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(foto di Irene Malfanti)
(foto di Irene Malfanti)

Fa’ la cosa giusta / 2. Percorsi eccellenti, un breve report

di Giuseppe Di Lorenzo

Una restituzione dei miei due giorni degli Scarti (La Spezia, 6-7 maggio 2023) presso lo spazio del centro “Il Dialma – cantiere creativo urbano”, in cui ho potuto assistere alla messa in scena di Dirimpetto. Sinfonia d’un tratto di strada e partecipare alla tavola rotonda “Teatro, Carcere, Comunità” coordinata da Renato Bandoli. Qui la recensione dello spettacolo.

La sala del Dialma aveva ancora il prato verde che la copriva, pronto per la replica della domenica, le panche invece erano state messe a cerchio in modo tale che tutti potessimo interagire tra di noi, tra noi relatori c’erano anche i ragazzi del laboratorio “No recess!” andati in scena la sera prima, curiosi e pubblico sparsi per la sala o seduti con noi. Dopo la visione di un breve documentario che riassumeva la proficua collaborazione de Gli Scarti con “Per Aspera ad Astra”, prende la parola Andrea Cerri (Direttore artistico degli Scarti) per introdurre la tavola rotonda. Vengono ringraziate in particolare due realtà, la Fondazione Carispezia che ha sostenuto sia finanziariamente che nella fase organizzativa il progetto, e il carcere di La Spezia, gli operatori e la direttrice Maria Cristina Bigi. È il primo anno che il progetto di “No Recess!”, parte integrante di Fuori Luogo da ormai undici anni, laboratorio che ha coinvolto diverse realtà liceali spezzine (in particolare il Liceo Artistico Cardarelli), viene messo in relazione con il percorso laboratoriale in carcere con lo stesso obiettivo, ovvero lo spettacolo. L’idea dietro il progetto, ci tiene a sottolinearlo Cerri, non è mai stata di un percorso di “redenzione” o la pretesa di avere un impatto sociale, ma sempre quella di avere la finalità artistica come unica tensione dietro il lavoro. A coordinare la tavola rotonda c’era Renato Bandoli, organizzatore, consulente artistico degli Scarti che assieme a Enrico Casale cura il progetto “Per Aspera Ad Astra” a La Spezia e dal 2011 il progetto “No Recess!”.

Il primo intervento è della professoressa Cristina Valenti, Presidente dell’Associazione Scenario e direttrice artistica di “Scenario Festival”, consulente scientifico del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna e direttrice della rivista Quaderni di Teatro Carcere. L’analisi della professoressa verte sullo stato di maturità raggiunta dal teatro in carcere nei suoi 40 anni di sedimentazione di pratiche e progettualità. Ormai, afferma Valenti, definire il teatro in carcere come “teatro tout court” è riduttivo se non addirittura fuorviante, per quanto sia stato un passaggio fondamentale per la sua affermazione, sono ormai emerse delle specificità che esprimono una significativa autonomia stilistica e concettuale. Uno degli elementi individuati è il passaggio tra il “non attore” e il “nuovo attore”, al quale è stato dedicato un intero numero della rivista Quaderni di Teatro Carcere, con diversi interventi di studiosi e esperti. Il “non attore” è stato un elemento fondativo di un movimento teatrale che ha sentito la necessità di confrontarsi con l’alterità, l’altro da sé, e in questa relazione rigenerare certe convenzioni teatrali. Invece il “nuovo attore” è la conseguenza a lungo termine del “non attore”, è una diversa professionalità che si è relazionata non in senso accademico ma bensì laboratoriale al mestiere attoriale. L’esperienza laboratoriale comporta la ricerca di approcci inusuali, e farla dentro un carcere ha la sua rilevanza, sostiene Valenti, laddove un contesto così carico di tensioni non può evitare di contaminare l’intera esperienza di crescita attoriale. Citando una frase presa dall’incipit dello spettacolo Dirimpetto. Sinfonia d’un tratto di strada: «Gli specchi si sono rotti, qui voi siete unità» la professoressa mette in luce l’urgenza anche nella regia di Casale di non evocare alcun rispecchiamento con l’alterità, collocando lo spettacolo in quel filone di pensiero che sta rivedendo la relazione attore-spettatore in una rifondazione per una «comunità restaurata», dove attori e spettatori non si trovano da una parte e dell’altra di uno specchio. In tal senso lo spettacolo riesce anche nel tentativo di sostenere fino in fondo una dimensione metaforica senza diventare retorico, dando la parola a chi normalmente non ne ha diritto, con una messa in scena che ha fatto dimenticare a tutti che stavano guardando uno spettacolo con attori non professionisti. Alla fine dello spettacolo, ci ricorda Valenti, viene detto: «Tornate alla vita quotidiana, prendete diverse direzioni, non sarete più unità qui con noi», quel momento, il momento del teatro, è stato un momento di unità, di comunità restaurata, dove l’altro da sé è diventato il termine di una relazione profonda non più di alterità ma di teatro fino in fondo.

