Una restituzione dei miei due giorni degli Scarti (La Spezia, 6-7 maggio 2023) presso lo spazio del centro “Il Dialma – cantiere creativo urbano”, in cui ho potuto assistere alla messa in scena di Dirimpetto. Sinfonia d’un tratto di strada e partecipare alla tavola rotonda “Teatro, Carcere, Comunità” coordinata da Renato Bandoli.
“Camminando per un mercato, Banzan colse un dialogo tra un macellaio il suo cliente. «Dammi il miglior pezzo di carne che hai» disse il cliente. «Nella mia bottega tutto è il migliore», ribatté il macellaio. «Qui non trovi un pezzo di carne che non sia il migliore». A queste parole Banzan fu illuminato.” Questa che avete appena letto è una delle 101 storie zen raccolte da Nyogen Senzaki e Paul Reps negli anni ’50 del novecento, e per diversi anni l’ho trovata completamente priva di senso. Ditemi voi perché Banzan dovrebbe avere un’illuminazione su una banalità del genere? Cosa avrebbe dovuto dire il macellaio, che era meglio la carne di un altro, magari poco più avanti? Quello che non avevo capito di questa semplice storia è la sua profonda moralità. Siamo così abituati a non vedere l’eccellenza quando si esprime nel suo quotidiano che la derubrichiamo ad un gesto dovuto, ma non è così. Banzan si accorge che non ci può essere un pezzo di carne migliore, ma solo la nostra capacità di riconoscere l’eccellenza nel gesto del macellaio, la nostra predisposizione a farci contaminare dalla sua bravura e dalla sua tecnica. Questa bellissima illuminazione (in giapponese: satori, 悟) ci racconta molto della nostra società, siamo spesso impediti da limiti pre-giudiziali nel notare quando qualcosa con un enorme potenziale ci si disvela davanti. E così quando guardiamo a certe realtà del quotidiano, come il macellaio sotto casa, il nostro vicino clarinettista che prova tutto il pomeriggio, gli studenti che protestano per una scuola più accessibile, oppure i carcerati che si mettono in scena giocando al gioco della società senza più nulla da perdere, rischiamo di lasciarci sfuggire la bellezza che queste situazioni possono esprimere, perché distratti da ciò che non è importante. E allora il teatro, delle volte, è un ottimo mezzo di trasmissione dell’eccellenza del quotidiano, di riscoperta della meraviglia.
Dirimpetto. Sinfonia d’un tratto di strada, per la regia di Enrico Casale, ha debuttato al Dialma di La Spezia sabato 6 maggio, e sebbene di teatri ne frequento decisamente di più che di macellai, anch’io come Banzan ho avuto il mio satori. Questo spettacolo è l’esito conclusivo di un percorso che tocca il quinto anno consecutivo di collaborazione tra gli Scarti e il progetto di rete sul teatro in carcere promosso da ACRI e sostenuto da 11 fondazioni di origine bancaria (in particolare Fondazione Carispezia, fondamentale per il sostegno al progetto sul territorio): “Per Aspera ad Astra”, che dal 2018 a oggi è attivo in ben 15 carceri italiane. Ma per rendere il tutto ancora più fragile, complesso e impegnativo questo spettacolo non si è avvalso esclusivamente degli attori detenuti della Casa Circondariale di La Spezia, ma anche degli studenti delle scuole superiori che seguono il laboratorio teatrale degli Scarti (“No Recess!”). Mettere sullo stesso palco studenti e carcerati può sembrare inutilmente complicato o addirittura un gesto per attirare l’attenzione, ma quella tensione che altrimenti diventerebbe morbosità (e quindi distrazione) evapora immediatamente grazie ad una regia mutevole e stratificata, che non lascia spazio a dubbi sull’urgenza artistica dietro al progetto.
La prima visione dello spettacolo è un fermo immagine che come un’ouverture ci introduce a tutti i principali temi che affronteremo durante la messa in scena: un prato verde da campo sportivo, le panche di legno sistemate in modo da lasciare un corridoio al centro come in chiesa, in fondo un santino di Maradona che scruta il cielo e davanti a noi un uomo pronto a scagliare una pietra. La partita in corso è tra la squadra di Caino e quella di Abele, tra gli studenti e i carcerati, due istituti che stanno dirimpetto l’un l’altro in via Fontevivo a La Spezia, proiettati in una competizione sportiva dove non si capisce bene che sport sia, eppure le regole sembrano le solite, c’è chi vince e c’è chi perde. Ci sono diversi piani di narrazione che s’intrecciano, c’è la religione che è anche una satira sul teatro come istituzione morale, c’è la questione della rappresentazione dei giovani nella società («Non manifestiamo per niente e per nessuno!»), c’è persino un dispositivo tipico del così detto teatro civile, ovvero delle proiezioni video che ci mostrano la vita reale dalla quale prende spunto la metafora del teatro, sembra insomma che questa via Fontevivo diventi quasi la strada di Do The Right Thing di Spike Lee, una via dove si può misurare la temperatura dell’intero paese. In alto c’è un punteggio: Caino 0 / Abele 0, una partita truccata potremmo dire, perché tutti sappiamo biblicamente chi vincerà, eppure seguiamo lo stesso con trasporto i nostri eroi, due attori carcerati, Caino in rosso e Abele in un candido bianco, che aizzano il pubblico con slogan e frasi a effetto per simpatizzarselo.
