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Fertili terreni incolti. “Germogli”, il teatro che cresce – un report da FU ME Festival

di Ilaria Cecchinato

Fragili e vitali al contempo, i germogli hanno bisogno di cura, tempo e spazio, così come di tenacia e perseveranza, per potersi radicare al terreno, espandersi e crescere rigogliosi. È inevitabile che non tutti riescano a sopravvivere o a farsi grandi: non esistono luoghi totalmente sterili e la legge della natura impone la sua selezione. 

È dalla botanica che trae ispirazione la seconda edizione di FU ME, il festival cesenate di teatro contemporaneo diretto da Michele Di Giacomo di Alchemico Tre che, oltre a una programmazione di spettacoli e performance incentrati sulla relazione uomo-natura, il 22 luglio  ha organizzato una giornata dedicata al “teatro che cresce” dal titolo GERMOGLI, nell’ambito di Costellazione – Giovani connessioni creative, progetto ideato e coordinato dall’ associazione GA/ER – Giovani artisti Emilia Romagna, 

Nell’assolato chiostro di San Francesco, un ampio gruppo di artisti e compagnie under 35, per la maggior parte emiliano-romagnoli, sono stati chiamati a riunirsi in una dimensione assembleare per raccontarsi e discutere insieme attorno a temi che solitamente, nel parlare di nuova generazione, tendono a essere trattati solo di sfuggita: le questioni legate al reperimento delle risorse produttive, alle pratiche alternative di sostentamento, alle progettualità dei “giovani” in rapporto al mercato culturale. Strutturato in una prima parte di confronto collettivo e in una seconda, nel pomeriggio, suddivisi in quattro tavoli di lavoro, l’incontro, per la vivacità con cui si è svolto, ha dimostrato di esser riuscito a intercettare un reale bisogno di confronto generazionale su questi temi e l’urgenza di rivendicare l’attività creativa come un lavoro. 

Chiaro, siamo di fronte alla sempiterna questione dell’arte intesa da molti (moltissimi) come una passione da praticare nel “tempo libero”, in quei pochi spiragli tra il dovere e la vita; ma i nodi a cui si è giunti, sebbene portino con sé una lunga storia irrisolta, sono stati messi in evidenza in maniera onesta e diretta, come poche volte accade, o forse addirittura mai quando si parla di soldi. «Ma come pensavate facessimo noi, prima? – chiede sorpresa Marcella Nonni, fra le storiche fondatrici di Ravenna Teatro, e risponde: «faticosamente, proprio come voi: con la rincorsa ai finanziamenti pubblici, bussando alle porte dei privati, con il prestito in banca e, chi poteva, con l’aiuto dei genitori». 

Segue un attimo di silenzio come se avessimo tutti trattenuto il fiato. Sentire pronunciare quelle parole ad alta voce, mentre ci si guarda occhi negli occhi, non è affatto scontato: solitamente se ne parla parla per sussurri, con una mano davanti alla bocca per scongiurare la lettura del labiale. Tale sorpresa è allora forse rivelatoria: la questione arte-mercato è un tabù, specie tra creatori. I motivi sono validi e legittimi, in primis il fatto che all’artista non dovrebbe competere l’ambito economico-amministrativo, sebbene invece accada spesso. Tuttavia è necessario liberarsi di questo non-detto quando la resistenza a parlare di mercato e di soldi è dettata da un certo “pudore” nei confronti del tema – retaggio sociale ormai da superare – e/o dal timore di contaminare con la presunta “venalità del soldo” l’altrettanto presunta “purezza” dell’atto creativo.

Qui a Cesena, germogliando, sembra che le maglie si siano finalmente allentate.