(foto di Irene Malfanti)

Segue Antonio Cannavò, giornalista, caporedattore al Corriere della Sera, responsabile della redazione culturale Eventi, che negli anni si è occupato con costanza di teatro e carcere, fra le altre cose realizzando un’inchiesta sul teatro come motore di trasformazione all’interno del Carcere di Bollate. Nel suo intervento Cannavò ci tiene a ricordare il fondamentale apporto del lavoro e del pensiero di Armando Punzo con la sua Compagnia della Fortezza nello sviluppo effettivo delle pratiche del teatro in carcere. La peculiarità però del progetto degli Scarti è stata proprio nell’incontro tra studenti e carcerati, nel tentativo di costruire un dialogo in un territorio comune. Se la parola e i corpi sono gli elementi fondanti del teatro, dice Cannavò, la mutazione era il linguaggio dello spettacolo diretto da Casale, culminata nel vero finale, nell’esplosione di gioia durante gli applausi [ci sono stati diversi momenti di incontenibile esuberanza effettivamente, tra cui una gloriosa traversata di Enrico Casale sulle spalle degli attori detenuti, N.d.A.]. Il giornalista ci tiene a ricordare la presenza in sala dei familiari, vista come una forma di riconoscimento e rappacificamento, grazie alla forza del teatro gli attori possono finalmente apparire in altre vesti, generando una nuova immagine di sé, provocando un modo di orgoglio che ha contaminato inevitabilmente il resto del pubblico. L’altro aspetto che Cannavò ci tiene a mettere in luce è la presenza degli agenti fuori e dentro il teatro, la loro disponibilità a restare fino a tardi sebbene i noti problemi che attanagliano le carceri italiane e la penuria di personale. Plaude in tal senso al lavoro di quei direttori che permettono questa permeabilità culturale alle loro carceri, facendo la differenza nel percorso riabilitativo di queste persone, con tutti i rischi che questo inevitabilmente comporta. E ci sono anche dei dati a supporto della bontà di queste azioni, sia nella qualità della residenza sia nella recidiva, Cannavò cita questo studio fatto al Carcere di Opera , in provincia di Milano (il più grande carcere in Italia), e il carcere di Bollate, da parte di Filippo Giordano per conto dell’Università Bocconi. Tra le cose che il giornalista fa notare c’è il capitolo spese: l’80% dei fondi vanno nelle spese del personale, solo l’8% per i carcerati e di questo il 2,5% per le attività trattamentali. Cannavò legge alcuni risultati scritti dagli stessi carcerati che hanno partecipato alla ricerca di Giordano: «Ho un buon rapporto con la polizia penitenziaria», «Riesco a stare calmo in situazioni stressanti», «Capisco quasi sempre le necessità degli altri», «Mi fido degli altri», «Mi piace lavorare in squadra», «La mia famiglia è fiera di me», «Le mie azioni e i miei sforzi determineranno il mio futuro», «Sono bravo a gestire i conflitti», «Mi piace essere pieno di cose da fare», «Sono aperto alle idee degli altri», «Complessivamente sono soddisfatto di me stesso». Sebbene le palesi difficoltà economiche non sono pochi gli istituti che cercano di integrare alla propria normale attività progetti teatrali, come nel Carcere di Opera dove fu perfino prodotto un musical, e in cui per l’occasione si prese la decisione di diminuire il numero degli agenti adoperati per il controllo dei detenuti da 80 a 42, di fronte alla palesata diminuzione degli episodi di aggressività. Oppure il Carcere di San Vittore a Milano, primo luogo in assoluto dove è stata mandata la Prima Diffusa, evento pubblico in cui viene trasmessa la prima alla Scala attraverso anche un apparato critico e di dibattito col pubblico partecipante. I detenuti di San Vittore potevano chiedere di partecipare alla prima e quindi incontrare il direttore del teatro e il regista dell’opera. Nel carcere è presente una scuola di cucina, e così durante gli intervalli c’è persino il rinfresco. Tra l’Opera, il cibo e gli incontri si crea una situazione di parità e di comunità, che aiuta a sdoganare anche l’impressione che certe attività siano ad appannaggio esclusivo di un certo certo sociale, dei ricchi. Questa permeabilità culturale, chiude Cannavò, può solo arricchire un contesto dove troppe volte chi delinque viene da situazioni a bassa scolarizzazione, la cultura diventa un mezzo per creare legami, relazioni, incontri, identità e fiducia.

