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Esagerazione e disincanto. I tanti corpi di VIE Festival

di Francesca d’Arielli

Questo articolo è esito del laboratorio “Per uno spettatore critico”, organizzato da Altre Velocità durante VIE Festival 2022.

Non è stato come sbirciare attraverso lo spioncino del portone d’ingresso di un grande teatro. Non è stato neppure come sentirsi alla ricerca di un nuovo che serba le promesse di un futuro ignoto. È stato piuttosto come esser trascinati in un vortice fatto di sperimentazioni, linguaggi ed espressività: l’intenzione che ha sotteso all’intera programmazione di Vie festival, per citare il direttore di ERT Valter Malosti, è stata quella di “affiancare alle giovani promesse del nostro teatro i grandi maestri riconosciuti tali a livello internazionale”.

Tanti, infatti, i nomi protagonisti del festival, maestri e promesse, come è giusto definirle.

Due i “grandi” che hanno aperto e chiuso il festival: Bouchra Ouizguen, coreografa marocchina tra le protagoniste della scena della danza contemporanea ha dato il via alle performance con Éléphant, spettacolo che raccoglie tradizioni popolari, suoni, odori e sensazioni di un archetipo femmineo legato all’istintualità vitale e apotropaica che caratterizza esplicitamente le origini africane della coreografa, ma che si riallacciano ad un modo di percepire e amplificare le emozioni più profonde dell’essere umano che anche noi, spettatori analfabeti di un contesto culturale così distante, proviamo solo attraverso suoni, odori e sensazioni che traduciamo secondo il nostro sentire. Ciò che ne viene fuori è l’esaltazione delle radici e dei legami attraverso un intreccio di passi (poco coreografi, e molto naturali) e di canti, anch’essi portatori di una sonorità eterna e lontana nel tempo e nella psiche.

Bouchra Ouizguen insiste sul senso di ritualità e ciclo vitale: analizza gli aspetti gioiosi legati alla sensualità, all’amicizia e alla festa, e subito dopo si concentra sull’idea di vuoto e di perdita a cui è possibile sopravvivere unicamente trovando conforto e forza in chi resta e condivide lo stesso fardello. Per la coreografa è stato significativo analizzare il tema della perdita specialmente in un periodo storico come quello della pandemia che, tra le altre cose, ci ha costretto a confrontarci su una solitudine anche fisica, meno esplorata di quella psicologica o affettiva.

foto di Tala Hadid

Il senso della privazione è centrale anche nello spettacolo che, invece, ha chiuso il festival, l’attesissimo Imagine di Krystian Lupa. Tra le figure di maggior spicco nel panorama teatrale europeo, il regista polacco dedica il suo ultimo lavoro al concetto della fine di un’era e del crollo dei miti: nella prima parte dello spettacolo osserviamo il decadimento fisico e l’affaticamento mentale di un ex guru del Sessantotto che, non è esplicitato il perché, richiama e raduna nuovamente i suoi vecchi “compagni” che ora, uno alla volta e incarnando vecchie glorie del passato, tornano a fargli visita e a ricostruire, seppur in un contesto totalmente differente, la vecchia comune che avevano formato insieme.

Il gruppo si interroga su cosa sia potuto succedere, sul perché siano rimasti privi di guide, su cosa abbia potuto non funzionare. Risposte non vengono date, poiché ciò che importa è restituire la sacralità di un tempo perduto, che prova a riemergere con l’apparizione (che ricalca la figura cristologica) di John Lennon, a cui fa esplicitamente riferimento il titolo. Il tempo si dilata, le luci si accendono, e lo spettatore è sospeso nell’osservare lo svolgimento del rito di rinascita. Una rinascita fittizia, che si conclude con un’orgia di corpi nudi ricoperti da un telo di cellophane, così che almeno loro non prendano polvere a differenza dei mobili e del contesto attorno.

foto di May Zircus TNC

Anche in questo caso, sembra che l’unico modo per combattere il sentimento della perdita sia unirsi in una corporeità esagerata, esplicita e invadente: tutto il festival, con la rassegna “Carne”, focus di drammaturgia fisica curata da Michela Lucenti, è stato improntato a una dimensione che fa del corpo, appunto, il suo centro.

Sembra scontato: se si vuole far percepire allo spettatore la sensazione di festa e abbondanza si allestirà il palco con una scenografia massiccia, ci sarà caos, rumore, luci al limite del fastidioso, e tante voci, tante parole. Al contrario, seguendo la stessa linea logica, al fine di mostrare il senso di perdita ci sarà il silenzio, gli spazi vuoti, i contorni privi di forma, il buio.

