di sentirsi un uomo nel corpo di una donna e del percorso compiuto per affermare la propria identità. Questa storia delicatissima, ironica ed emozionante, raccontata con dolcezza, a cuore aperto, passa attraverso due corpi, quello dell’attore e quello di una marionetta, una sorta di alter ego che rappresenta il mondo interiore di Antonin, la sua rabbia verso un mondo che fatica ad accettare ciò che non rientra nei codici precostituiti. Lo spettacolo è Colérique di Cie R.S.A ed è la storia di un bambino in collera, che diventerà un adulto in collera, finché qualcosa non cambierà.

La forza di questo lavoro sta nella capacità di bilanciare comicità e tenerezza e nello stesso tempo di non perdere mai di vista il motivo della rabbia che pervade il protagonista, la necessità di sedarla, ma anche di sperimentarla per mettersi alla prova e costruire la propria identità, in opposizione a quella che viene considerata la norma. La piccola marionetta a poco a poco si sveste, con l’auto dell’attore che la manipola, liberandosi degli abiti femminili che non sente propri e facendo a pezzi una Barbie, anch’essa chiaramente simbolo di un’identità che non gli appartiene. Non è semplice sfilare i vestiti perché le sue mani, strette in due enormi pugni, non le permettono di lasciar passare gli abiti. È un percorso interiore che passa anche attraverso il corpo. La marionetta ha movimenti lenti, quasi affaticati, è arrabbiata, ha voglia di distruggere tutto ciò che gli si para davanti agli occhi. L’attore/manipolatore cerca di calmarla con dolcezza, ma sembra che per il momento nulla possa distogliere la marionetta da questo sentimento, tanto che decide di sedersi, raggomitolandosi con i pugni intorno alle ginocchia, in un atteggiamento di chiusura.

(dalla pagina Instagram di Cie Rsa)

È a questo punto che ha inizio il monologo di Antonin. Non racconta solo di sé, ma attraverso un discorso che accomuna le storie diverse, eppure simili, di chi si è misurato con le sue stesse difficoltà, invita lo spettatore a intraprendere un viaggio nel suo mondo. È il mondo di chi ha vissuto per tanto tempo una vita nella quale non si rispecchiava, di chi ha provato costantemente rabbia e disagio, di chi, nonostante il raggiungimento di una piena consapevolezza della propria vera identità abbia dovuto continuare a giustificare le proprie scelte agli occhi di chi non poteva concepirle, medici inclusi. A queste parole la marionetta a poco a poco sembra rilasciare le tensioni e mettersi finalmente in ascolto. Il bambino e l’adulto si ritrovano, si abbracciano dolcemente. È un momento di grande commozione per tutti e tutte noi. I grossi pugni tornano ad essere piccole mani e stavolta gli abiti possono scivolare via, per fare posto a una nuova pelle. Calze fucsia, maglia a righe blu e bianche. L’attore e la marionetta sono vestiti allo stesso modo. Sono una cosa sola. La rabbia scompare, resta solo l’amore, l’amore per sé, per un’identità riconquistata.

Colérique è uno spettacolo senza sbavature, una piccola perla in cui il tema dell’identità viene trattato con grande consapevolezza. È chiaro che per parlare della rabbia con la giusta distanza sia necessario averla superata e infatti è incredibile come in uno spettacolo che gira attorno a questa emozione l’unico sentimento che resta allo spettatore sia la tenerezza, il desiderio di disinnescare ogni tentativo di ostacolare la felicità dell’altro. Colérique è infatti un lavoro che si spinge oltre la questione dell’identità di genere, tocca dei temi dal valore universale, che riguardano gli adulti come i bambini. È il tentativo di mostrare a tutti e a tutte che nonostante a volte ci si possa sentire incompresi e provare per questo dolore e rabbia, esiste sempre una strada da percorrere tutta nostra, che abbia come obiettivo l’amore per sé: apriamo i pugni serrati, alziamo lo sguardo e affrontiamo la vita. Magari con un pizzico di ironia.

Le giornate del Festival International du Théâtre de Rue d’Aurillac scorrono velocissime e intense. Impossibile vedere tutto, eppure la sensazione è quella di essere stati coinvolti in ogni singolo spettacolo. Solo passeggiando per la città si riescono a cogliere di ogni performance suoni, risate, musiche. L’intergenerazionalità è fortissima, ci si sente come in un enorme parco dei divertimenti in cui esiste il gioco adatto a ciascuno spettatore e a ciascuna spettatrice. È qui che risiede la potenza artistica del teatro di strada, che sembra riportarci alle origini del teatro stesso: non si dimentica mai dello spettatore, sempre e solo per lo spettatore agisce, solo con lo spettatore costruisce e procede. Dai lavori più riusciti a quelli meno accattivanti emerge sempre l’energia portentosa che sta nello scambio costante tra attore e fruitore. Entrambi estremamente esposti, estremamente vicini, estremamente necessari l’uno all’altro. In continuo mutamento, insieme allo spazio e a ciò che lo riempie in quel momento.

Le regole si stabiliscono insieme, performance dopo performance. Attraversando Aurillac in festa si ha la sensazione che il teatro sia più vivo che mai e che il suo cuore pulsi nelle strade, dovunque ci sia qualcosa da dire e qualcuno in ascolto, dovunque ci si possa ritrovare in una relazione di scambio reciproco che non contempli barriere e gerarchie, dovunque conti solo il godimento del qui e ora. D’altra parte, la potenza comunicativa del teatro di strada non è certo una novità, come ci insegna Giuliano Scabia che considera la strada una maestra, «educatrice di lingua e di gesto», una «vittoria della comunicazione, un atto generativo di gioia», il luogo in cui incontrare «la gente in cammino, chi sta fuori dal teatro e non è in atteggiamento da spettatore» (dalla prefazione di Paolo Stratta e Michela Pollone, Il teatro di strada in Italia. Una piccola tribù corsara. Dalle piazze alle piste del circo, Titivillus, 2008).

È notte, un uomo avvolto in un mantello nero tiene tra le braccia una marionetta tutta bianca. Intorno solo tre passanti. La marionetta li invita a sedersi per terra, li accarezza teneramente, unisce le loro mani e augura a tutti la buona notte. Non c’è sipario, ma è chiaro che lo spettacolo è finito.

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