«È una bomba», si apre così l’intervento di Micaela Casalboni, attrice e co-direttrice della Compagnia Teatro dell’Argine che da diversi anni partecipa alla rete nazionale “Per Aspera ad Astra” con i suoi progetti all’interno della Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna. Continua Casalboni: «Lo spettacolo di ieri [Dirimpetto] è una bomba di gioia, di vita, di arte, di trasformazione dello spazio», non solo, l’attrice di stanza a Bologna nota anche una prossimità stilistica con gli Scarti nell’uso delle masse in scena, e più curiosamente nell’uso dello sport come metafora, al centro del progetto dello scorso di Teatro dell’Argine Solo in campo la vita sparisce, prodotto nel Carcere di Bologna, anche se in quel caso lo spettacolo si teneva su un campo da calcio vero e proprio. Non necessariamente per Casalboni tutte queste esperienze si traducono in professionalità teatrali, ma nella dimensione del gioco c’è intrinseca una riconciliazione con la società. Diventa significativo quindi che lo spazio del teatro non sia uno spazio “personale”, cioè identificato con una compagnia o una istituzione, ma che invece si possa vivere come uno “spazio terzo”, da riempire di significato. In questo modo si possono generare discorsi di parità che riconoscono il diverso, il teatro come palestra di convivenza civile («Qui noi siamo unità»), un «mercato delle storie» lo definisce l’attrice, dove ricreare una lingua comune. Su quest’ultimo concetto Casalboni porta come esempio l’esperienza dell’attuale gruppo di lavoro nella Casa Circondariale di Bologna (detta la “Dozza”), in cui hanno trovato pochissime persone alfabetizzare, ci sono molti cittadini appena arrivati in Italia e altri con invece pochissima scolarizzazione, per cui immaginare un teatro di parola diventa molto più difficile. E quindi questo “spazio terzo” può diventare davvero un luogo d’incontro solo se si trova un linguaggio orizzontale valido per tutti. Buona parte delle pratiche che adesso vengono applicate alla “Dozza” arrivano dalla lunga esperienza di Teatro dell’Argine con i ragazzi delle scuole di Bologna. Trent’anni fa, durante i primi contatti con i liceali, la compagnia si rese subito conto che “trascinare” i ragazzi a teatro sarebbe risultato solo controproducente, e così decisero che sarebbe stato meglio per loro farlo il teatro. I laboratori di Teatro dell’Argine, tra le loro peculiarità, hanno anche il fatto di essere sempre aperti a tutti, chiunque voglia partecipare al di fuori dei gruppi, che siano liceali o detenuti. Nel 2017 questo tipo di progettualità fu portata all’Arena del Sole di fronte non ai soliti familiari, ma ai frequentatori abituali del teatro, il progetto si chiamava Futuri Maestri (che tra le altre cose ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica) ha portato 1000 ragazzi e ragazze (350 per sera) sul palco, due anni di progettualità che si sono svolti attorno a cinque parole chiave del contemporaneo: lavoro, amore, guerra, crisi e migrazione. I ragazzi s’impegnarono in un percorso complesso, tra scrittura drammaturgica e incontri val vivo (tra gli altri ospiti: Michela Murgia, Daniel Pennac, Roberto Saviano). Da questa esperienza nasce in assoluta continuità Politico Poetico (Premio Ubu 2020-2021, Premio Rete Critica 2021), dove al contrario del solito è stata la compagnia a dover seguire e approfondire i temi urgenti per i ragazzi, dalle lotte ecologiste a quelle sull’identità di genere. Per sintetizzare efficacemente l’attività di Teatro dell’Argine, Casalboni cita uno dei suoi fondatori, nonché compagno, Andrea Paolucci: «È come il decathlon», un continuo susseguirsi di pratiche diverse con lo stesso obiettivo, il teatro.