Ciò che lascia veramente impressionati di questa complessa macchina scenica è che tutto funziona a dovere, e con un ritmo forsennato le scene cambiano continuamente. Abbiamo le due squadre sedute una di fronte all’altra che si guardano in cagnesco, poi c’è un coro e uno scontro uno a uno al centro, masse che entrano dal fondo scena e individui che le spezzano passandoci attraverso, il tutto senza soluzione di continuità, neanche hai il tempo di vedere un attore uscire da una quinta che da un’altra ne entrano dieci cambiando completamente la prossemica in scena. Per riuscire a dare forma a questa moltitudine di piani narrativi senza confonderli Casale sveste i panni del regista e indossa quelli del direttore d’orchestra, con una mano da il tempo e con l’altra segue i crescendo e i diminuendo della sua folle e eversiva sinfonia urbana. Ma invece degli squillanti timbri di Gershwin che raccontava l’America degli anni ruggenti, splendida e ottimista nella sua Rhapsody in Blue, Casale crea una più complessa trama sonora, i cui due elementi in dialettica sono il gruppo e l’individuo. Gli studenti e i carcerati si muovono come in un musical di Broadway, consapevoli dello spazio che occupano ma soprattutto del perché. Tra i vari personaggi che compaiono e scompaiono c’è un giovane direttore d’orchestra che sembra proprio l’avatar di Casale che tiene il tempo delle battute, segnando con la bacchetta ogni enunciato come fosse scritto non su un foglio ma su uno spartito. Ad aiutare nel gestire questi ritmi forsennati c’è un testo semplice, costruito attorno a pochi concetti che vengono reiterati per tutto lo spettacolo («Non siete dei simboli, siete unità», «Noi siamo sotto lo stesso tetto», «Il mito vince la morte»). Questo è un aspetto che mi colpisce particolarmente, almeno in riferimento allo scorso spettacolo prodotto dagli Scarti sempre con i ragazzi del laboratorio “No Recess!”, ovvero Canto degli alberi, tratto dal romanzo di Antonio Moresco che lui stesso ha rielaborato in forma drammaturgica. Presentato il 7 maggio dello scorso anno, Canto degli alberi si snodava attorno ad un testo-flusso, che se letto su pagina non lasciava davvero respiro, più vicino al romanzo che ad una prosa teatrale, il che rischiava evidentemente di sfociare in una messa in scena frontale, statica, da teatro borghese. E invece anche il quel caso Casale riuscì a trasformare lo spettacolo in una creatura in continua mutazione, una lunga coreografia che cominciava nel cortile del Dialma e poi, come le radici di un albero, prendeva possesso dell’intera struttura, spostando il pubblico assieme allo spettacolo, dando un ritmo a quelle parole che era al servizio dell’azione, di nuovo, come un ispirato direttore d’orchestra.
Il mio personale satori è stato quello di capire che è un limite quello di godere di questi spettacoli e delle loro eccellenze come se fossero degli eventi irripetibili, il magnifico potenziale che si è intravisto in scena carcerati e studenti lo posseggono sempre, ben oltre le mura del teatro, ed è solo a causa dei pregiudizi e della consuetudine che non ci rendiamo disponibili a lasciarci stupire da loro, e gli diamo così anche sempre meno possibilità per farlo. Forse come il buon Banzan dobbiamo fare più attenzione alle cose che ci accadono intorno, alle piccole meraviglie che, delle volte, riserbano l’illuminazione tra la strada di casa e quella per il teatro.
Rimasi così affascinato da questa contraddittoria continuità tra lo spettacolo dello scorso anno questo Dirimpetto che ne parlai anche il giorno dopo, durante la tavola rotonda “Teatro, Carcere, Comunità” che si è tenuta al Dialma nella cornice della collaborazione con “Per Aspera ad Astra”, assieme a Cristina Valenti, Alessandro Cannavò, Micaela Casalboni e Maria Cristina Bigi. Qui il report
L'autore
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Blogger, scrive di teatro per Altre Velocità e cura il blog di critica rock "Una volta ho suonato il sassofono". Ha condotto nel 2017 il podcast di musica underground Ubu Dance Party.