«Di creatività ne è pieno il mondo…» 

«…quel che manca sono i finanziamenti» afferma Sissi Bassani, danzatrice e componente del collettivo Parini Secondo. La questione delle economie è centrale per il gruppo, sia sul piano personale sia su quello della pratica artistica: «tutti noi per pagare l’affitto facciamo altri lavori – continua Sissi – qualcuno ha la famiglia che lo aiuta. Mentre creiamo pensiamo sempre alle economie, che è un fattore altamente instabile». Una simile precarietà, sebbene comporti non pochi ostacoli, non è posta in termini vittimistici – vizio di cui spesso sono accusati i “giovani” – bensì con un atteggiamento determinato a trovare soluzioni e possibilità per sé e per la propria arte. «Spesso i limiti ce li autoimponiamo – continua Sissi – Abbiamo bisogno di uno spazio? Chiediamo una sala vuota al Comune. Abbiamo bisogno di soldi in più? Facciamo lavori assurdi come il mediatore di videogiochi». 

Viene così messo in luce quanto creatività ed economia non siano due poli opposti, ma ambiti strettamente intrecciati tra loro: in questi termini, diventa essenziale capire le dinamiche di questa relazione, i rischi e i possibili trucchi per aggirare i vizi di sistema. 

A riflettori accesi / Vendita e circuitazione

Sempre su questa linea, un altro nodo è la questione relativa alla vendita del “prodotto” spettacolare. La maggior parte degli artisti coinvolti – oltre a ribadire la fatica di dover ricoprire ruoli diversi, dall’organizzatore all’amministratore – denunciano che mentre la produzione è in parte sostenuta da iniziative, bandi o finanziamenti, la circuitazione degli spettacoli è praticamente nulla. «Noi riusciamo a fare repliche grazie alla rete e al sottobosco di realtà under40 con cui siamo entrati in relazione, attraverso scambi – su cui non vedo nulla di male – e, quando possibili, acquisti» riporta, fra gli altri, Camilla Berardi, attrice e co-fondatrice del gruppo Spazio A (Ravenna). In ogni caso, con la “vendita” (che spesso è solo visibilità nei piccoli circuiti) non si rientra nelle spese. Da un lato la causa delle difficoltà di circuitazione è da ricercare nelle poche economie presenti per poter pagare i cachet; dall’altro in un sistema-teatro che promuove la (iper) produzione di spettacoli senza costruire spazi (o fare spazio) affinché le nuove creazioni possano andare oltre il debutto. 

In altre parole, il mercato è saturo e non è più in grado di assorbire la quantità di creazioni esistenti. «Uno dei problemi fondamentali in Italia è che si produce troppo e sottocosto» fa notare Fabio Biondi del Centro di Residenze Artistiche l’Arboreto, e aggiunge: «Lavorare e sostenere il processo creativo dovrebbe significare investire sulla ricerca artistica senza l’ansia di un esito, aiutando a mettere in contatto gli artisti con il sistema, tutelando il diritto all’errore».

Abitare il buio / Creazione 

Dalla circuitazione, inevitabilmente, si fa un passo indietro per affrontare i momenti che precedono il “prodotto finito” e la sua vendita, ovvero le fasi di elaborazione e lavorazione dell’opera. Lo spettacolo non può esistere senza un tempo e uno spazio dedicati al processo creativo, che ha a che fare con l’ideazione, la ricerca, il lavoro in sala e le prove. Può sembrare scontato ribadirlo, ma gli artisti – in continuità con le generazioni precedenti – sembrano sentire l’urgenza di rivendicare la necessità di quello spazio-tempo e di definirlo come lavoro da retribuire. Quella della ricerca è inoltre una fase fragile, da proteggere e, per la maggior parte delle volte, tenere nascosta, quasi come un segreto da custodire in un ambiente fertile e salubre. Di occasioni di questo tipo, negli anni, se ne sono aperte diverse attraverso bandi e centri per la residenza (come l’Arboreto e Elsinor) o festival come Catalysi, nato nel 2022 in seno al Teatro Comandini e alla Raffaello Sanzio, che ne ha affidato la direzione al giovane interprete Guillermo De Cabanyes. L’obiettivo dell’iniziativa è di intercettare gli artisti ancora “nel buio”, facendo conciliare la necessità di restare dell’ombra, con un periodo di residenza, e il bisogno di confrontarsi con la luce della scena mediante il festival. Sebbene queste occasioni aprano possibilità, spesso sono il processo creativo e la ricerca a doversi adattare ai paletti imposti dal bando, dal festival, dal centro e non il contrario; mentre l’annoso problema della retribuzione economica resta irrisolto. 