(foto di Irene Malfanti)

Il mio intervento invece si è incentrato sul concetto di eccellenza. Pur cercando la brevità ho dovuto cominciare con Aristotele. Nella Poetica di Aristotele si fa una gran fatica a trovare una definizione di teatro, e forse la cosa che ci va più vicina è questo passaggio: «Chi imita [“chi recita”, N.d.A.], imita persone in azione». Eppure «azione» non di certo la prima parola che viene naturale associare al teatro classico greco, che invece è spesso evocato come un teatro frontale, statico, con il coro che si staglia sul fondo e i lunghi monologhi morali sui proscenio. Ma in realtà non era così, anzi, non a caso Aristotele nell’indicare il suo punto di riferimento per il teatro cita Omero, che fu tante cose (e probabilmente anche tante persone) ma non un drammaturgo. Ma ciò che per Aristotele era palese per noi è invece controintuitivo, il racconto di Omero infatti non era per nulla statico e frontale perché era pensato per essere musicato. La musica sosteneva i momenti di tensione, accelerava prima delle battaglie e calava alla fine di queste. Noi non sappiamo come suonasse la musica nell’antica Grecia, neanche a teatro, eppure lo stesso Aristotele la cita spesso come elemento fondamentale della costruzione drammaturgica. Queste informazioni mi sono balenate proprio mentre stavo guardando Dirimpetto, e quando poi siamo usciti dal Dialma, a mente fredda, ho anche ripensato allo spettacolo dello scorso anno a conclusione del laboratorio con gli studenti, ovvero Cantico degli alberi, e ho trovato delle similitudini musicali. Cantico degli alberi era caratterizzato da un testo denso, complesso, mentre Dirimpetto è sostenuto da una scrittura veloce, agile, ritmica, in teoria quindi opposti stilisticamente, eppure uniti da un elemento: la dinamica. L’espressività della dinamica nella regia di Casale è quanto più si avvicini a quell’ideale di teatro che Aristotele cercava di definire nella Poetica. La partitura dei suoi lavori non prende in esame solo la parola, ma ogni suono, dal battere delle mani ai tamburi, senza svilire lil testo ma restituendo importanza all’azione, infatti Aristotele non dice «Chi imita, imita persone che parlano» eppure cita Omero, che l’azione non la poteva compiere, questa contraddizione è risolvibile solo nel momento in cui la parola si fonde con la musica e l’azione è il vero vettore del concetto. C’è un altro concetto che torna spesso nella Poetica, quello di aretè. Noi spesso traduciamo aretè con “virtù”, ma è un errore. Un famoso studioso inglese, Humphrey Davy Findley Kitto, un esperto di tragedia greca, scrisse nel 1952 un testo fondamentale sulla cultura ellenica, The Greeks (I Greci), dove spiegava il concetto di aretè: «Essi [gli eroi] tendono a quella dote morale che noi indichiamo come “virtù” ma che è, in greco, aretè, eccellenza». Aretè è l’eccellenza nel fare, diventare migliori in qualcosa che ci distingue, fare qualcosa con aretè significa fare qualcosa con un alto valore sociale oltre che individuale. Uno spettacolo con molta aretè va ben oltre il concetto di catarsi, è capace di esprimere un’eccellenza che contamina lo spettatore come il perfetto gesto atletico di uno sportivo («Solo il fenomeno fa miracoli» veniva detto ad un certo punto dello spettacolo), crea entusiasmo e senso di appartenenza, crea unità. L’aretè è ciò che le regie di Casale esprimono sopra ogni cosa, anche senza capire nessuna parola di Dirimpetto o di Cantico degli alberi, si comprende perfettamente l’intenzione di ogni azione, e questa urgenza meravigliosa è l’urgenza del teatro.