Però, come si è visto, a Vie molti spettacoli non solo non hanno rispettato questa dicotomia apparentemente lineare, ma anzi l’hanno ribaltata, coniando un inusuale quanto irresistibile registro espressivo capace di condurci nel cuore della riflessione a partire non da “ciò che è”, ma dal suo opposto. Lo abbiamo visto in Éléphant e in Imagine, ma appare forse ancor più evidente nel magistrale quanto sontuoso Opening Night, stella di diamante che ha illuminato il Bonci di Cesena. A proposito di eccesso, la compagnia spagnola diretta dal coreografo Marcos Morau, La Veronal, ha dato vita all’idea, non originale ma sempre affascinante, del contrasto tra vita e teatro, tra realtà e finzione, e per farlo ha fatto sfoggio di una ricchezza (in termini di qualità, effetti speciali e narrazioni) certamente esagerate, nel senso di “oltre il necessario”, che però si mostra come una scelta che si iscrive perfettamente nel paradigma di assenza-abbondanza. Lo spettacolo ha voluto mostrare allo spettatore tutto ciò che è dietro il sipario, dalla costruzione degli spazi alla preparazione degli artisti, dall’allestimento scenico ai movimenti dei tecnici del suono e delle luci, tanto che la scenografia ricorda un cantiere, un luogo di costruzione, qualcosa che rimanda al macchinoso e al divenire. Una struttura massiccia, solida, che si scontra con la parte più aerea e gustosa dell’arte: la performance e il talento che vive nei gesti della compagnia, che tesse sul palco intere coreografie basate sulla tecnica Kova, da loro inventata, che permette al corpo di muoversi a scatti, in maniera nervosa eppure fluida, forzando principalmente le articolazioni.

Morau ha scelto dunque di rappresentare la voragine esistenziale solo apparentemente nascosta dietro il “velluto” e il lustro della protagonista, che più volte si rivolge al pubblico, a metà tra l’esaltazione della propria arte e una implorante richiesta d’aiuto. C’è persino un momento in cui lo spazio scenico straborda e i ballerini scendono dal palco per invadere la platea, fino ad arrivare a un soffio dagli spettatori.

Questo vale per tutti gli spettacoli finora nominati: in ognuno di essi c’è almeno un momento in cui il pubblico viene quasi sfidato, costretto a fronteggiare un’esagerazione fisica che è parte stessa della drammaturgia da loro proposta.

Éléphant colpisce per l’aggregazione corporea che si erge proprio nel momento in cui lo strazio della perdita raggiunge il suo culmine, e anche il canto, da profondo e caldo, si fa più acuto e meno melodioso. In Imagine la climax segue una traiettoria simile: definisce la scena, scandisce l’atto, e viene usata dal drammaturgo come apice narrativo che tiene sospeso lo spettatore e si esaurisce lentamente, come se tutto morisse, come se i corpi, l’uno su l’altro, fossero ormai larve marginalizzate al lato del palco. Un senso di pena pervade lo spettatore e a sipario chiuso, negli istanti che precedono l’intervallo che separa il primo e il secondo atto, riecheggia il contrasto tra l’invadenza fisica mostrata al momento dell’apparizione di Lennon e il crollo dei miti di cui i corpi inermi sono rappresentazione viva e spoglia.

foto di NK

In Opening Night, infine, si ha sì la percezione di star osservando qualcosa di imponente e magistrale, ma alla fine dello spettacolo, una volta esaurito lo splendore e il rapimento, non ci si può che porre una domanda: a cosa è servito tutto ciò? Non c’è stato forse uno squilibrio tra le forze messe in scena e la fiacchezza data da quel retrogusto amaro, che vive nella zona grigia tra realtà e finzione, tra soddisfazione e insoddisfazione (“grazie a voi, che mi permettete di esistere”, dice l’attrice rivolta al pubblico), che alla fine resta in chi osserva?

Si tratta di scelte drammaturgiche che, consapevolmente o meno, allargano gli orizzonti della rappresentazione e si inseriscono in un universo in cui il corpo, ciò che di più terreno e concreto abbiamo, si fa promotore di un corollario di immagini e sentimenti che difficilmente riesce, nelle forme che le sono classiche, a replicare: come può infatti la carne, solida e presente, evocare l’assenza? I tre grandi maestri di quest’edizione di Vie hanno dimostrato che c’è un’altra via alla rappresentazione più comune, e l’hanno fatto attraverso l’esagerazione e il disincanto. Tanto spazio viene dunque dato al corpo, che arriva allo spettatore in forme intense e inattese; proprio in questo modo, però, viene comunicato il sentimento di smarrimento. Anche noi, così, ci sentiamo smarriti.

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Una risposta

  1. Semplicemente meravigliosamente coinvolgente e affascinante, complimenti anche per la scrittura appropriata ed elaborata nella sua fresca stesura che arriva al cuore e alla mente.

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