Per potersi permettere una maggiore libertà creativa (e al tempo stesso produttiva: «può esistere un futuro per la nuova generazione oltre ai monologhi?»), c’è chi racconta di aver scelto il prestito in banca, che ha permesso di non lavorare da soli, ma costituire un collettivo di diverse professionalità, sia artistiche che organizzative. Si tratta di modalità “alternative”, dentro il sistema ma fuori di esso, che non ricercano il guadagno personale quanto la possibilità di investimento su una pratica di creazione e cura di un’opera del tutto personali e quanto più svincolate da logiche imposte.

Centri e periferie / Generazioni a confronto

Simili possibilità – dai bandi alle residenze fino ai festival – immettono una data di scadenza per ciò che si può definire “emergente”: superati i 35 anni, alcune porte si chiudono. Non che sia necessariamente un male: non si può restare giovani per sempre. Eppure ormai in questa etichetta ci si sta comodi, dato che permette l’accesso a tante opportunità, a finanziamenti che altrove non si troverebbero e i compromessi da fare, solitamente, non comportano un eccesso di esposizione pubblica o alti rischi di intaccare il proprio percorso. In questo senso però, si rischia di cadere vittime della retorica di cui l’etichetta si è intrisa: “under 30”, se inizialmente è nata come una formula per identificare le progettualità nuove con lo scopo di portarle alla luce e di innescare così un ricambio generazionale, negli ultimi anni si è sempre più trasformata in uno strumento politico, una casella da spuntare nei concorsi pubblici, un controllo (anche economico) dei “vecchi” sui “giovani” per assicurarsi che il “nuovo” e l’ “emergente” restino tali.

Un simile bug di sistema esiste ma è non è irreversibile. Ci sono realtà ormai decennali come Direction Under 30 che, racconta Andrea Acerbi, perseverano nel costituire un humus per la scena emergente e per i linguaggi performativi “inusuali” al sistema, affinché possano affermarsi e farsi “grandi”. Tutto ciò avviene in un contesto periferico, la città di Gualtieri (Reggio Emilia), in cui l’idea di un teatro si è fatta concreta andando anche a costituire un circuito alternativo e accogliente, in sinergia con altri contesti simili; tuttavia sul fronte economico ci si confronta perennemente con la precarietà (e le ambiguità) del finanziamento pubblico. Lo stesso vale per Fuori Luogo a La Spezia, che nasce per creare un’alternativa culturale e teatrale nella e per la città. Guardando a centri forti e ricchi culturalmente, a tal punto da essere saturi – come Ravenna, Bologna e Cesena – le possibilità di scardinare questo “errore di sistema under30” potrebbero apparire impossibile, ma a ben guardare qualcosa si sta muovendo a partire da degli spiragli di dialogo (e fiducia) tra generazioni, come nel caso di Spazio A a Ravenna (nata in seno all’Associazione Culturale Galla&Teo), il festival Catalysi a Cesena, (iniziativa della Raffaello Sanzio) o, sempre a Ravenna, Studio Doiz che è in dialogo e in rete con molte realtà del territorio.

Di soldi, potere e… teatro

Sta dunque davvero avvenendo quel passaggio di consegne di cui si discute da anni? Michele Di Giacomo ricorda a più riprese, e in particolare su questo punto, un nodo centrale della discussione: «avere soldi, significa avere potere», precisando che con ciò intende sia l’opportunità di esercitarlo, quindi di avere potere decisionale, sia di avere possibilità concrete di creazione. Se di economie e mercato a teatro si tende a parlare poco, di fronte alla parola “potere” ci si irrigidisce e ci si sottrae: è corrotta, impregnata di accezioni negative. Possedere un potere significa però anche affrontare un certo grado di complessità del proprio ruolo: implica responsabilità, alte probabilità di errore, esposizione pubblica e scomodi compromessi. Una posizione delicata e sempre precaria, ma quantomai necessaria per fare dell’atto artistico qualcosa di concreto, all’altezza di ciò che inizialmente è “solo-nella-propria-testa”; o, anche, per cambiare logiche e meccanismi del sistema ormai arrugginiti e superati.