Chiude la nostra tavola rotonda Maria Cristina Bigi, direttrice della Casa Circondariale Villa Andreino di La Spezia (da dove vengono gli attori detenuti di Dirimpetto) e della Casa di Reclusione di Massa. L’intervento della direttrice principia mettendoci di fronte ad una delle tante contraddizioni del carcere, ovvero il suo ipotetico obiettivo di avviare un processo di responsabilizzazione delle persone attraverso, però, una deresponsabilizzazione di fatto. In carcere infatti è concesso fare nulla senza prima farne domanda tramite il modello 393, la così detta “domandina”. Ciò da cui la direttrice, all’inizio del suo percorso professionale, voleva assolutamente evitare di essere «fagocitata» era proprio questa staticità burocratica, e invece predisporre dei correttivi per rendere il carcere una “pausa” utile nella vita di queste persone. Tra le varie iniziative da lei proposte in quest’ottica c’è “l’Apericella”, un modo per mettere in comunicazione il corso di cucina interno alla struttura con la società civile, rendendo il carcere permeabile all’esterno e quindi alla vita. Nell’idea dietro questo genere di progetti non c’è la negazione della funzione retributiva della pena, ma il riconoscimento della dignità di quelle persone dando un senso a quel tempo speso in carcere. Il carcere per avere un senso, afferma Bigi, deve essere trasparente, dev’essere accessibile come un quartiere della città. Questa trasparenza aiuta anche l’istituzione e i suoi rappresentanti, che entrano anche loro in relazione con ala società. Che il personale del carcere possa assistere a partecipare a queste attività è dunque considerato altrettanto fondamentale per Bigi, e ne abbiamo avuto una controprova respirando il clima positivo e di partecipazione che c’era in sala la sera precedente. Il 2,5% citato precedentemente da Cannavò diventa quindi importante usarlo per creare uno spazio dove la vita possa migliorare, e il teatro è una delle attività che consegue tale obiettivo. Anche la direttrice ci tiene a ricordare l’eccezionalità dell’evento, con la compresenza di studenti e detenuti, una scommessa vinta anche sul pregiudizio. Le prove dello spettacolo sono state fatte in una piccola chiesetta dentro il carcere, e i ragazzi per raggiungerla dovevano attraversare tutte le sezioni detentive fino al terzo piano. Questo incontro non può che essere salutare poiché provoca consapevolezza, Bigi ricorda assieme a noi l’idea che aveva del carcere di Regina Celi a Roma quando da ragazzina ci passava vicino: «Una scatola, dove dentro sarebbero potuti esserci tutto e niente». Una prova emotivamente sfiancante anche per i detenuti, che avevano a che fare con ragazzi dell’età dei loro figli. Il ruolo di chi fa questo lavoro, conclude Bigi, è quello di non compromettere le speranze delle persone e di dargli degli obiettivi. Creare speranza e far riflettere sugli obiettivi raggiunti, attraverso il dispositivo del teatro diventa qualcosa di tangibile, autentico, partecipato. Solo attraverso questa strada il carcere può avere senso.

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