Dialoghi intergenerazionali, network per la scena under 30, festival e bandi stanno davvero innescando quel ricambio generazionale che permetterebbe di avere potere decisionale per scardinare i blocchi di un sistema ormai fossilizzato in un’idea di teatro lontana dalle pratiche creative contemporanee (o quantomeno ancora resistente nel riconoscere e accogliere nuove modalità performative)? In altre parole: laddove girano davvero soldi, cosa sta succedendo? Poco, ma qualcosa si muove, semplicemente standoci dentro e provando a forzare le serrature. Lo suggerisce Nicola Borghesi, riportando l’esperienza di produzione dei lavori della sua compagnia Kepler-452 con un Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro. Quello di Kepler-452 è un processo creativo che parte dai contesti del reale, per studiarli e apprenderne i meccanismi, per arrivare soltanto in un secondo momento al lavoro in sala, a un testo, a un allestimento. Una pratica “anomala” per l’ente pubblico ma che, a incontrarla, si è fatto poroso, avvicinandosi alle esigenze della compagnia e riconoscendo – anche sul piano economico – l’intera fase di processo creativo. «I cosiddetti “giovani” devono influenzare i centri produttivi – afferma Borghesi – avvicinarli a nuove pratiche di creazione per scardinare vecchi meccanismi non più attuali. Già per chi verrà dopo di noi, per esempio, immaginiamo possa essere più facile farsi capire e aprire un dialogo».

La fragilità come matrice creativa

Germogliare, si diceva, rimanda all’essere fragili, acerbi, informi: tante sono le libere associazioni che abbiamo riportato su post-it colorati, appiccicati poi su una lavagna di carta bianca. Eppure le discussioni della giornata hanno dimostrato quanto quelle che possono essere interpretate come debolezze, in verità sono solide matrici di crescita artistico-creativa, piccole radici generative. Emerge una certa fatica nel raccogliere la linfa dal terreno, un po’ di rabbia e una certa impazienza. Tuttavia la vulnerabilità è rivendicata come forza vitale, perché significa scegliere di abitare il presente cercando di insinuarsi nelle crepe del sistema per tentare di romperne i meccanismi inceppati; significa «smetterla di rifiutare il proprio tempo ostinandosi nella lamentela di “star vivendo nell’epoca sbagliata”», come suggerisce Micol Vighi di Sblocco5, ma accogliere tanto gli ostacoli quanto le opportunità che la contemporaneità offre. La fragilità del “nuovo” e della generazione è allora forse dettata da un’epoca che ci vuole isolati, parcellizzati: qui a GERMOGLI, insieme a parlare di teatro, di soldi e di potere, siamo stati po’ meno soli e vulnerabili. Un po’ più una grande comunità. Che forse è quel che manca ancora – ed è assurdo per il teatro – per innescare un cambiamento concreto del sistema e delle logiche vigenti nel mercato culturale. Ora, dopo tutto questo parlar sincero e onesto di questioni concrete che però non hanno mai rinunciato a slanci emotivi e pizzichi di poesia (e per fortuna: siamo a teatro!), sarebbe necessario e importante non lasciare queste parole su volatili post-it dalla debole colla, ma raccoglierle e trasformarle in azione collettiva…

(tutte le immagini dalla pagina Facebook di FuMe Festival)

L'autore

  • Ilaria Cecchinato

    Laureata in Dams e in Italianistica, si occupa di giornalismo e cura progetti di studio sul rapporto tra audio, radio e teatro. Ha collaborato con Radio Città Fujiko ed è audio editor per radio e associazioni. Nel 2018 ha vinto il bando di ricerca Biennale ASAC e nel 2020 ha co-curato il radio-documentario "La scena invisibile - Franco Visioli" per RSI.

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